T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 10-03-2011, n. 471 Ricorso giurisdizionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Pontificio Santuario Madonna di Pompei ha convenuto, con il comune di Cavallino, la cessione bonaria di alcune aree di sua proprietà oggetto di una procedura espropriativa iniziata dal Comune.

Con delibera comunale n. 32 del 27 luglio 2001, il Comune ha pertanto acquisito al proprio patrimonio le aree suddette, approvando altresì lo schema di contratto di cessione aree tra il Sindaco e l’ente espropriando.

Successivamente, il 30 luglio 2001, è stato sottoscritto l’atto definitivo di trasferimento della proprietà con la corresponsione di un’indennità in favore del soggetto cedente pari a Lire 173.000.000.

Il Pontificio Santuario, il 4 settembre 2001, ha inviato una nota al sig. A.Z., con la quale ha comunicato di aver ceduto la porzione dei fondi dallo stesso ricorrente condotti in affitto.

Il sig. Z., quindi, ha chiesto al Comune la liquidazione dell’indennità prevista dalla legge a favore dei fittavoli dei terreni espropriati.

Il Comune, con nota del 10 dicembre 2001, ha riscontrato negativamente questa richiesta ritenendo che lo stesso non possedesse la qualifica di coltivatore diretto, così come previsto dalla legge ai fini del riconoscimento dell’indennità richiesta.

In seguito a un incontro tenuto presso gli uffici comunali, il sig. Z., con nota del 5 agosto 2001, ha evidenziato che la somma richiesta poteva essere desunta dall’importo liquidato in sede di cessione bonaria all’Ente proprietario del terreno.

Il Sindaco, il 13 agosto 2002, ha comunicato la propria disponibilità a raggiungere un accordo bonario erogando la somma di Euro 1.549,37.

Il sig. Z., poi, constatato che il terreno in questione era stata recintato, ha proposto il 7 novembre 2002 istanza di accesso agli atti.

A seguito dell’accesso agli atti, il sig. Z. ha proposto il presente ricorso impugnando il decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 7 luglio 2000 di dichiarazione di pubblica utilità del Parco Archeologico del sito messapico del comune di Cavallino, integrato dal successivo D.M. del 19 settembre 2000 recante l’indicazione dei termini di inizio e fine della procedura espropriativa,e ha notificato lo steso ricorso anche all’Università.

Il ricorrente ha proposto i seguenti motivi: 1. Nullità e inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per violazione dell’art. 13 l. 2359/1865. Violazione dei principi generali in materia di dichiarazione di pubblica utilità. Illegittimità derivata di tutti gli atti della sequela procedimentale e della disposta occupazione. Illiceità dell’azione amministrativa per carenza assoluta di potere. 2. lesione dello jus retentionis di cui agli artt. 43 e 50 l. 203/1982 nonché dell’art. 17 l. 865/1971. Illiceità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà. Arbitrarietà e perplessità dell’azione amministrativa. Carenza assoluta di motivazione. Sviamento di potere. 3. Violazione degli artt. 7 e ss. l. 241/1990. Mancata comunicazione di avvio del procedimento di occupazione del fondo.

Deduce il ricorrente: che la dichiarazione di pubblica utilità è illegittima perché con la stessa non sono stati indicati i termini iniziali e finali dell’espropriazione; che il successivo d.m. con cui sono stati fissati i termini non può sanare o convalidare il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità; che il ricorrente ha il diritto di ritenzione del bene per la tutela del credito derivante dal pregiudizio economico per l’estinzione del rapporto di affitto del fondo; che non è stato a lui comunicato l’avvio del procedimento.

Le Amministrazioni statali si sono costituite con atto del 3 gennaio 2003.

Il comune di Cavallino, con memoria del 28 gennaio 2003, ha eccepito: la carenza di legittimazione attiva del ricorrente perché non è stata fornita alcuna prova che attesti la qualità di coltivatore diretto rispetto al fondo in questione; la carenza di legittimazione passiva perché, essendo intervenuta la cessione bonaria, il ricorrente deve rivolgersi al proprietario del terreni; la tardività del ricorso perché il ricorrente, il 28 dicembre 2001, aveva ottenuto copia degli atti della procedura; l’inammissibilità del ricorso perché la mancata previsione dei termini iniziali e finali comporta la mancanza di interesse all’azione di annullamento.

Nel merito il Comune ha dedotto che non occorre la comunicazione di avvio del procedimento.

Con memoria del 1° dicembre 2003 l’Università ha chiesto l’estromissione dal giudizio perché la stessa Università si è limitata all’attività scientifica di scavo archeologico.

Con sentenza n. 161 del 14 gennaio 2010 è stata dichiarata l’interruzione del processo per decesso del ricorrente.

Con atto di riassunzione del 28 aprile 2010 si sono costituiti gli eredi del ricorrente.

Con memoria del 29 settembre 2010 il Comune ha ribadito le proprie deduzioni.

Gli eredi del ricorrente, con memoria del 31 dicembre 2010, hanno affermato che la conoscenza del contenuto degli atti impugnati si è avuta il 15 novembre 2002 e hanno dichiarato che l’interesse a essere reintegrati nel possesso era venuto meno ma persisteva l’interesse ad ottenere il risarcimento dei danni.

Nella pubblica udienza del 12 gennaio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Deve essere esaminata in primo luogo la richiesta estromissione dal giudizio da parte dell’Università.

La dottrina processualcivilistica ha avuto modo di evidenziare, anche sulla scorta delle specifiche fattispecie espressamente previste dalla normativa ( artt. 108 e 109 c.p.c.), come l’estromissione consegua al riscontro del difetto dei presupposti sui quali deve fondarsi la presenza in giudizio della parte e in particolare alla mancanza di qualsiasi domanda di essa o contro di essa.

Nel caso di specie il gravame risulta proposto avverso un provvedimento del tutto estraneo alla situazione giuridica soggettiva dell’Università, né la prospettazione ricorrente individua qualche particolare o concreta ragione per giustificare la legittimazione passiva di questa.

Pertanto, la richiesta di estromissione è fondata.

Sempre in via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di tardività del ricorso presentata dal Comune.

L’eccezione è fondata, perché, come risulta dalla documentazione depositata in giudizio, a seguito di domanda presentata il 21 dicembre 2001 il ricorrente ha preso visione di tutti gli atti della procedura espropriativa il 28 dicembre 2001, mentre il ricorso è stato notificato il 12 dicembre 2002, quindi ben oltre il termine decadenziale di sessanta giorni.

Il ricorso è quindi tardivo e deve essere dichiarato irricevibile.

Resta tuttavia da esaminare l’azione risarcitoria proposta dal ricorrente, perché, come ha ritenuto la Corte di cassazione, il risarcimento del danno da parte del giudice amministrativo, come forma di tutela dell’interesse legittimo, non presuppone necessariamente il previo annullamento dell’atto amministrativo (Sez. Un., 13 giugno 2006, nn. 13659 e 1360).

È da aggiungere che il superamento della pregiudiziale amministrativa è stato anche positivamente sancito dall’art. 30 del codice del processo amministrativo (anche se non applicabile ratione temporis alla presente controversia).

Posto quanto sopra, ai fini dell’individuazione dell’elemento illecito costituito dai profili di illegittimità degli atti, rileva la mancata fissazione nell’atto di avvio del procedimento espropriativo dei termini di inizio e ultimazione dei lavori, nonché dell’inizio della procedura espropriativa, perché la mancata previsione di questi termini non può essere sanata da atti successivi della procedura.

La richiesta di risarcimento del danno è, tuttavia, infondata perché il ricorrente non ha dato alcuna prova in ordine al danno lamentato.

In particolare, il ricorrente, nelle conclusioni dell’atto introduttivo, chiede di essere reintegrato nel possesso dell’immobile, con condanna dei resistenti al relativo rilascio, nonché al risarcimento del danno ingiusto,cioè del danno derivante dal mancato godimento del fondo come affittuario; non si può,poi, ritenere che il risarcimento richiesto attenga alla mancata percezione dell’equo indennizzo previsto dall’art. 43 della legge n.203 del 1982, così come appare dalla memoria del 31 dicembre 2010, sia perché un’eventuale richiesta in tal senso determinerebbe una modificazione, non consentita, della domanda,sia perché la richiesta del risarcimento del danno individuato nella mancata percezione del citato indennizzo si risolve nella richiesta dello stesso,richiesta mai chiaramente formulata.

Pertanto, si deve ritenere che la richiesta risarcitoria attenga al mancato godimento del bene come affittuario,cioè all’illegittimo spossessamento

Non è stato però indicato alcun elemento a riprova del danno subito.

Per giurisprudenza consolidata, dalla quale il Collegio non ha motivo nella specie di discostarsi, all’azione di risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice amministrativo si applica il principio dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 c.c., in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario (ex multis, C.G.A.R.S. 12 maggio 2010, n. 640; T.A.R. Lombardia, sez. IV, 10 giugno 2010, n. 1787; T.A.R. Cagliari, sez. II, 5 febbraio 2010, n. 126). Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni si presenti genericamente formulata, e non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere respinta (C.d.S., sez. VI, 17 luglio 2008, n. 3592).

Nel caso in esame, il ricorrente non ha fornito alcun elemento idoneo a dimostrare nell’an e nel quantum il pregiudizio del quale si invoca il ristoro. Di tali elementi non vi è traccia né negli atti di gravame, né negli altri scritti difensivi depositati in corso di giudizio. In ogni caso, al di là della genericità dell’indicazione, le pretese risarcitorie formulate dalla parte ricorrente devono essere in ogni caso vagliate alla stregua dell’art. 1227 del c.c..

Infatti, già prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo l’articolo citato è stato utilizzato dalla giurisprudenza quale parametro per quantificare il danno e comunque, deve ritenersi che l’art. 30 cod. proc. amm., per il quale "Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti", ha valore di canone interpretativo del fondamentale principio stabilito dall’art. 1227 c.c. onde lo stesso può applicarsi anche alle fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore.

Nel caso in esame, la tempestiva impugnazione del provvedimento illegittimo avrebbe consentito la reintegra nel possesso del bene da parte del ricorrente con l’eliminazione dei danni oggi richiesti.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato irricevibile per tardività e deve essere respinta la domanda di risarcimento del danno.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: a) dichiara l’estromissione dal giudizio dell’Università, b) dichiara il ricorso irricevibile per tardività, c) respinge la domanda di risarcimento del danno. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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