Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il dottor L.G. chiese al Tribunale di Latina di accertare il suo credito, per compensi di prestazioni professionali di presidente del consiglio di amministrazione, nei confronti della Formia Freezing Fish s.p.a., per L. 215.833.326.
La società si difese deducendo che l’attore aveva delegato all’incasso del suo compenso, per gli anni dal 1986 al 1988, la Panafin s.p.a., alla quale essa faceva capo, e per il 1989 la P.I.A. s.p.a., anch’essa facente capo alla Panafin s.p.a.; e che le somme richieste erano state regolarmente corrisposte a quelle società. 2. Il Tribunale di Latina accolse la domanda attrice, e la convenuta propose appello, che fu respinto dalla Corte drappello di Roma con sentenza in data 15 giugno 2006. Premesso che nella fattispecie era invocato il pagamento liberatorio fatto al terzo ex art. 1188 c.c., la corte osservò che non era stata provata la delega del L. del pagamento dei suoi compensi alle due società; che l’unica prova offerta era costituita dalla sottoscrizione dei bilanci da parte del L., dalla quale si sarebbe dovuto desumere la conoscenza dei pagamenti e quindi il suo consenso; che nè i bilanci prodotti nè le relazioni approvate dal consiglio di amministrazione evidenziavano quei pagamenti; che quando pure i pagamenti risultassero dalla contabilità sociale della convenuta – attraverso la non provata registrazione di "fatture", da qualificare piuttosto come note di debito non quietanzate, prodotte in copia – da ciò non poteva presumersi la conoscenza di queste registrazioni da parte del L., che – come accertato in corso di causa – non seguiva la contabilità sociale, pur dovendone rispondere giuridicamente; che nella specie non si trattava di accertare tale responsabilità, bensì la conoscenza acquisita dal L. dei pagamenti fatti a terzi.
3. Contro questa sentenza, non notificata, ricorre la società con atto notificato il giorno 11 agosto 2006, per tre motivi. Il L. resiste con controricorso notificato il 27 settembre 2006.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
2. Con il primo motivo di ricorso, per violazione e (recte: o) falsa applicazione degli artt. 1188 e 2384 c.c., si deduce che, essendo incontroversi i pagamenti eseguiti e la qualità del L. di presidente del consiglio di amministrazione, i pagamenti dovrebbero ritenersi fatti dal presidente del consiglio di amministrazione, anche se – materialmente – dai suoi dipendenti, in forza di presunzione legale basata sulla rappresentanza organica. Si pone il quesito se il pagamento effettuato da un amministratore di società di capitale, dei compensi a lui spettanti, a terzi debba essere considerato, per presunzione di legge, voluto, e quindi conosciuto dallo stesso, con la conseguenza dell’estinzione dell’obbligazione gravante sulla società.
Con il secondo motivo, per violazione dell’art. 2702 c.c., e per vizi di motivazione, si deduce che la formazione del bilancio è atto proprio dell’amministratore, che deve redigerlo nell’osservanza dell’art. 2424 c.c.; che esso deve essere redatto sulla base dell’inventario, che contiene l’indicazione e la valutazione delle attività e passività sociali; che esso si compone anche della relazione accompagnatoria dell’amministratore; che pertanto il L., dottore commercialista e presidente del consiglio di amministrazione, avendo sottoscritto i bilanci, non poteva addurre la non conoscenza degli atti contabili presupposti ed illustrati nella relazione; che i bilanci valevano quali atti pubblici per quel che concerne l’attendibilità dei documenti e la loro efficacia di prova legale ex art. 2702 c.c.; che non poteva ammettersi la figura dell’amministratore che sottoscrive i bilanci senza esserne responsabile per non averne conosciuto il contenuto. Si pone il quesito se il bilancio sottoscritto dal presidente del consiglio di amministrazione costituisca presunzione legale dell’esistenza e conoscenza dei fatti ed atti ivi elencati, dispensando da qualunque prova coloro a favore dei quali le presunzioni sono stabilite.
3. I due motivi, che per la loro intrinseca connessione possono essere esaminati insieme, sono infondati.
Sul piano logico occorre innanzi tutto rilevare che l’esistenza di una norma deontologica, come quella che impone agli amministratori di società la diligenza nello svolgimento del loro incarico e specificamente nella redazione del bilancio, non autorizza conclusioni certe (apodittiche) sulla sua osservanza in punto di fatto (che il bilancio sia stato redatto con la dovuta diligenza), ma costituisce un mero argomento liberamente valutabile da parte del giudice di merito nel contesto di tutti gli altri elementi disponibili.
In secondo luogo deve escludersi che la diligenza richiesta agli amministratori, in sede di redazione di bilancio, si estenda alla verifica analitica dei titoli dei pagamenti registrati nel corso dell’anno e della loro efficacia liberatoria, limitandosi la responsabilità degli amministratori, per questa parte, alla corrispondenza delle poste che emergono dal conto economico con la contabilità della società. La stessa correttezza della contabilità, del resto, verte sul fatto che i dati contabilizzati registrino operazioni effettivamente compiute (nella specie: i pagamenti eseguiti) ma non implicano valutazioni sulla validità dei titoli di pagamento e sulla loro efficacia liberatoria (le registrazioni, se corrispondenti ad effettive uscite di cassa, non potrebbero essere, in sede di bilancio, o-messe, o espunte dal conto economico, con l’argomento che quei pagamenti non dovevano essere eseguiti).
In terzo luogo, il bilancio, che trae la sua validità ed efficacia dall’approvazione dell’assemblea e non dalla diligenza dei suoi redattori, vincola i soci e la società, ma non i terzi, qual è lo stesso amministratore nel suo rapporto contrattuale di lavoro con la società. Esso dunque, se approvato e non tempestivamente impugnato, non consente ai soci e alla società di mettere in discussione l’avvenuto pagamento che ha concorso a determinare il risultato di esercizio, ma non comporta che il pagamento al terzo debba ritenersi valido, e idoneo ad estinguere l’obbligazione per il creditore che lo richieda in giudizio.
Trattandosi di stabilire, nella fattispecie giudicata dalla corte territoriale, se il credito dell’amministratore di una società di capitale al compenso pattuito fosse stato estinto dal pagamento fatto al terzo, la società debitrice era onerata della prova che il creditore avesse indicato il terzo quale adiectus solutionis causa.
Tale prova non è costituita dal fatto che il pagamento, siccome eseguito dalla società, sarebbe imputabile allo stesso amministratore. Questa affermazione è errata, giacchè l’immedesimazione organica comporta l’immediata imputazione alla persona giuridica dell’atto del suo organo, e non il contrario. Dalla premessa che la società abbia pagato non può trarsi dunque l’illazione che il pagamento sia imputabile alla persona fisica del suo amministratore (anche unico), che qui deve essere considerato non come organo della società ma come suo creditore; e lo stesso pagamento fatto o disposto dall’amministratore quale organo della società può essere valutato, sul piano psicologico, e quindi meramente presuntivo dei rapporti in corso tra le parti, in modo assai diverso, potendo esso costituire un atto dovuto per la società nei confronti del terzo, per un titolo diverso dalla delega del creditore (nella fattispecie è stato accertato che si trattava di rapporti tra società facenti parte del medesimo gruppo).
Errato è quindi l’assunto che, nella fattispecie, la prova liberatoria richiesta alla debitrice riguardasse la conoscenza, da parte dell’amministratore creditore, del pagamento delle sue competenze alle due società terze, giacchè non era una simile conoscenza che potesse determinare l’estinzione dei crediti dello stesso L., laddove si trattava invece di provare la positiva manifestazione di volontà di questi, che i pagamenti fossero fatti ad altri.
4. Con il terzo motivo si censura l’impugnata sentenza per vizi di motivazione. Questo motivo non è tuttavia accompagnato dalla sintesi richiesta dall’art. 366 bis c.p.c., parte seconda, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, secondo l’insegnamento delle sezioni unite di questa corte (Cass. Sez. un. 1 ottobre 2007 n. 20603). Esso è pertanto inammissibile.
5. In conclusione il ricorso è respinto. Le spese del presente giudizio sono regolate in base al principio della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 8.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.