a cura del dott. Domenico CIRASOLE
Il caso in questione vede TIZIA ricoverata nel reparto di ginecologia del suo paese, per completare un iter diagnostico.
Per concludere detto iter diagnostico il dott. CAIO, ginecologo della struttura ospedaliera del paese, ritiene d’eseguire indagini invasive, quindi propone alla signora TIZIA di sottoporsi ad esame diagnostico in laparoscopia.
Il dott. CAIO, dopo aver descritto, l’esame diagnostico, illustrava le possibili complicanze dell’indagine invasiva.
Il dott. CAIO, ricevuto il consenso, sottoponeva la signora TIZIA, al delicato esame di laparoscopia diagnostica, con l’auspicio che detta procedura, si concludesse con una diagnosi certa della patologia di cui TIZIA era affetta.
A seguito della diagnosi certamente il dott. CAIO, avrebbe proposto alla sig. TIZIA le opportune cure, che nella scienza medica si distinguono in farmacologiche e chirurgiche, a seconda della gravità della patologia.
Presumibilmente la sig.ra TIZIA si era rivolta presso il reparto di ginecologia del suo paese, per veder diagnosticare la patologia da cui era affetta, ma anche per veder curare detta patologia.
Presumibilmente la sig.ra TIZIA si è coscientemente affidata al centro di diagnosi e cura che meglio riteneva congruo.
Durante l’esame diagnostico, il dott. CAIO, fatta diagnosi, valutava l’opportunità di procedere alla cura chirurgica della patologia, di cui TIZIA era affetta, e procedeva, senza alcuna interruzione, a intervento di salpingectomia, con relativa asportazione di una tuba ovarica.
L’intervento demolitivo, a parere del dott. CAIO, risultava essere stato una scelta corretta ed obbligata.
L’intervento fu eseguito nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media.
L’intervento demolitivo eseguito dal dott. CAIO si era concluso con esito fausto; infatti dalla cura chirurgica, era conseguito un oggettivo, e apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, di TIZIA.
L’intervento era riuscito nel suo intento e soprattutto non aveva causato alcun danno o conseguenza lesiva alla sig.ra TIZIA.
La speciale difficoltà della diagnosi aveva indotto il dott. CAIO a proporre la laparoscopia.
La laparoscopia si rende indispensabile per giungere alla diagnosi relativa a sintomi (ad esempio il dolore pelvico cronico) che non si riesce a spiegare con altri metodi di indagine precedentemente eseguiti (ecografia, esami di laboratorio, ecc.).
In questi casi spesso la laparoscopia consente di formulare una diagnosi precisa e al tempo stesso consente di intervenire sulle patologie riscontrate (aderenze, endometriosi, Cisti ovariche, Fibromi uterini, Gravidanza extrauterina ecc.).
Bene aveva fatto il dott. CAIO, ad asportare la salpinge della signora, , ritenendo non opportuno l’interruzione dell’intervento.
La salpingectomia è un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di una o di entrambe le salpingi, o tube uterine, e che viene attuato in caso di processi patologici di varia natura che abbiano colpito le tube senza tuttavia ledere le ovaie.
Questo intervento può essere un’urgenza chirurgica in caso di rottura della salpinge che causa emoperitoneo.
La signora TIZIA in seguito, denuncia il dott. CAIO, per lesioni volontarie.
A motivo della denuncia, TIZIA riferisce di non aver dato alcun consenso al dott. CAIO in merito alle cure.
Infatti il dott. CAIO aveva informato la sig. TIZIA, che sarebbe stata sottoposta a intervento di laparoscopia diagnostica.
Pertanto, mancavano adeguate informazioni sull’intervento, sulle possibili complicanze e conseguenze e il consenso validamente prestato dalla paziente.
Si potrebbe dedurre che già in fase di programmazione della laparoscopia era prevedibile l’asportazione della salpinge, e quindi potrebbe ravvedersi un’omissione da ascrivere, al dott. CAIO, in ragione della elevata prevedibilità dell’intervento chirurgico.
Se il dott. CAIO ipotizzando di asportar la salpinge della sig.ra TIZIA, l’avesse correttamente informata, la stessa, accettando la procedura diagnostica, avrebbe anche esplicitamente dato il consenso alla asportazione in questione.
Quindi ella avrebbe operato una scelta consapevole e volontaria sull’intervento proposto, dando un consenso valido e specifico, che implicitamente avrebbe fatto prevedere una piena fiducia all’equipe di medici della struttura ginecologica del paese.
Soprattutto il dott. CAIO avrebbe dovuto riferire alla signora anche le eventuali alternative ipotizzabili.
Il bene salute (integrità psico-fisica della persona), è un bene costituzionalmente garantito (art. 32 Cost).
In base agli articoli 13 e 32 della Costituzione, ogni persona se pienamente capace di intendere e volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico.
I trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge.
Infatti essi vengono previsti quando, la salute del singolo, possa arrecare danno alla salute degli altri.
Ovviamente tali trattamenti non devono arrecare danno, ed essere utile alla salute di chi è sottoposto ( Corte Cost. 258/94 ; 118/96).
L’attività medica è preposta-abilitata dallo Stato, alla tutela del bene salute, fermo restando la necessità del consenso debitamente informato del paziente ( Cass. Pen. 35822/2001; Sez. III civ., 15 settembre 2008, n. 23676).
La sentenza della Cass. Pen. 35822/2001 asserisce che la «legittimità in sé dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico».
Conclude pertanto che «la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo».
L’antigiuridicità della lesione provocata, sul corpo altrui, indipendentemente dal consenso, può essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione.
Il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico.
Il consenso informato, del paziente deve essere posteriore a informazioni relative ai vantaggi presunti, agli effetti collaterali, e ai possibili trattamenti alternativi.
L’art. 5 della L. 145/01 nel ratificare la convenzione Europea stabilisce che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato, se non dopo consenso libero e informato.
In situazioni d’urgenza se non può ricavarsi il suddetto consenso si potrà procedere immediatamente, a qualsiasi intervento indispensabile per la salute.
Il non consenso alle cure mediche deve essere una manifestazione espressa (meglio se scritta), inequivoca, attuale, informata, testimoniata.
Il paziente, per ritener lecito il consenso, deve aver pre-compreso, la propria situazione sanitaria, e il relativo pericolo di vita.
Il consenso del paziente si identifica con il consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p..
Il consenso dell’avente diritto rende lecita l’attività del medico-chirurgo che lede e incide sull’integrità della persona – malato – , senza commettere alcun reato.
Quando manca detto consenso, l’atto del medico diventa illecito penale, diventando lesione personale volontaria, e omicidio preterintenzionale in caso di morte.
Un ultima giurisprudenza ha ritenuto l’attività medica vantaggiosa per coloro che ne beneficiano. (Cass. Pen. S.U. n. 2437 del 18-12-08)
Quindi una prestazione correttamente eseguita, nel rispetto delle leggi mediche non integra reato di lesione personale, per il solo fatto che manchi il preventivo consenso del paziente, essendo comunque derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute della paziente.
Alla luce di detta sentenza, TIZIA ha certamente conseguito un miglioramento delle sue condizioni di salute, oltre all’assenza di danno per la stessa.
Quindi il dott. CAIO pur non informando la paziente, del probabile intervento, ha comunque operato con una condotta psicologica priva di colpa.
Infatti ha voluto evitare che la sig.ra TIZIA si sottoponesse nuovamente al delicato intervento.
La sig.ra TIZIA, informata della procedura diagnostica, ben può aver ipotizzato che a termine di essa, e senza interruzione, potesse conseguire intervento curativo.
Nessuna domanda in merito fu fatta al dott. CAIO, ne tantomeno la sig.ra aveva vietato il dott. CAIO di procedere alle cure.
Quindi si desume che il medico, aveva l’obbligo di curare la sig.ra TIZIA.
Se non avesse proceduto a curare la sig.ra, ad esso poteva ascriversi un reato diverso, omissioni di atti d’ufficio.
Infatti è obbligo del medico diagnosticare, e curare, nel rispetto delle leggi mediche.
Tizio ha operato con un comportamento che và oltre la diligenza media, nel solo interesse della sig.ra TIZIA.
Quindi a parere dello scrivente il dott. CAIO può ben difendersi dalle accuse della sig.ra TIZIA.