Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-06-2011) 12-07-2011, n. 27081

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 9 luglio 2010 la Corte d’appello di Catania confermava la sentenza emessa il 21 marzo 2001, all’esito di giudizio abbreviato, dal gup del locale Tribunale che aveva dichiarato P. A., N.M., D.E., M.L. colpevoli del delitto di concorso in tentata estorsione aggravata, consumata e tentata ( art. 56 c.p., art. 629 c.p., comma 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7) in danno di L.A. e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, dichiarate prevalenti sulle aggravanti per P. ed equivalenti per gli altri imputati, tenuto conto della diminuente per il rito, aveva condannato P. alla pena di due anni, quattro mesi di reclusione e Euro mille di multa e N., D. e M. a quella di tre anni, quattro mesi di reclusione e Euro mille di multa ciascuno.

2. I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità degli imputati sulla base delle dichiarazioni della parte offesa, L. A., delle individuazioni fotografiche da quest’ultimo effettuate, della chiamata in correità di P.A., del contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Dal complesso di questi elementi emergeva che P.A. – già condannato con sentenza definitiva per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso facente capo al fratello G., detto " (OMISSIS)" – in qualità di mandante e di esecutore, e D., N. e M., in veste di esecutori materiali, avevano, mediante minacce consistite nella prospettazione di pericoli per l’attività imprenditoriale della parte offesa, costretto L. a pagare loro la somma di due milioni e a rinunciare al corrispettivo (L. 800.000) dovutogli dai familiari di N. in pagamento della preparazione di un banchetto e, inoltre, avevano compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a costringere il suddetto L. a versare loro l’ulteriore somma di L. 5.700.000. 3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, gli imputati.

P. lamenta violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla dosimetria della pena.

N. e D. deducono entrambi: a) carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli elementi posti a basa dell’affermazione di penale responsabilità: b) violazione di legge e carenza della motivazione circa la sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7; c) mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Messina, a sua volta, si duole del difetto di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato, all’omesso giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, nonchè dell’omesso riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

Motivi della decisione

I ricorsi sono manifestamente infondati.

1. Il ricorso di P. è all’evidenza privo di pregio, in quanto i giudici, in ossequio ai principi costantemente enunciati da questa Corte, hanno fornito una corretta motivazione in ordine alla dosimetria della pena, valorizzando in particolare il leale comportamento processuale dell’imputato e la sua piena confessione per giustificare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche e adeguare la pena al fatto contestato e alla personalità del suo autore.

2. Manifestamente infondati sono anche il primo motivo di censura dedotto da N. e D. e il motivo di ricorso prospettato da M..

2.1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Al giudice di legittimità resta, infarti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2.2. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha evidenziato gli univoci e concordanti elementi probatori (dichiarazioni della parte offesa, esito positivo delle individuazioni fotografiche, chiamata in correità di P.A., contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali) che hanno consentito di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità degli imputati e ha, inoltre, illustrato lo specifico, consapevole e causalmente rilevante apporto fornito da ciascuno degli imputati alla realizzazione degli illeciti, consistito nel formulare le richieste estorsive e nel riscuotere i relativi importi dalla parte offesa, dopo che quest’ultima era stata in prima parte contattata da P.A., mandante di tutte le attività estorsive ed esecutore di alcune di esse.

3. Manifestamente privo di pregio è anche la seconda censura prospettata da N. e M..

La L. n. 203 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove ha evidenziato, sulla base in particolare della chiamata in correità di P.A., del contenuto delle intercettazioni, delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, che l’effetto di intimidazione nei confronti di L., avuto riguardo alle complessive modalità dell’azione, venne accentuato dall’evocazione, nei confronti della parte offesa, della provenienza della pretesa estorsiva da P.A., noto appartenente al sodalizio capeggiato dal fratello G., detto " (OMISSIS)", perante nella zona di Catania, di per sè amplificatrice della valenza criminale della richiesta estorsiva e della sua idoneità intimidatrice.

4. Manifestamente infondate sono le ulteriori doglianze formulate da D. e N. in tema di dosimetria della pena e fondate sull’erroneo assunto dell’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, in realtà già concesse dal giudice di primo grado.

5. Manifestamente privi di pregio sono gli altri motivi di ricorso dedotti dalla difesa di M..

5.1. L’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 1, è configurabile solo quando l’opera del concorrente abbia avuto "minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato". A tal fine non basta, infatti, che l’apporto del concorrente abbia avuto una minore rilevanza rispetto a quello degli altri concorrenti, ma occorre che tale apporto abbia avuto una importanza obbiettivamente minima, così da risultare nell’economia generale del fatto e in termini assoluti del tutto marginale, superfluo, non indispensabile (cfr. ex plurimis Cass., sez. 6, 30 novembre 2005, n. 45248; Cass., sez. 1, 10 marzo 2004, n. 19069). La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi escludendo la suddetta attenuante, tenuto conto del ruolo svolto dal ricorrente e del rilevante contributo da costui fornito alla commissione degli illeciti.

5.2. La sentenza impugnata è altresì esente, con ogni evidenza, dalle altre censure riguardanti la dosimetria della pena e il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle aggravanti contestate, avendo, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, valorizzato, ai fini del diniego del giudizio di prevalenza, la gravità dei fatti, l’intensità del dolo ad essi sottesa, il comportamento serbato dall’imputato dopo la commissione dei fatti.

6. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue di diritto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di Euro mille ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille ciascuno.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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