Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 26 novembre 2004 dinanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Orvieto, C.D. esponeva di essere stato assunto dalla ditta Itelco S.p.A. il 22 ottobre 1987. A causa di una grave crisi aziendale, si era aperta una procedura concorsuale di concordato preventivo, e il C. aveva quindi cessato il rapporto con l’Itelco il 10 ottobre 2003, con contestuale collocazione in mobilità. In forza di un contratto d’affitto di ramo d’azienda, l’Electrosys S.r.l. era subentrata nel possesso dei locali e di tutti i macchinari già dell’Itelco. Con accordo sindacale, l’Electtosys si era impegnata ad assumere alcuni dei lavoratori già dipendenti dell’Itelco, iscritti nelle liste di mobilità. In virtù di tale accordo, il ricorrente era stato assunto dall’Electrosys con lettera del 22 ottobre 2003.
Il contratto prevedeva, all’esito di un periodo di prova, l’assunzione a tempo determinato per dodici mesi.
Il 20 gennaio 2004, il ricorrente aveva ricevuto un telegramma, con cui l’azienda comunicava la risoluzione del rapporto di lavoro, per il mancato superamento del periodo di prova. Il patto di prova era stato illegittimamente apposto al contratto, poichè il ricorrente, in realtà, aveva cominciato a rendere le sue prestazioni in epoca anteriore alla data formale di assunzione. Di conseguenza, il rapporto di lavoro era da considerarsi a tempo indeterminato fin dall’ epoca della sua effettiva instaurazione, e il patto di prova doveva ritenersi nullo. In ogni caso, tenendo conto che il rapporto andava retrodatato di circa nove giorni rispetto alla data ufficiale d’inizio, al 20 gennaio 2004 il periodo di prova era stato ormai superato, cosicchè, anche sotto questo profilo, il recesso doveva ritenersi illegittimo. Nè corrispondeva al vero che il ricorrente non avesse superato la prova, poichè, al contrario, aveva reso le sue prestazioni senza ricevere richiami nè contestazioni da parte della datrice di lavoro. Infine, le mansioni assegnategli non erano state specificate nel contratto di lavoro, e anche per questo motivo la previsione del periodo di prova doveva ritenersi nulla. Egli aveva quindi diritto all’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, per la quale optava in sostituzione della reintegrazione, e al risarcimento del danno, da quantificarsi nella retribuzione globale di fatto maturata tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione; concludeva, quindi, per l’accertamento della nullità o illegittimità del recesso della datrice di lavoro, e la conseguente condanna di essa al pagamento delle indennità, indicate. L’Elettrosys S.r.L si costituiva in giudizio, contestando la domanda, di cui chiedeva il rigetto.
Con sentenza emessa all’udienza del 4 settembre 2006, il Tribunale di Orvieto, accertata e dichiarata la nullità della clausola di prova apposta al contratto di lavoro intercorso fra le parti e la conseguente invalidità della risoluzione del rapporto di anticipatamente intimata, condannava la datrice di lavoro al pagamento in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla naturale scadenza del rapporto, stabilita per il 21 ottobre 2004, oltre a interessi legali e rivalutazione monetaria e detratti Euro 14.228,33 percepiti dal ricorrente a titolo di compensi di lavoro durante il 2004. Condannava, infine, la convenuta alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente per il giudizio.
2. Con atto depositato il 9 agosto 2007, l’originario ricorrente interponeva appello avverso la decisione, insistendo per la condanna della società convenuta alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e in sostituzione di essa al pagamento dell’indennità commisurata a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, oltre che al risarcimento del danno mediante il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegrazione effettiva. Chiedeva poi che venisse correttamente determinata la somma da detrarre a titolo di all’unde perceptum, rilevando come il giudice di prime cure vi avesse incluso importi che, viceversa, dovevano esserne esclusi. Rassegnava le conclusioni trascritte in epigrafe. L’Electrosys S.r.l. si costituiva in giudizio, rilevando l’inammissibilità del gravame, fondato su una domanda diversa da quella avanzata nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Contestava poi nel merito l’appello, chiedendone il rigetto.
Con sentenza del 4 giugno 2008, la corte d’appello dichiarava inammissibile l’appello quanto alla richiesta di declaratoria di nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro dell’appellante; respingeva, per il resto, l’appello e, per l’effetto, confermava la sentenza impugnata. Condannava l’appellante alla rifusione delle spese sostenute dalla società appellata per il grado di giudizio.
In particolare la corte d’appello riteneva di imprevedibile di risarcimento del danno l’ammontare dell’indennità di mobilità nella misura di Euro 2664,89. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l’originario ricorrente con tre motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Nel decidere la controversia il collegio ha ritenuto di adottare una motivazione semplificata della pronuncia.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in tre motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e formula il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: accerti la corte se la domanda di accertamento dell’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato tra il ricorrente e la società convenuta per essere iniziato il rapporto di lavoro prima della sottoscrizione del contratto di lavoro cui era stato posto il patto di prova, fosse domanda nuova rispetto a quella formulata del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione e formula il seguente quesito: accerti la corte se al contratto intercorso tra il ricorrente e la società ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 8, sia applicabile la disciplina dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione e formula il seguente quesito: accetti la corte se l’indennità di mobilità percepita dal ricorrente debba essere detratta, o meno, a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno riconosciuto al lavoratore illegittimamente estromesso.
2. Il ricorso è fondato solo in parte.
3. I primi due motivi non possono essere accolti: perchè, da una parte, l’interpretazione della domanda, contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità di quanto assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; e perchè, d’altra parte, non rileva la disciplina speciale del contratto a termine essendo la sentenza impugnata tutta incentrata sulla nullità del patto di prova.
4. Il terzo motivo è invece fondato.
La sentenza impugnata – pur affermando correttamente che l’indennità di mobilità non è deducibile come aliunde perceptum – ritiene però che ciò non valga nella ipotesi di in cui non ci sia stata reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 Stat. lav..
In realtà l’indennità di mobilità opera su un piano diverso da quello di possibili incrementi patrimoniali (soprattutto retributivi) che derivano al lavoratore per essere stato liberato (illegittimamente) dall’obbligo di prestare la sua attività; ossia la percezione dell’indennità di mobilità non è conseguenza del fatto che le energie lavorative del lavoratore licenziato siano state liberate dal recesso illegittimo, ma si raccorda al sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore privato della retribuzione. Quindi comunque non è mai deducibile come aliunde perceptum anche nel caso in cui sia mancata la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.
La sua eventuale non debenza da luogo invece a un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall’Istituto previdenziale.
In proposito questa corte (Cass., sez. lav., 14 febbraio 2011, n. 3597), proprio in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha affermato che le indennità previdenziali non possono essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato a titolo di risarcimento danni in favore del lavoratore, in quanto queste non sono acquisite in via definitiva dal lavoratore e sono ripetibili dagli istituti previdenziali. Cfr. anche Cass., sez. lav., 19 novembre 2009, n. 24447, che ha ribadito che in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato all’importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti a titolo di cassa integrazione guadagni, che si sottraggono alla regola della "compensano lucri cum damno", in quanto tali somme, aventi natura previdenziale, con l’annullamento del licenziamento perdono il loro titolo giustificativo e pertanto devono essere restituite, su sua richiesta, all’ente previdenziale.
5. Il ricorso va quindi accolto limitatamente al terzo motivo, rigettati gli altri. L’impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le stesse alla stessa corte d’appello di Perugia in diversa composizione.
P.Q.M.
la previsione del periodo di prova doveva ritenersi nulla. Egli aveva quindi diritto all’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, per la quale optava in sostituzione della reintegrazione, e al risarcimento del danno, da quantificarsi nella retribuzione globale di fatto maturata tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione; concludeva, quindi, per l’accertamento della nullità o illegittimità del recesso della datrice di lavoro, e la conseguente condanna di essa al pagamento delle indennità, indicate. L’Elettrosys S.r.L si costituiva in giudizio, contestando la domanda, di cui chiedeva il rigetto.
Con sentenza emessa all’udienza del 4 settembre 2006, il Tribunale di Orvieto, accertata e dichiarata la nullità della clausola di prova apposta al contratto di lavoro intercorso fra le parti e la conseguente invalidità della risoluzione del rapporto di anticipatamente intimata, condannava la datrice di lavoro al pagamento in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla naturale scadenza del rapporto, stabilita per il 21 ottobre 2004, oltre a interessi legali e rivalutazione monetaria e detratti Euro 14.228,33 percepiti dal ricorrente a titolo di compensi di lavoro durante il 2004. Condannava, infine, la convenuta alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente per il giudizio.
2. Con atto depositato il 9 agosto 2007, l’originario ricorrente interponeva appello avverso la decisione, insistendo per la condanna della società convenuta alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e in sostituzione di essa al pagamento dell’indennità commisurata a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, oltre che al risarcimento del danno mediante il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegrazione effettiva. Chiedeva poi che venisse correttamente determinata la somma da detrarre a titolo di all’unde perceptum, rilevando come il giudice di prime cure vi avesse incluso importi che, viceversa, dovevano esserne esclusi. Rassegnava le conclusioni trascritte in epigrafe. L’Electrosys S.r.l. si costituiva in giudizio, rilevando l’inammissibilità del gravame, fondato su una domanda diversa da quella avanzata nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Contestava poi nel merito l’appello, chiedendone il rigetto.
Con sentenza del 4 giugno 2008, la corte d’appello dichiarava inammissibile l’appello quanto alla richiesta di declaratoria di nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro dell’appellante; respingeva, per il resto, l’appello e, per l’effetto, confermava la sentenza impugnata. Condannava l’appellante alla rifusione delle spese sostenute dalla società appellata per il grado di giudizio.
In particolare la corte d’appello riteneva di imprevedibile di risarcimento del danno l’ammontare dell’indennità di mobilità nella misura di Euro 2664,89. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l’originario ricorrente con tre motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Nel decidere la controversia il collegio ha ritenuto di adottare una motivazione semplificata della pronuncia.
MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso è articolato in tre motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e formula il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: accerti la corte se la domanda di accertamento dell’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato tra il ricorrente e la società convenuta per essere iniziato il rapporto di lavoro prima della sottoscrizione del contratto di lavoro cui era stato posto il patto di prova, fosse domanda nuova rispetto a quella formulata del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione e formula il seguente quesito: accerti la corte se al contratto intercorso tra il ricorrente e la società ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 8, sia applicabile la disciplina dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione e formula il seguente quesito: accetti la corte se l’indennità di mobilità percepita dal ricorrente debba essere detratta, o meno, a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno riconosciuto al lavoratore illegittimamente estromesso.
2. Il ricorso è fondato solo in parte.
3. I primi due motivi non possono essere accolti: perchè, da una parte, l’interpretazione della domanda, contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità di quanto assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; e perchè, d’altra parte, non rileva la disciplina speciale del contratto a termine essendo la sentenza impugnata tutta incentrata sulla nullità del patto di prova.
4. Il terzo motivo è invece fondato.
La sentenza impugnata – pur affermando correttamente che l’indennità di mobilità non è deducibile come aliunde perceptum – ritiene però che ciò non valga nella ipotesi di in cui non ci sia stata reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 Stat. lav..
In realtà l’indennità di mobilità opera su un piano diverso da quello di possibili incrementi patrimoniali (soprattutto retributivi) che derivano al lavoratore per essere stato liberato (illegittimamente) dall’obbligo di prestare la sua attività; ossia la percezione dell’indennità di mobilità non è conseguenza del fatto che le energie lavorative del lavoratore licenziato siano state liberate dal recesso illegittimo, ma si raccorda al sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore privato della retribuzione. Quindi comunque non è mai deducibile come aliunde perceptum anche nel caso in cui sia mancata la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.
La sua eventuale non debenza da luogo invece a un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall’Istituto previdenziale.
In proposito questa corte (Cass., sez. lav., 14 febbraio 2011, n. 3597), proprio in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha affermato che le indennità previdenziali non possono essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato a titolo di risarcimento danni in favore del lavoratore, in quanto queste non sono acquisite in via definitiva dal lavoratore e sono ripetibili dagli istituti previdenziali. Cfr. anche Cass., sez. lav., 19 novembre 2009, n. 24447, che ha ribadito che in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato all’importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti a titolo di cassa integrazione guadagni, che si sottraggono alla regola della "compensano lucri cum damno", in quanto tali somme, aventi natura previdenziale, con l’annullamento del licenziamento perdono il loro titolo giustificativo e pertanto devono essere restituite, su sua richiesta, all’ente previdenziale.
5. Il ricorso va quindi accolto limitatamente al terzo motivo, rigettati gli altri. L’impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le stesse alla stessa corte d’appello di Perugia in diversa composizione.
P.Q.M. La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso; rigetta nel resto;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Perugia.
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