CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – 6 maggio 2010, n. 10957. Sul danno all’immagine.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE

§1. Il ricorso incidentale va riunito a quello principale, in correlazione al quale è stato proposto.
§2. Preliminarmente va rilevato che la ricorrente ha notificato il ricorso alle s.r.l. Edizioni B. e A. Studio in modo palesemente nullo, giacché le stesse sono rimaste – a differenza della resistente – contumaci nel giudizio di appello e la notificazione è stata fatta al loro difensore nel giudizio di primo grado.
Peraltro, il Collegio, poiché l’esame del ricorso, come emergerà di seguito, paleserà la sua infondatezza, ritiene che, in ossequio al principio per cui alle nullità va dato rilievo se esse assumono rilievo decisivo in ordine alla posizione della parte che la nullità ha subito, nonché al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, sia inutile dare rilievo alla nullità con un ordine di rinnovazione della notificazione del ricorso nei confronti delle dette società. Il rigetto del ricorso, infatti, non le pregiudicherà in alcun modo.
§3. Sempre in via preliminare, il Collegio rileva che la resistente ha notificato il suo controricorso soltanto alla ricorrente principale e non anche alle altre due società. Poiché, tuttavia, la sua posizione e quella delle dette società nel giudizio di merito, anche all’esito dell’appello, è rimasta quella di soggetti passivi di domande di Tizia in situazione di scindibilità fra loro, essendo ormai preclusa l’impugnazione della sentenza da parte delle due società pretermesse non è necessario provvedere ai sensi dell’art. 332 c.p.c.
§4. L’esame del ricorso incidentale è logicamente preliminare, perché con l’unico motivo ch’esso prospetta e con cui si deduce “violazione o falsa applicazione degli artt. 110, 96 e 97 della Legge 22/4/41 n. 633, 10, 2729 del codice civile”, nonché “omessa o contraddittoria a motivazione circa un punto decisivo della controversia”, si postula che la sentenza impugnata dovrebbe essere cassata senza rinvio nella parte in cui – in riforma della sentenza di primo grado, che aveva rigettato integralmente le domande di Tizia nel presupposto che l’utilizzazione delle fotografie da parte delle società convenute e, quindi, anche da parte della ricorrente incidentale, fosse avvenuta sulla base di un consenso manifestato da Tizia nell’ambito di un contratto stipulato con il fotografo Caio, inteso a trasferirgli lo sfruttamento commerciale delle foto a fronte della promozione della propria immagine da parte dell’allora esordiente attrice Tizia – ha escluso che di quel contratto fosse stata data dimostrazione, ma ha, però, ritenuto che dalle risultanze istruttorie emergesse che Tizia aveva attribuito al fotografo l’autorizzazione a disporre delle foto in nome proprio con un negozio unilaterale recettizio, suscettibile, però, di revoca (come la procura e il mandato), revoca che nei riguardi del fotografo nella specie sarebbe stata desumibile da una serie di emergenze istruttorie e che era stata fatta palese alle società convenute con lettere di raccomandata di diffida. Onde, prima della pubblicazione sarebbero state consapevoli della revoca.
Il motivo è diretto ad ottenere in sostanza la cassazione della sentenza impugnata nel punto in cui ha riconosciuto che le foto erano state pubblicate in una situazione di mancanza del consenso della Tizia, nota alle convenute, ed ha, conseguentemente, posto tale accertamento a base dell’accoglimento della domanda della Tizia di condanna all’astensione dall’utilizzazione delle foto.
Poiché con l’unico motivo di ricorso principale si lamenta “violazione o falsa applicazione degli artt. 21 Cost. 10 e 2043 cod. civ. 96 e 97 l. 633/41”, nonché “omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia”, sotto il profilo che erroneamente la Corte territoriale avrebbe rigettato la domanda intesa a riconoscere, proprio sul presupposto che le foto vennero pubblicate senza consenso, il danno patrimoniale, appare evidente che il motivo di ricorso incidentale è pregiudiziale.
§4.1. Ciò premesso, quest’ultimo motivo sembrerebbe argomentato assumendo che del tutto incoerentemente la Corte d’Appello, dopo avere escluso che il consenso fosse stato manifestato da Tizia nell’ambito di un accordo contrattuale, perché tale accordo avrebbe dovuto provarsi per iscritto ai sensi dell’art. 110 della l. n. 633 del 1933, avrebbe riconosciuto, in base alle risultanze istruttorie, che il consenso era stato manifestato sulla base di un negozio unilaterale autorizzatorio, senza considerare che anche un simile negozio avrebbe dovuto essere provato per iscritto a mente di detta norma.
Così intesa la censura – e ad intenderla in questo modo cospirano sia le deduzioni svolte nella pagina dieci del controricorso (dove tra l’altro, nella terza proposizione si scrive: “la distinzione compiuta dalla Corte di Appello tra accordo negoziale e negozio unilaterale è completamente inutile ed irrilevante e quindi erronea se riferita all’art. 110 della legge 22/4/41 n. 633 in ragione del fatto che il detto art. 110 riguarda tutti i modi di trasmissione dei diritti di utilizzazione economica e quindi sia quelli contrattuali che quelli unilaterali”), sia le deduzioni svolte nella pagina tredici del ricorso (dove, nella terza proposizione si scrive: “l’errore giuridico di base compiuto dalla Corte di Appello di Roma è quindi consistito nell’avere ritenuto necessaria la prova scritta solo in relazione ad una trasmissione dei diritti effettuata con un contratto e non anche per una trasmissione degli stessi diritti effettuata a mezzo di atto unilaterale”) – appare incomprensibile, nel senso che non è dato cogliere come potrebbe portare alla cassazione della sentenza.
Infatti, se fosse vero che nel regime dell’art. 110 citato vengono in rilievo anche i negozi unilaterali e, quindi, che anch’essi debbono essere provati per iscritto, il risultato sarebbe che la motivazione della sentenza impugnata apparirebbe erronea, là dove ha ravvisato la prova di un consenso dato da Tizia per negozio unilaterale revocabile senza che vi fosse la prova scritta ad probationem, ma l’errore sarebbe inidoneo a giustificare la cassazione della sentenza e potrebbe solo comportare una correzione della motivazione in parte qua. Esclusa l’esistenza, o meglio, la prova del negozio unilaterale autorizzatorio revocabile ravvisato dalla Corte territoriale, resterebbe evidentemente ferma l’esclusione ritenuta pure da quella Corte della manifestazione di un consenso attraverso la stipula di un contratto. Si verterebbe, dunque, in situazione di mancanza del consenso e, pertanto, la sentenza continuerebbe ad apparire corretta nella conclusione dell’accertamento della pubblicazione delle foto senza consenso.
§4.2. Peraltro, andrebbe rilevato che il richiamo operato dalla Corte territoriale all’art. 110 risulta del tutto privo di congruenza giuridica e del tutto ingiustificato per escludere l’esattezza della prospettiva della sentenza di primo grado, là dove aveva considerato esistente un contratto fra Tizia ed il fotografo. Infatti, in disparte il rilievo che detto richiamo risulta effettuato del tutto incoerentemente come argomento congiunto ad una serie di altri elementi probatori (pagine cinque – sei della sentenza), mentre avrebbe dovuto essere assorbente (posto che se un negozio dev’essere provato per iscritto, la prova per presunzioni è esclusa e tale sarebbe stata quella desumibile dagli elementi considerati invece dal primo giudice: pagina cinque all’inizio della sentenza. Onde, non vi era bisogno di desumere l’inesistenza del contratto da altri elementi, come quelli indicati appunto nella pagina cinque in fine e sei all’inizio), si deve rilevare che l’art. 110 della l. n. 633 del 1941 è norma che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel prevedere che la trasmissione dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno debba essere provata per iscritto, si riferisce all’ipotesi in cui il trasferimento viene invocato dal cessionario nei confronti di chi si vanti titolare del medesimo diritto a lui ceduto ed è diretta a disciplinare il conflitto tra titoli, ovvero tra pretesi titolari del medesimo diritto di sfruttamento (da ultimo, Cass. n. 3390 del 2003).
Non si tratta, dunque, di norma che, con riferimento all’opera fotografica, ha un qualche rilievo nel rapporto fra persona che si è fatta fotografare e il fotografo, in ordine all’utilizzazione dell’opera fotografica da parte di quest’ultimo, in quanto racchiude l’immagine della persona fotografata. Al riguardo, la norma che viene in rilievo è, infatti, quella dell’art. 96 della legge n. 633 del 1941, la quale, nell’esigere il consenso della persona ritratta per l’esposizione, riproduzione o messa in commercio del ritratto (salve le ipotesi di cui all’articolo successivo), non prevede particolari forme per la sua manifestazione, ammettendo, pertanto, anche che esso possa essere manifestato tacitamente (in termini Cass. n. 5175 del 1997; n. 3014 del 2004; n. 11491 del 2006; n. 21995 del 2008).
Da questi rilievi discende che è priva di fondamento la censura rivolta alla sentenza impugnata per non aver ritenuto che il consenso all’utilizzazione delle foto, a suo dire manifestato con un negozio unilaterale revocabile, avrebbe dovuto provarsi per iscritto ai sensi del citato art. 110.
§4.3. Il motivo di ricorso incidentale, peraltro, non avrebbe miglior sorte nemmeno se la censura con esso proposta si intendesse anche diretta – come suggerirebbero le argomentazioni di cui alle pagine undici – dodici del ricorso – a sostenere che erroneamente la Corte territoriale avrebbe escluso l’esistenza di un contratto fra Tizia ed il fotografo, nell’ambito del quale il consenso era stata manifestato. Alla pagina undici del ricorso, infatti, si allude al fatto che “negli atti dei due giudizi di merito erano stati accertati in modo inequivocabile alcuni dati di fatto quali quello dell’avvenuto sostenimento da parte del fotografo Caio di tutte le spese occorrenti per la realizzazione dei servizi fotografici della Tizia di cui è causa sia nelle Maldive sia ad Ibiza e sia in Italia, quello dell’avvenuto scatto da parte del predetto Caio nel corso del tempo di ben 15.000 foto della precitata Tizia e quello della perdurante collaborazione professionale nonché della amicizia tra le due persone sino a tutto il 1994 e quindi anche dopo l’episodio della pubblicazione di alcune delle foto controverse sul periodico P.”. E, quindi, si sostiene (continuando nella pagina dodici) che “tutti questi dati di fatto avrebbero comunque dovuto indurre la Corte d’Appello a ritenere certa la esistenza di un rapporto contrattuale tra i due sulla base di una lunga serie di presunzioni che avrebbero dovuto rendere irrilevante la mancanza di un atto scritto” e precisamente [vengono citate parti della motivazione di Cass. n. 5175 del 1997] l’essersi Tizia sottoposta spontaneamente al servizio fotografico presso un’agenzia fotografica, la quale, se non viene remunerata dalla persona fotografata, evidentemente – se essa è nota in certi settori – ha la prospettiva di trarre una remunerazione dall’utilizzazione e pubblicazione delle immagini, nonché la circostanza che le foto realizzate erano state 15.000 e per questo non poteva trattarsi di foto realizzate per provini o books, come sostenuto da Tizia [al riguardo, si fa un generico rinvio ad una sentenza di proscioglimento del Caio in sede penale che sarebbe prodotta nel fascicolo di parte di secondo grado].
Queste deduzioni sembrerebbero finalizzate a sostenere, indipendentemente dalla già rassegnata censura ai sensi dell’art. 110, che la sentenza impugnata sarebbe stata erronea, là dove ha escluso l’esistenza di una manifestazione di consenso di Tizia nell’ambito di un rapporto contrattuale.
§4.4. La censura così intesa è, però inammissibile.
Lo è innanzitutto, perché omette di individuare la parte della motivazione della sentenza impugnata alla quale sarebbe addebitabile il vizio così denunciato (in termini, ex multis, Cass. n. 5274 del 2007). Lo è, in secondo luogo, per il suo evidente difetto di autosufficienza, atteso che fa un riferimento a risultanze istruttorie delle quali non riproduce il contenuto e indica se e dove sarebbero esaminabili in questa sede, e ciò anche per il riferimento alla sentenza penale, riguardo alla quale non solo non si indica se il fascicolo di parte sarebbe stato prodotto, ma neppure la sede di esso in cui si rinverrebbe la sentenza (in termini, fra le tante, Cass. n. 12239 del 2007, seguita da numerose conformi).
Lo è ancora, perché – se fossero superabili le due ragioni di inammissibilità appena indicate e si procedesse alla verifica della censura al lume delle argomentazioni con cui la Corte territoriale ha escluso l’esistenza del contratto di utilizzazione – si evidenzierebbe che la censura stessa non si fa carico di criticare quelle argomentazioni e precisamente quelle indicate alla pagina cinque sub a), b), c) ed e). Di modo che la censura sarebbe inammissibile alla stregua del principio affermato da Cass. n. 359 del 2005 (seguita da numerose conformi), secondo cui il motivo di ricorso per cassazione deve necessariamente risolversi in una critica alla motivazione della sentenza impugnata.
Non va poi sottaciuto, in fine, che l’evocazione di Cass. n. 5175 del 1997 è del tutto fuori luogo, poiché gli elementi che essa reputò esattamente rilevanti per desumere presuntivamente il consenso tacito all’utilizzazione, lo sono esclusivamente a questo fine, ma non sono certamente considerati come elementi che sono sufficienti per poter considerare il consenso come manifestato con la conclusione di un contratto.
In realtà, il consenso cui allude l’art. 96 della l. n. 633 del 1941 è normativamente considerato come un negozio unilaterale e “non ha ad oggetto il diritto – personalissimo ed inalienabile – all’immagine, ma solo il suo esercizio; dal che deriva che il consenso, sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto, da esso resta tuttavia distinto ed autonomo (ciò che rileva anche ai fini della sua revocabilità, quale che sia il termine eventualmente indicato per la pubblicazione consentita), e che la pattuizione del compenso non costituisce un elemento del negozio autorizzativo in questione” (così Cass. n. 3014 del 2004).
Nella specie, dunque, la Corte territoriale nel ravvisare che il consenso era stato manifestato da Tizia con un negozio unilaterale e senza che si inserisse nell’ambito di un contratto, non ha fatto altro che cogliere – pur senza percepire quanto appena sopra ricordato – proprio il profilo normativo del consenso del fotografato all’esposizione, riproduzione e messa in commercio delle fotografie, in quanto ritratti della medesima.
In relazione ad un consenso ai sensi dell’art. 96, anche se formalmente manifestato all’interno di un regolamento contrattuale diretto a fissare per il fotografo o per l’utilizzatore i limiti in cui potrà esporre, riprodurre e sfruttare commercialmente il ritratto fotografico, il contratto che eventualmente venga stipulato e che regoli questi profili ha come presupposto di liceità il consenso, il quale resta al di fuori del regolamento contrattuale e semmai (ma è questione su cui non merita qui approfondire), una volta stipulato il contratto sul presupposto della sua manifestazione, non può essere di norma revocato fin tanto che resti possibile e non si realizzi l’utilizzazione del ritratto nei modi e nei limiti fissati dal contratto.
Nella controversia in esame, dunque, le società convenute avrebbero dovuto dimostrare, quali aventi causa del fotografo che questi aveva stipulato un contratto con Tizia, quali erano i termini dell’utilizzazione delle foto pattuiti e se in essi rientrava la cessione a terzi e la successiva utilizzazione ed in che modi da parte loro.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’esistenza del contratto non fosse stata dimostrata e lo ha fatto – salvo l’improprio utilizzo dell’argomento ai sensi dell’art. 110 – attraverso argomenti che, come s’è detto, non sono stati – in disparte i profili di inammissibilità già evidenziati della censura in esame – criticati.
§5. Il motivo di ricorso incidentale dev’essere, conclusivamente, rigettato.
§6. Il motivo di ricorso principiale è infondato.
Va premesso che la ricorrente si duole espressamente che le sia stato negato dalla Corte d’Appello il danno patrimoniale e non anche del disconoscimento del danno da quel giudice qualificato “morale” e considerato sia come danno da reato, sia come danno da conseguenze negative di natura psichica o fisica.
La sentenza impugnata ha negato il riconoscimento di un danno patrimoniale osservando che “per quanto concerne il danno patrimoniale la domanda deve essere rigettata, in quanto l’appellante non ha minimamente provato né la sussistenza, né l’entità di un nocumento di carattere patrimoniale”.
A sostegno del motivo la ricorrente adduce che tale motivazione contrasterebbe con la giurisprudenza di questa corte, la quale avrebbe ribadito che nel caso di illecito sfruttamento della immagine di personaggio noto, per finalità commerciali, il danno che si produce in capo al soggetto danneggiato sarebbe in re ipsa, andrebbe commisurato al cosiddetto “prezzo del consenso” o “danno da annacquamento” ed andrebbe liquidato in ogni caso, stante l’impossibilità di poter essere provato, con ricorso al criterio equitativa. In proposito vengono citate Cass. n. 1503 del 1993, n. 4785 del 1991 n. 4031 del 1991. Si cita, inoltre, giurisprudenza di merito. Si assume, sulla base dell’invocazione di detta giurisprudenza, che “la Corte di merito [….] tenendo conto della diffusione che le fotografie di cui è causa hanno avuto, del dolo che ha caratterizzato il comportamento avversario (di cui essa stessa ha dato contezza nella parte motiva della decisione impugnata) e della indiscussa notorietà della ricorrente (una delle attrici italiane più conosciute), avrebbe dovuto liquidare una somma, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, verosimilmente pari all’ammontare richiesto”.
Ebbene queste deduzioni sono articolate senza alcuna indicazione di quelle che erano state le allegazioni della ricorrente in ordine al lamentato danno patrimoniale. Esse prescindono, cioè, da qualsiasi individuazione di che cosa la ricorrente aveva chiesto a titolo di danno patrimoniale.
Ora, recentemente questa Corte, in tema di danno patrimoniale all’immagine, ha affermato il principio di diritto, secondo cui “L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione, tenendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall’art. 158, comma secondo, della legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di autore” (Cass. n. 12433 del 2008).
Il principio – che, in sostanza, rappresenta l’approdo di concetti che effettivamente erano stati in nuce enunciati dalle decisioni citate dalla ricorrente – è sostanzialmente condiviso dal Collegio, pur con alcune precisazioni, rimaste nella citata decisione non formulate.
Alla luce delle precisazioni che si verranno facendo, il detto principio non può, nella specie, giustificare la chiesta cassazione della sentenza, in quanto la sua applicazione supporrebbe che in questa sede si fosse fatta constare dalla ricorrente l’esistenza nel giudizio di merito di una situazione che ne avrebbe giustificato la sua applicazione secondo le varie e gradate ipotesi in esso espresse.
Tale situazione supponeva che la ricorrente avesse allegato e, quindi, individuato i danni patrimoniali idonei ad essere liquidati secondo il criterio indicato dalla citata decisione. Tali danni, da intendersi come c.d. danni conseguenza dell’evento lesivo costituito dall’utilizzazione indebita delle fotografie, avrebbero potuto identificarsi in un pregiudizio allo sviluppo della carriera futura e, quindi, nei suoi riflessi economici (come, ad esempio, per l’impossibilità di girare talune tipologie di films, perché non in sintonia con l’apparizione di foto di nudo) oppure nella perdita di specifiche occasioni di lavoro in ragione del discredito arrecato dalla pubblicazione delle foto oppure ancora nella perdita di occasioni di lavoro determinata proprio dall’impossibilità di sfruttare le fotografie in quanto ritraenti Tizia nuda. Solo in via ultimativa, avrebbero potuto identificarsi nella perdita dell’utilità economica che le società convenute avrebbero dovuto corrispondere a Tizia per l’utilizzo delle foto, se dalla stessa consentito.
Al riguardo, rileva il Collegio che quando la lesione del diritto all’immagine è stata arrecata dalla pubblicazione di fotografie che non si dovevano pubblicare perché la persona fotografata non era d’accordo per la pubblicazione, il fatto che l’interesse della persona che è stato leso sia rappresentato proprio dal particolare aspetto del diritto all’immagine rappresentato dal tener riservata la rappresentazione fotografica e ad escluderne la fruibilità da parte di terzi, e, dunque, la conseguente certezza che la persona non avrebbe commercializzato la rappresentazione fotografica, non è di per sé ostativo a che quella persona, possa allegare l’esistenza di un danno rappresentato dall’utilità che avrebbe potuto conseguire se chi ha utilizzato indebitamente le fotografie avesse dovuto pagare il suo consenso. È sufficiente osservare che, appartenendo la scelta della pubblicazione delle fotografie esclusivamente alla persona fotografata ed essendo scelta suscettibile di ripensamento nel tempo, se del caso anche in dipendenza delle vicende della professione od anche soltanto dell’evoluzione dei tempi, ad escludere che si configuri come danno conseguenza il non aver ottenuto l’utilità che sarebbe derivata dal prezzo del consenso non sarebbe potuta valere la scelta fatta al momento dell’utilizzazione di non volere la pubblicazione delle foto. Ritenere altrimenti, sarebbe contrario alla stessa logica di una situazione personalissima come quella del diritto all’immagine, che non si cristallizza nell’atteggiarsi della volontà del soggetto in un dato momento, ma, proprio per la sua natura, dev’essere a lui garantita anche nella possibilità ch’egli nel tempo possa mutare convincimento ed indirizzarsi altrimenti.
Ciò chiarito, si deve rilevare che tutte le ipotesi di possibile danno patrimoniale innanzi indicate o talune di esse o anche soltanto l’ultima di esse avrebbero dovuto, comunque, essere oggetto di allegazione da parte di Tizia.
Inerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno evento, all’ambito dei fatti costitutivi della domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere concerne la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno.
Nella specie nel ricorso (tanto nell’illustrare il motivo, quanto indirettamente nelle allegazioni con cui si enuncia il fatto sostanziale e processuale), non si dice alcunché in ordine a quelle che erano state le allegazioni di Tizia in punto di individuazione del danno patrimoniale. In tale situazione la cassazione della sentenza, là dove ha motivato il disconoscimento del danno patrimoniale anzitutto “nel non avere minimamente l’appellante provato la sussistenza” ed in secondo luogo “l’entità di un nocumento di carattere patrimoniale”, non appare in alcun modo possibile, perché la carenza di individuazione di quella che era la situazione in punto di allegazioni a sostegno della domanda risarcitoria del danno patrimoniale prospettata da Tizia impedisce di apprezzare la motivazione qui censurata come motivazione che, pur di fronte ad allegazioni di danno patrimoniale come quelle sopra ipotizzate e, in ultima analisi, di un’allegazione come danno patrimoniale del danno da perdita dell’utilità che avrebbe assicurato un pagamento del consenso alla pubblicazione delle foto, si è rifiutata di riconoscere l’esistenza del danno.
Invero, se non si sa quel era stato il danno patrimoniale lamentato con la domanda, non è possibile in alcun modo valutare la correttezza dell’affermazione della sentenza impugnata che esso non era stato provato nell’an (e, subordinatamente, nel quantum).
§7. Il ricorso principale dev’essere, pertanto, rigettato.
§8. Le spese del giudizio di cassazione fra le parti costituite possono compensarsi, dato l’esito negativo di ciascuno dei ricorsi proposti.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi. Compensa le spese del giudizio di cassazione fra le parti costituite.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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