Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Motivi della decisione
1. I ricorsi proposti avvero la medesima sentenza debbono essere preliminarmente riuniti, come prescrive l’art. 335 c.p.c.
2. Le ricorrenti principali si dolgono, in primo luogo, della violazione degli artt. 458 e 679 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa ritenendo valida la clausola statutaria della quale si discute.
Tale clausola, contenuta nell’art. 22 dello statuto della Vela s.r.l. e riportata sia nel testo del ricorso sia in quello dell’impugnata sentenza, dispone che “in caso di morte di un socio, i rimanenti avranno facoltà di rendersi acquirenti della quota del defunto dietro pagamento di un prezzo da determinarsi in base alle risultanze dell’ultimo bilancio e tenuto conto dell’avviamento dell’azienda sociale”.
Le ricorrenti insistono nel sostenere che la previsione riguardante la facoltà di acquisto da parte degli altri soci della quota del socio defunto contrasta con (o è comunque volta illegittimamente ad eludere) l’inderogabile divieto dei patti successori stabilito dal citato art. 458. A loro parere, infatti, contrariamente a quanto opinato dalla corte d’appello, l’evento della morte del socio costituisce, nella logica della clausola sopra indicata, non già una mera condizione al cui verificarsi è subordinato il diritto di opzione attribuito ai soci superstiti, bensì la vera e propria causa del trasferimento della quota appartenuta al socio defunto. Si tratterebbe, dunque, di un atto dispositivo di un diritto destinato a ricadere nella successione, e perciò di un patto successorio, il cui carattere contrattuale priverebbe lo stipulante della possibilità di revocarlo o mutarlo in un successivo momento, in aperto contrasto con quanto stabilisce il pure già citato art. 679.
3. Anche il secondo motivo del ricorso principale – logicamente subordinato al primo – si riferisce alla clausola statutaria sopra riportata, ed è volto a lamentare la violazione degli artt. 1362, 1366 e 1369 c.c., in cui la corte X sarebbe incorsa nell’interpretare la previsione concernente i criteri di liquidazione del valore della quota del socio defunto.
Secondo le ricorrenti, il dettato letterale della clausola, laddove fa riferimento alle “risultanze”’ dell’ultimo bilancio, non sarebbe affatto così univoco da imporre di ritenere prevalenti i dati formali del bilancio rispetto al valore effettivo del patrimonio sociale. A favore di una diversa opzione interpretativa militerebbero, invece, sia la logica ricostruzione della comune intenzione delle parti, che nulla induce a credere volessero privilegiare la posizione del socio defunto rispetto agli eredi del socio premorto, sia esigenze di buona fede e di equo contemperamento degli interessi in gioco, sia infine la natura stessa dell’operazione, i cui effetti, analoghi a quelli del recesso del socio dalla società, suggerirebbero di applicare un criterio di liquidazione della quota non più penalizzante di quanto accade in quest’ultima ipotesi.
4. Nel ricorso incidentale si assume invece che, avendo le eredi del sig. T. accettato a suo tempo la somma liquidata dagli arbitri quale controvalore della contestata quota societaria, sia pur solo a titolo di acconto rispetto alla maggior pretesa, vi sarebbe stata acquiescenza in ordine all’accertamento della validità della più volte richiamata clausola statutaria e del trasferimento della partecipazione sociale che dall’applicazione di detta clausola è conseguito.
Donde l’eccepita inammissibilità del primo motivo del ricorso principale.
5. L’esame del ricorso incidentale è logicamente preliminare, giacché condiziona l’ammissibilità del primo motivo del ricorso principale.
Le ricorrenti principali hanno però, a propria volta, eccepito l’inammissibilità dell’anzidetto ricorso incidentale, sotto due distinti profili: a) perché si tratterebbe di una questione nuova, mai precedentemente fatta valere nel giudizio di merito; b) perché la doglianza si risolverebbe nel proporre una tesi giuridica favorevole alla parte, senza però contenere l’indicazione delle censure che la parte stessa rivolge all’impugnata sentenza, né dei motivi per i quali se ne chiede la cassazione e delle norme che si assumono essere state violate.
5.1. Conviene anzitutto soffermarsi sul rilievo sub b), che coglie nel segno.
Nel controricorso del sig.M., infatti, dopo l’esposizione degli accadimenti processuali pregressi (ivi compresa la proposta eccezione d’inammissibilità della domanda di controparte, fondata sul presupposto che l’accettazione a titolo d’acconto della somma liquidata dagli arbitri implicherebbe acquiescenza alla statuizione sulla validità della clausola statutaria contestata e sull’intervenuto trasferimento della partecipazione sociale), si passa senz’altro alla confutazione dei motivi del ricorso principale, con la perentoria affermazione secondo cui “l’appellata sentenza si rivela del tutto conforme a diritto” (si veda l’inizio di pag. 7 del controricorso). Nel contesto di tale confutazione ci si limita, poi, ad accennare di nuovo, incidentalmente, ma solo al fine di sollecitare in proposito l’esercizio dei poteri di verifica d’ufficio del giudice di legittimità, all’eventualità che il primo motivo del ricorso principale possa risultare inammissibile a causa del giudicato interno formatosi a seguito della parziale acquiescenza manifestata dagli eredi T. rispetto alle decisioni del collegio arbitrale. Quindi, dopo avere esposto le ragioni d’infondatezza nel merito di entrambi i motivi del ricorso principale, senza ulteriormente tornare sul tema dell’intervenuta acquiescenza né altrimenti sviluppare la tesi sopra evocata, il controricorrente formula le proprie conclusioni riproponendo l’eccezione già sopra accennata “in via di ricorso incidentale” (si veda la conclusione n. 1 del controricorso).
In questi termini, il ricorso incidentale non può non esser dichiarato inammissibile. Difetta in esso, infatti, l’elemento essenziale che deve caratterizzare un tale mezzo d’impugnazione: ossia la richiesta al giudice di legittimità di cassare (in tutto o in parte) una statuizione emessa dal giudice di merito, avendo evidenziato il vizio da cui si sostiene essa sia affetta. Vizio che, in astratto, potrebbe qui consistere: in un errore di diritto, commesso dalla corte di merito nell’applicare o interpretare le norme di legge in tema di acquiescenza della parte all’esito del giudizio arbitrale e di conseguente disciplina dell’ammissibilità dell’impugnazione proposta avverso il lodo emesso dagli arbitri; oppure nella violazione della norma processuale che impone al giudice di pronunciarsi su tutte le domande e le eccezioni proposte dalle parti; o ancora in un vizio di motivazione della sentenza sul punto decisivo consistente nell’interpretare il documento prodotto in causa e nel riconoscere o meno in esso una manifestazione univoca di volontà che configuri la pretesa acquiescenza.
L’impossibilità di propendere per l’una o l’altra di tali alternative, a causa dell’indeterminatezza del modo in cui è formulato il ricorso, ne provoca necessariamente l’inammissibilità e rende superfluo esaminare l’ulteriore eccepito profilo d’inammissibilità del medesimo ricorso dianzi riferito sub a).
5.2. È poi appena il caso di aggiungere che la questione della pretesa acquiescenza degli eredi T. ad una parte della decisione arbitrale, poi integralmente da essi impugnata dinanzi alla corte d’appello, neppure può trovare ingresso in questa sede sotto forma di mera eccezione d’inammissibilità del primo motivo del ricorso principale.
Vi osta il fatto che si tratta di eccezione già sollevata in sede di merito – come la stessa difesa del controricorrente sottolinea, nella memoria depositata a norma dell’art. 378 c.p.c., e come è confermato dall’esame diretto degli atti processuali (consentito al fine di vagliare una questione processuale di ammissibilità) – e che, di conseguenza, avendo la corte territoriale nondimeno provveduto a decidere sull’intera domanda delle impugnanti, detta eccezione deve ritenersi esser stata implicitamente respinta. Con l’effetto che solo un idoneo ricorso, volto a far annullare tale statuizione, avrebbe consentito di riproporre la questione in questa sede.
6. È dunque possibile procedere all’esame del primo motivo del ricorso principale, che si rivela infondato.
Il tema prospettato dal ricorso – come s’è detto – è quello della validità di una clausola statutaria di società a responsabilità limitata che, in caso di morte di un socio, preveda il diritto degli altri soci di acquisire la quota del defunto versando agli eredi il relativo controvalore, da determinarsi secondo criteri stabiliti dalla stessa clausola. Il dubbio se una tal clausola sia o meno valida è sollevato con riferimento al divieto dei patti successori, posto dall’art. 458 c.c., ipotizzandosi o che il descritto meccanismo di acquisto della quota ad opera dei soci superstiti direttamente violi siffatto divieto legale, o che realizzi una modalità fraudolenta di aggiramento del medesimo.
È opportuno prima d’ogni altra cosa sottolineare che la questione deve essere qui affrontata prescindendo dalle novità introdotte nell’ordinamento societario dal d. lgs. n. 6 del 2006, e quindi dalla formulazione del vigente art. 2469 c.c., non applicabile ratione temporis alla presente causa (anche se – sia detto incidentalmente – non sembra che le conclusioni cui si perverrà potrebbero esser diverse neppure nel vigore della nuova normativa).
Ciò premesso, giova ricordare che in epoca ormai risalente questa corte ebbe ad occuparsi di un tema, per certi aspetti, contiguo, riguardante la validità della cosiddetta clausola di consolidazione della partecipazione sociale: per tale intendendosi quella in forza della quale la morte di un socio provoca senz’altro la cessazione del rapporto sociale a lui relativo e l’accrescimento proporzionale della partecipazione degli altri soci, con esclusione sin da principio di ogni eventualità di subentro in società degli eredi del defunto. E siffatta clausola fu ritenuta valida, ma solo a condizione che essa preveda l’attribuzione agli eredi di una somma pari al valore di liquidazione della quota (Cass. 16 aprile 1975, n. 1434).
Pur contenendo già in nuce alcuni spunti di rilievo, ai fini che qui interessano (nella misura in cui ammette la possibile validità di un meccanismo statutario comunque in grado di evitare il subentro degli eredi nella posizione societaria del defunto), tale pronuncia non costituisce un immediato precedente: non tanto perché in quel caso si trattava di una società di persone, e non di capitali, quanto per l’evidente differenza esistente tra la clausola di consolidazione e la clausola in esame nel presente caso. La quale – come già prima accennato e come puntualmente rilevato anche dalla sentenza impugnata – si distingue dall’altra per la decisiva ragione che non ricollega direttamente alla morte del socio l’attribuzione ai soci superstiti della quota di partecipazione del defunto, ma consente che questa entri inizialmente nel patrimonio degli eredi, pur se connotata da un limite di trasferibilità dipendente dalla facoltà degli altri soci di acquisirla, in seguito, esercitando il diritto di opzione loro concesso in tal caso dallo statuto sociale.
Assai più puntuale è il precedente costituito da Cass. 16 aprile 1994, n. 3609, che si riferisce ad una clausola molto simile a quella di cui qui si discute, inserita nello statuto di una società per azioni. In quel caso, si è espressamente affermato che la menzionata clausola non viola il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c., perché il vincolo che ne deriva a carico reciprocamente dei soci è destinato a produrre effetti solo dopo il verificarsi della vicenda successoria e dopo il trasferimento (per legge o per testamento) delle azioni agli eredi, con la conseguenza che la morte di uno dei soci costituisce soltanto il momento a decorrere dal quale può essere esercitata l’opzione per l’acquisto suddetto, senza che ne risulti incisa la disciplina legale della delazione ereditaria o che si configurino gli estremi di un patto di consolidazione delle azioni fra soci. La clausola, insomma, si caratterizza come atto inter vivos, in quanto tale consentita dalla disciplina legale delle società di capitali, nella misura in cui questa non impedisca di sottoporre a particolari condizioni l’alienazione di azioni o quote di partecipazione societaria.
Siffatto orientamento, al quale si è puntualmente attenuta l’impugnata sentenza della corte Xna, merita di essere senz’altro confermato, non rinvenendosi nelle argomentazioni delle ricorrenti alcun valido argomento di segno contrario.
Patti successori infatti sono quelle convenzioni intese a costituire, modificare, estinguere o trasmettere diritti relativi ad una successione futura. Il carattere che li distingue è quello di avere per oggetto l’eredità di una persona vivente; il loro divieto si fonda sulla lesione, che ne discende, della libertà del testatore e della revocabilità delle disposizioni testamentarie che deve permanere fino all’ultimo momento della vita del testatore. Ma, quando si sia fuori dallo schema tipico del patto successorio, il divieto posto dal citato art. 458 non opera, costituendo esso un’eccezione alla regola dell’autonomia negoziale, che non può essere estesa a rapporti che non integrano la fattispecie tipizzata in tutti i suoi elementi (si veda, in tal senso, anche Cass. 18 dicembre 1995, n. 12906, a proposito della cosiddetta clausola di continuazione automatica della società con gli eredi del socio defunto nello statuto di società di persone).
Non possono essere perciò in alcun modo assimilate ai patti successori quelle previsioni negoziali, inserite in contratti di durata connotati da un più o meno accentuato intuitus personae, che, proprio al fine di garantire il carattere infungibile della persona del contraente, eventualmente contemplino e disciplinino lo scioglimento del rapporto in conseguenza della morte di una delle parti.
Lo stesso dicasi per clausole contenute in statuti di società di capitali, come quella qui in esame, che non sono volte a regolare la trasmissione ereditaria di beni o diritti, ma configurano il modo di essere dei rapporti tra i soci e, non diversamente da qualsiasi altra clausola che limiti la trasferibilità della partecipazione in pendenza di società, sono destinate ad accrescere il peso dell’elemento personale, rispetto a quello capitalistico, nella struttura dell’ente collettivo. Il che appunto spiega la ragione per la quale esse vengono inserite nello statuto e quindi contribuiscono a definire i lineamenti strutturali della società, avvicinandola sotto questo aspetto – ma non certo illegittimamente – ad una società di persone, nella quale è perfettamente normale che la morte del socio provochi lo scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo (art. 2284 c.c.).
Dette clausole connotano sin da principio (o comunque sin da quando vengono a far parte dello statuto della società) la singola partecipazione societaria. Il socio che ne è titolare ha nel proprio patrimonio una quota non liberamente trasferibile, la cui trasmissione mortis causa naturalmente risente degli effetti di tale limite di trasferibilità (non diversamente da quel che potrebbe accadere per un trasferimento inter vivos), non già in conseguenza di un patto volto a regolare il meccanismo ereditario, ma per le caratteristiche proprie del diritto che cade in successione: il diritto di partecipazione ad una società il cui statuto privilegia l’elemento personale, condizionando perciò la possibilità d’ingresso di nuovi soci alla volontà degli altri con lo strumento dell’opzione di acquisto concessa ai soci supersiti, secondo un meccanismo non dissimile, quanto agli effetti, dalle clausole di prelazione sovente previste negli statuti societari per il caso di trasferimento delle quote inter vivos; in termini, oltre tutto, che non privano la quota medesima di valore economico, giacché implicano la sua liquidazione in favore degli eredi del socio defunto in base a criteri predeterminati. Né occorre aggiungere che, anche prima dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario cui dianzi s’è fatto cenno, non si sarebbe potuto seriamente dubitare della legittimità di clausole limitative della trasferibilità delle quote nello statuto di una società a responsabilità limitata, nella quale l’elemento personale ha sempre avuto un peso di una qualche rilevanza e che perciò ha sempre tollerato non solo clausole di prelazione, ma anche clausole di mero gradimento.
Considerazione, questa, che vale anche ad escludere la possibilità di configurare la clausola in discorso come in frode al divieto dei patti successori, quanto meno ove si pretenda di predicare tale configurazione in termini generali e senza riferimento ad eventuali particolarità del caso concreto: appunto perché la previsione di limitazioni alla trasferibilità delle quote di società, sia mortis causa che per atto inter vivos, naturalmente risponde alla suaccennata esigenza di privilegiare l’elemento personale nella struttura e nell’organizzazione dell’ente collettivo, e non può di per sé sola essere intesa come un mezzo per eludere il suindicato divieto legale.
Il primo motivo di ricorso non può, perciò, essere accolto.
7. Lo stesso è a dirsi per il secondo motivo.
La corte d’appello ha chiaramente spiegato le ragioni per le quali l’espressione contenuta nella clausola in questione, laddove fissa i criteri di liquidazione della quota del socio defunto facendo riferimento alle “risultanze” dell’ultimo bilancio, nonché al valore dell’avviamento, non è suscettibile dell’interpretazione che le impugnanti vorrebbero darle.
Pretendere che la riferita espressione non comporti la necessità di aver riguardo ai dati di bilancio appare, invero, una tesi alquanto ardita, stentandosi a comprendere la ragione per la quale si sarebbe allora adoperata nella clausola la parola “bilancio”. Ancor più arduo è però sostenere che l’interpretazione letterale fatta propria dalla corte di merito sia in contrasto con le regole dettate dal codice civile in materia di ermeneutica contrattuale.
Non si comprende sotto qual profilo possa affermarsi che la comune intenzione delle parti, nonostante l’uso dell’indicata espressione, sarebbe stata quella di prescindere dai dati enunciati nel bilancio della società, riferito all’ultimo esercizio chiuso prima del decesso del socio la cui quota occorra liquidare, e che viceversa le parti abbiano voluto aver riguardo ai valori di mercato dei cespiti sociali.
Le ricorrenti, d’altronde, neppure chiariscono perché ed in qual misura i dati di bilancio le penalizzerebbero. È vero che, nella più parte dei casi, le valutazioni del bilancio, informate al principio di prudenza e per certi aspetti ancora legate al criterio del costo storico, possono risultare inferiori ai valori correnti di mercato; ma questo non costituisce una regola immutabile e non è dato affermare, in via di astratto principio, che un criterio di liquidazione di quote sociali riferito ai dati di bilancio sia, sol per questo, ingiusto e non corrispondente alle esigenze di equo contemperamento degli interessi in gioco. Tanto meno, poi, ciò è sostenibile quando, come nella specie, la clausola di cui si tratta non si sia limitata a richiamare il bilancio d’esercizio, ma abbia apportato un rilevante correttivo imponendo di tener conto, nella liquidazione della quota, anche del valore dell’avviamento dell’azienda, ovviamente sul presupposto che tale valore, trattandosi di avviamento autoprodotto, non trovi già espressione nel bilancio (art. 2426, n. 6, e 2478-bis, primo comma, c.c.). Una previsione, questa, che appare appunto finalizzata a consentire l’emersione di valori impliciti nella partecipazione, che il mero riferimento ai dati di bilancio non consentirebbero altrimenti di riconoscere.
È appena il caso di osservare, infine, come nessun aiuto alla tesi di parte ricorrente apportano i riferimenti alla disciplina legale in tema di liquidazione della quota del socio che recede da una società di capitali: non solo perché pure la disciplina in vigore al tempo in cui la vicenda controversa si è svolta (prima della riforma societaria attuata col d. lgs. n. 6 del 2003), ancorava rigidamente siffatta liquidazione ai dati di bilancio, ma anche perché qui si tratta di un corrispettivo predeterminato liberamente dai soci, in assenza di qualsiasi inderogabile disposizione normativa che valga a limitare sul punto l’autonomia statutaria.
8. Il ricorso principale deve, quindi, esser rigettato.
9. Il diverso peso del ricorso principale rispetto al’incidentale, nell’economia del giudizio di legittimità, impone di porre a carico delle ricorrenti principali le spese di detto giudizio, che vengono liquidate in euro 4.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, rigetta il principale e condanna in solido le ricorrenti principali al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 4.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
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