Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del Tribunale di Gorizia in data 1 marzo 2004 T. M. veniva dichiarato responsabile del delitto di furto, così qualificato l’originario addebito di ricettazione, e condannato alla pena di mesi 8 di reclusione ed Euro 400,00 di multa.
Proponeva appello l’imputato, deducendo anzitutto la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza e n secondo luogo l’eccessività della pena inflitta.
Con sentenza 30 gennaio 2006 la Corte d’Appello di Trieste confermava la sentenza impugnata, pur riqualificando il fatto come ricettazione, conformemente all’originaria rubrica.
Ricorre il T. a questa Suprema Corte, deducendo:
la sentenza di primo grado doveva essere dichiarata nulla per violazione dell’art. 521 c.p.p., e il giudice d’appello non poteva riqualificare il fatto come ricettazione lasciando immutata la pena, altrimenti quest’ultima sarebbe divenuta illegale perchè inferiore al minimo di legge previsto dall’art. 648 c.p.;
la riqualificazione del fatto come ricettazione costituiva comunque reformatio in pejus, indipendentemente dalla pena in concreto applicata, poichè allungava i termini di prescrizione rispetto al furto concretamente giudicato, che a seguito della concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti si sarebbe prescritto nell’agosto 2006.
Non era stato in alcun modo esplicitato il calcolo della pena;
la motivazione della sentenza impugnata con la quale si perveniva alla qualificazione ex art. 648 c.p.p., era afflitta da illogicità e contraddittorietà.
Il ricorso non è fondato.
Il principio di correlazione tra accusa e sentenza stabilito nell’art. 521 c.p.p., è funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa, sicchè la sua violazione non può essere semplicisticamente riscontrata con il mero confronto tra la fattispecie astratta contestata e quella ritenuta in sentenza, occorrendo invece che sia accertato un rapporto di effettiva eterogeneità dei due fatti storici, che abbia determinato la reale diminuzione delle possibilità di difesa. Effettivamente la derubricazione della ricettazione in furto parrebbe contrastare col precedente giurisprudenziale citato dalla sentenza impugnata, nel quale si rileva che mentre il furto contiene gli elementi costitutivi della ricettazione, non è vera l’affermazione reciproca. Si tratta, però di affermazione meramente teorica, del tutto condivisibile, se ci si limita alla comparazione delle fattispecie incriminatrici.
Nel caso di specie, risulta però che la derubricazione in furto è stata addirittura chiesta dallo stesso imputato come conclusione subordinata del processo di primo grado, il che dimostra che egli si è compiutamente rappresentato la possibilità che il fatto potesse essere qualificato come furto, avendo egli stesso argomentato in tal senso.
Non può dunque dirsi violata la prerogativa che il principio di correlazione tra accusa e sentenza è destinato a presidiare, e cioè il diritto di difesa.
Il motivo relativo all’illegalità della pena inflitta, perchè inferiore al minimo edittale previsto per la ricettazione, non è ammissibile, poichè non corrisponde ad alcun interesse concreto ed attuale del ricorrente; per altro verso, risulta impossibile anche l’intervento officioso di questa Corte, in assenza d’impugnazione da parte del P.M. (cfr. Cass. Sez. 5^, sent. n. 771 dep. il 29 marzo 2000, secondo cui "ove il giudice abbia inflitto una pena in contrasto con la previsione di legge ma in senso favorevole all’imputato, si ha un errore al quale la Corte di cassazione, in difetto di specifico motivo di gravame da parte del P.M., non può porre riparo, nè con le formalità di cui agli artt. 130 e 619 c.p.p., perchè si versa in ipotesi di errore di giudizio e non di errore materiale del computo aritmetico della pena; nè in osservanza all’art. 1 c.p., ed in forza del compito istituzionale proprio della.
Corte di cassazione di correggere le deviazioni da tale disposizione:
ciò in quanto la possibilità di correggere in sede di legittimità la illegalità della pena, nella specie o nella quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto a danno e non in vantaggio dell’imputato, essendo anche in detta sede non superabile il limite del divieto della "reformatio in pejus", enunciato per il giudizio di appello, ma espressione di un principio generale, valevole anche per il giudizio di cassazione).
Sempre in ordine alla pena, il T. lamenta la mancata esplicitazione del calcolo analitico, ma si tratta sostanzialmente di altro profilo dello stesso problema, chiaro essendo che nessun calcolo sarebbe potuto legittimamente pervenire alla determinazione di una pena inferiore al minimo edittale del reato ritenuto in sentenza. Conseguentemente, anche questo profilo è colpito da inammissibilità per carenza d’interesse.
La tematica della reformatio in pejus è oggetto del secondo motivo di ricorso, poichè il ricorrente ne sostiene la violazione attraverso la riqualificazione del fatto in ricettazione, che determina l’allungamento dei tempi di prescrizione. A prescindere dalla contraddittorietà di questo motivo rispetto alla pretesa impossibilità di derubricare la ricettazione in furto, deve essere chiarito che il principio in questione consiste esclusivamente nell’impossibilità di irrogare all’imputato, in assenza d’impugnazione del P.M., una sanzione più grave di quella già inflittagli, e non implica affatto l’intangibilità del trattamento penale nel suo complesso, tanto che l’art. 597 c.p., comma 3 prevede espressamente la facoltà del giudice di dare al fatto una definizione giuridica più grave. Il ricorrente non può quindi dolersi dell’allungamento dei termini di prescrizione derivato dalla nuova definizione giuridica (cfr. Cass. Sez. 6^, sent. n. 4075 dep. il 2 aprile 1998, secondo cui "In materia di cognizione del giudice di appello, se la nuova definizione giuridica, a differenza di quella originaria, non consente l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione – e la conseguente estinzione del reato – essendo egli legittimato ad attribuire al fatto un diverso e più grave "nomen iuris". Il limite della "reformatio in pejus" non è, infatti, diretto ad attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma ha il solo scopo di impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio più severo di quello riservatogli dal primo giudice".
L’ultimo motivo, col quale si contesta la logicità della motivazione del provvedimento impugnato, è inammissibile, poichè vi si agitano esclusivamente questioni di fatto, volte a sollecitare valutazioni alternative della prova, in violazione del noto principio secondo cui la cognizione del ricorso non può estendersi ad un nuovo esame degli elementi di prova raccolti e utilizzati nel giudizio di merito, esame che è precluso a questa Corte (cfr. Cass. Sez 5^, sent. 1004 del 31 gennaio 2000, secondo cui "In tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento").
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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