Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-04-2011, n. 7950 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

G.D. è stata licenziata dalla società Poste Italiane spa per superamento del periodo di comporto per sommatoria previsto dall’art. 18 del contratto collettivo per i dipendenti della società Poste.

La lavoratrice ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Verona, che lo ha dichiarato illegittimo ritenendo che il periodo di comporto (equivalente a 12 mesi) fosse stato esaurito ma non superato in quanto "secondo lo stesso prospetto delle assenze prodotto da parte resistente la ricorrente è rimasta assente per malattia per 360 giorni (58 giorni nell’anno 1998, 244 giorni nell’anno 1999 e 58 giorni nell’anno 2000)".

La società ha proposto appello avverso detta sentenza sostenendo che il primo giudice non aveva correttamente valutato, ed aveva anzi travisato, i dati risultanti dal prospetto riepilogativo delle assenze per malattia prodotto dalla convenuta; ciò, in particolare, in quanto per l’anno 1999 non sarebbe stata computata l’assenza di una giornata di domenica, che cadeva tra la scadenza di un certificato medico (al sabato) e l’inizio di quello successivo (dal lunedi), e che per l’anno 2000 i giorni di malattia sarebbero stati 63 e non 58.

L’impugnazione, su questo punto, è stata respinta dalla Corte di Appello di Venezia, che con sentenza del 15.6.2006 ha ritenuto che non fosse ammissibile "la proposizione solo in sede di appello di un computo (quand’anche fondato) delle assenze per malattia maggiore di quello applicato ai fini della originaria comminazione del licenziamento".

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Poste Italiane spa affidandosi a un unico motivo.

L’intimata non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

1.- Con l’unico articolato motivo di ricorso la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 18, commi 1 e 4, del c.c.n.l. per i dipendenti della società Poste del 26.11.1994, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalla stessa ricorrente, sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che fosse stata prospettata in sede di appello una situazione di fatto diversa da quella in base alla quale era stato comminato il licenziamento, laddove invece dalla documentazione già prodotta in primo grado risultava ampiamente superato il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo, pari a dodici mesi, e ciò anche a voler ritenere che il termine ivi previsto dovesse essere computato secondo il calendario comune, e cioè come pari a 365 giorni. Nè, peraltro, avrebbe potuto sostenersi che la mancata indicazione specifica, da parte del datore di lavoro, dei giorni di assenza in base ai quali era stato ritenuto superato il periodo di comporto rendesse illegittimo il recesso, posto che, secondo l’insegnamento della S.C., qualora l’atto di intimazione del licenziamento non avesse precisato le assenze in base alle quali era stato superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore aveva sempre la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento e solo in caso di non ottemperanza a tale richiesta, il licenziamento avrebbe potuto considerarsi illegittimo. Nella specie, la lavoratrice non aveva mai richiesto l’indicazione specifica dei giorni di assenza, sicchè non poteva neppure ipotizzarsi l’esistenza di una modifica in peius del computo delle assenze del lavoratore. Per contro, il datore di lavoro aveva provato in giudizio che la G. si era assentata dal servizio a causa di malattia per oltre 365 giorni, dovendo considerarsi, al riguardo, che nel periodo di comporto doveva essere computata anche la giornata del 30.5.1999 (domenica), che cadeva tra due periodi di malattia, in base al principio stabilito dalla Suprema Corte secondo cui nel detto periodo vanno computati anche i giorni non lavorativi e le assenze intermedie del lavoratore tra una malattia e quella seguente, dovendosi presumere in difetto di prova contraria la continuità dell’episodio morboso.

2.- Il ricorso deve ritenersi infondato. Deve osservarsi anzitutto che la giurisprudenza di questa Corte esclude la riconducibilità dell’ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto alla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, ed in particolare alla disciplina del giustificato motivo oggettivo, dichiarandolo soggetto solo alle regole dettate dall’art. 2110 c.c. e ritenendo che il superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. periodo di comporto) costituisca condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (cfr. ex plurimis Cass. 1861/2010, Cass. 19676/2005, Cass. 17780/2005). Al licenziamento per superamento del periodo di comporto sono state, invece, ritenute applicabili, in difetto di alcuna previsione speciale contenuta al riguardo nell’art. 2110 c.c, le regole dettate dalla L. n. 604 del 1966, art. 2 (così come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi di recesso (Cass. 18199/2002, Cass. 13992/99, Cass. 716/97), nonchè dall’art. 5 della stessa legge in materia di onere della prova (Cass. 13992/99), e pertanto, qualora nell’atto di licenziamento non siano indicate le assenze, il lavoratore ha facoltà di richiedere al datore di lavoro di specificarle, fermo restando l’onere del datore di lavoro di provare i presupposti del licenziamento (superamento del periodo di comporto).

E’ stato altresì precisato che, in base alle regole dettate dalla L. n. 604 del 1966, art. 2 sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi di recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali è stato superato il periodo di comporto, il lavoratore – il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifici rilievi – ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che, in caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi illegittimo (Cass. 23070/2007, Cass. 14873/2004). A sua volta, Cass. 11092/2005 ha però anche osservato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare, sibbene ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causale a cui si fa riferimento anche per le ipotesi di impossibilità della prestazione riferibile alla persona del lavoratore diverse dalla malattia. Solo impropriamente, riguardo ad esso, si può dunque parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l’assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue, secondo la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l’indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando sempre l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare compiutamente i fatti costitutivi del potere esercitato.

Quanto ai criteri di computo del termine fissato dal contratto collettivo ai fini della conservazione del posto di lavoro, è stato costantemente ribadito in giurisprudenza che, ai fini del calcolo del comporto, sia esso secco o per sommatoria, fissato in giorni o in mesi, si deve tener conto anche dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso (Cass. 20458/2004, Cass. 13816/2000, Cass. 7672/95 cui adde ex plurimis Cass. 29317/2008). E’ stato inoltre ripetutamente affermato che il periodo di comporto determinato in mesi deve essere computato, salvo diversa volontà delle parti sociali, secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza di essi, secondo il principio desumibile dall’art. 2963 c.c., comma 4, e dall’art. 155 c.c., comma 2, (Cass. 6554/2004, Cass. 8358/99, Cass. 7925/99, Cass. 12057/95).

3.- Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale applicabile alla fattispecie, va rilevato, in primo luogo, che nella fattispecie in esame è pacifico che nella comunicazione di licenziamento per superamento del periodo di comporto non siano stati precisati il periodo e i giorni di assenza computabili ai fini del superamento dello stesso periodo. E’ pacifico anche che la lavoratrice non abbia richiesto al datore di lavoro la specifica indicazione dei giorni di assenza in base ai quali era stato superato il periodo di comporto e che la società abbia prodotto nel giudizio di primo grado un prospetto delle assenze per malattia della G. e copia dei certificati medici inviati dalla lavoratrice per giustificare le assenze.

I giudici d’appello, sulla base della documentazione prodotta dalla società, hanno ritenuto che non potesse considerarsi superato il periodo di comporto, nella specie pari a dodici mesi, posto che detto termine, calcolato secondo il calendario comune, risultava pari a un anno (e quindi a 365 giorni) e che non si poteva tener conto, nel computo delle assenze, della giornata di domenica 30 maggio 1999, che non era stata originariamente calcolata (come evidenziato anche dal prospetto delle assenze) ai fini del superamento del periodo di comporto e che non poteva, quindi, essere presa in considerazione, ai fini dello stesso calcolo, solo in grado di appello per inferirne la computabilità sulla base del principio della presunzione di continuità dell’episodio morboso.

Tale statuizione, per essere adeguatamente motivata e rispettosa dei principi giuridici in precedenza enunciati, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in sede di legittimità.

Va ribadito, infatti, in primo luogo, il principio sopra richiamato secondo cui il periodo di comporto determinato in mesi deve essere computato, salvo diversa volontà delle parti, secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza di essi, così che in caso di durata stabilita in dodici mesi il periodo di comporto è di 365 giorni. La possibilità di procedere alla ricostruzione di una diversa volontà delle parti – eventualmente da integrare con l’equità espressa dal giudice (cfr. Cass. 6554/2004 cit.) – in difetto di clausole contrattuali che assumano espressamente una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni, astrattamente basato sulla durata media del mese, passa attraverso l’interpretazione complessiva delle clausole del contratto, anche indirettamente riferibili alla determinazione del periodo utile ai fini del comporto, che devono tuttavia essere integralmente riportate in ricorso per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr. ex multis Cass. 21388/2005, Cass. 16132/2005, Cass. 12775/2004), non essendo sufficiente la riproduzione solo di alcuni commi. Sempre in virtù dello stesso principio, è necessario che, nel caso sia stata denunciata la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti collettivi, siano motivatamente specificati i canoni ermeneutici negoziali in concreto violati, nonchè il punto e il modo in cui il giudice del merito si sia da essi discostato, restando altrimenti la censura confinata ad una mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta dalla sentenza impugnata (Cass. 1582/2008, Cass. 10374/2007).

Premesso, dunque, che la denuncia di violazione o falsa applicazione delle norme del contratto collettivo appare infondata e, prima ancora, inammissibile per la genericità della sua formulazione, va rilevato che anche le altre censure proposte dalla ricorrente sono prive di fondamento. Ed invero, nel caso in esame, non è affatto in discussione la facoltà del datore di lavoro di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti posti a fondamento del recesso, ovvero di precisare per la prima volta in giudizio, anzichè nell’atto di licenziamento, i singoli giorni di assenza in base ai quali è stato superato il periodo di comporto (una volta che il lavoratore non ne abbia fatto richiesta L. n. 604 del 1966, ex art. 2, comma 2, applicabile, come si è detto, anche al licenziamento per superamento del periodo di comporto). Tale facoltà non è stata, infatti, posta in dubbio dalla Corte territoriale, che ha, invece, rilevato, come non sia consentito introdurre solo in appello un criterio di computo delle assenze meno favorevole per il lavoratore in quanto fondato sostanzialmente sulla prospettazione di fatti che non erano stati allegati, o non erano stati compiutamente allegati, in primo grado. E tale statuizione, al di là di alcune imprecisioni terminologiche contenute nella motivazione della sentenza impugnata, deve ritenersi senz’altro esatta, essendo innegabile che i fatti posti a fondamento della presunzione invocata dalla società per la prima volta in grado appello (ovvero della presunzione di continuità dell’episodio morboso) avrebbero dovuto essere compiutamente allegati già nella memoria difensiva di primo grado, ex art. 416 c.p.c. (e non solo indirettamente desumibili attraverso l’esame della documentazione prodotta unitamente alla memoria difensiva), e che, in difetto di tali necessarie allegazioni, non poteva consentirsi che fosse introdotta per la prima volta in appello una presunzione che avrebbe dovuto essere suffragata da quelle stesse allegazioni (sugli oneri di allegazione e di prova in primo grado e sulla preclusione di cui all’art. 437 c.p.c. in appello, cfr. ex multis Cass. 16201/2009, Cass. 19296/2006, Cass. 8739/2003, Cass. 11444/2002, Cass. 1745/2000, Cass. 11252/99, Cass. 9457/94). La statuizione del giudice di appello deve ritenersi, dunque, del tutto corretta e conforme a legge. Nè, peraltro, può sottacersi che, anche in questo caso, la ricorrente non ha riprodotto integralmente il contenuto dei documenti sui quali si fonda la censura (e dai quali dovrebbe trarsi il fondamento dell’invocata presunzione), limitandosi a richiamarne solo parzialmente il contenuto nell’ultima parte del motivo di ricorso, con ulteriore violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

4.- Il ricorso deve quindi essere rigettato.

5.- Stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata, non deve provvedersi in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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