Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 2 aprile 1992 L.S., quale proprietario di appartamento sito all’ultimo piano dell’edificio di via (OMISSIS), evocava, dinanzi al Tribunale di Napoli, P.A., quale proprietaria dell’appartamento contiguo, per sentirla condannare alla chiusura della finestra munita di grata esistente nel muro perimetrale dei rispettivi terrazzi, in subordine – qualificata tale apertura come luce – sentirla condannare alla regolarizzazione della luce stessa ai sensi dell’art. 901 c.c., con risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della convenuta, la quale eccepiva che l’apertura in questione costituiva servitù per destinazione del padre di famiglia, pertanto il suo diritto al mantenimento era stato usucapito, spiegata domanda riconvenzionale per sentire condannare l’attore al ripristino della situazione preesistente con riferimento alla realizzata controparete in gesso immediatamente a ridosso della apertura in contestazione, attraverso la quale una camera dell’appartamento della P. riceveva luce ed aria, il Tribunale adito, accoglieva sia la domanda attorea sia quella riconvenzionale e per l’effetto ordinava alla P. la chiusura della finestra sul terrazzo ed al L. la rimozione del muro edificato in occlusione della luce esistente tra i due appartamenti.
In virtù di rituale appello interposto dal L., con i quale deduceva che la finestra non aveva le caratteristiche della luce, per cui trattandosi di luce irregolare non costituiva servitù e poteva essere chiusa dal proprietario del fondo preteso servente, oltre a difetto di prova circa l’epoca di realizzazione della stessa, la Corte di Appello di Napoli, nella resistenza dell’appellata, che proponeva appello incidentale per ottenere il riconoscimento dei diritto a mantenere aperta la luce, con sentenza n. 1787/98 del 3.7.1998, riformava la decisione impugnata e in accoglimento dell’appello principale rigettava la domanda riconvenzionale avente ad oggetto la riapertura della luce tra i due appartamenti, argomentando sulla impossibilità di individuazione di una servitù nell’ipotesi di luce irregolare non costituita per titolo, non potendosi con certezza stabilire se essa fosse espressione di una mera tolleranza del proprietario del fondo che la subiva. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione la P. e la corte di legittimità, con decisione n. 7490/01 del 25.1.2001, depositata il 4.6.2001, in accoglimento del quarto e del quinto motivo di ricorso, rigettati gli altri, cassava con rinvio la sentenza impugnata in relazione alla specifica tematica afferente alle aperture lucifere poste tra un vano e l’altro di un medesimo edificio, affermando il principio che in siffatti casi – stante la differenza ontologica tra la luce che si apre su di un fondo aperto e quella in contesa – era possibile beneficiare di acquisto della relativa servitù anche per usucapione o per destinazione del padre di famiglia e non solo per titolo.
Riassunto il giudizio avanti al giudice del rinvio dalla P., la diversa sezione della Corte di appello di Napoli, nella resistenza della controparte, limitatamente alla parte cassata, rigettava l’appello proposto dal L. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli del 29.11.1996, e per l’effetto confermava la decisione del primo giudice limitatamente al capo 2), ossia nella parte che condannava l’appellante all’abbattimento della controparete in gesso.
A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che la rinnovazione del giudizio di appello doveva avere ad oggetto il secondo motivo dell’originario atto di appello del L., laddove censurava le prove indiziarie indicate dal giudice di prime cure come rivelatrici della destinazione del padre di famiglia per farne discendere la legittimità della luce in contestazione.
Ciò precisato, concludeva che la prova raggiunta, per sua natura induttiva, relativa alla circostanza che esisteva altra finestrina in diversa zona dell’edificio, in posizione simmetrica a quella in discussione, con analoga funzione, doveva fare ritenere che si trattasse di apertura che esisteva già all’epoca della costruzione, per cui si era in presenza di servitù costituita dal padre di famiglia.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione il L., che risulta articolato su sei motivi, al quale ha resistito la P. con controricorso.
Parte ricorrente ha depositato istanza di trattazione del procedimento ai sensi della L. n. 183 del 2011, art. 26, nonchè memoria illustrativa; all’esito della discussione ha anche prodotto brevi osservazioni ex art. 379 c.p.c., u.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente lamenta il mancato adeguamento della sentenza al principio di diritto enunciato dalla corte di cassazione in quanto avendo il giudice di prime cure ritenuto l’acquisto per destinazione del padre di famiglia del lucernario ed andando la corte di merito di contrario avviso, con argomentazioni impugnate avanti a questa corte perchè contraddittorìe, le stesse erano state confermate nella loro logicità ed il relativo motivo respinto, dando ingresso al solo riesame della fattispecie sotto il profilo della usucapibilità di detta apertura, lasciando al rinvio la ricerca fattuale della permanenza per almeno venti anni della situazione dedotta. Diversamente il giudice del rinvio ha riconfermato l’acquisto per destinazione, pronuncia che gli era preclusa.
La censura mostra di non cogliere il principio di diritto affermato con la decisione n. 7490/2001 da questa corte.
Ed invero, essendo pacifico che nella specie trattasi di giudizio di rinvio ex artt. 383 e 384 c.p.c., a seguito della sentenza di questa Corte n. 7490/2001, ne consegue che il giudice di rinvio è vincolato in ordine alle questioni già decise con la sentenza di annullamento e non può riesaminare gli antecedenti logici e giuridici di esse: in altri termini, il medesimo resta investito della controversia esclusivamente entro i limiti che risultano dettati dalla sentenza di rinvio, Come ha esattamente rilevato la sentenza impugnata (v. pagg.
2-3), nel caso in esame la Corte di Cassazione ha stabilito, con la succitata decisione, il principio di diritto secondo cui l’apertura di luce tra un vano e l’altro dello stesso edificio, attraverso muro comune, necessita del consenso del vicino ( art. 903 c.c., comma 2), con la conseguenza che il permanere dell’apertura senza il mancato consenso dell’avente diritto integrerebbe i presupposti tipici dell’usucapione ovvero della costituzione mediante destinazione del padre di famiglia.
Rileva questo Collegio come la Corte di merito del rinvio si sia correttamente uniformata al principio di diritto sopra menzionato, statuendo con logico ed adeguato ragionamento argomentativo che con riferimento all’apertura della P. fosse intervenuta la costituzione di una servitù di luce per destinazione del padre di famiglia, come dimostrato dall’acquisizione di prove per presunzioni ex art. 2729 c.c..
E’ noto che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità (Cass. 5 luglio 1990 n. 1621; Cass. 30 gennaio 1990 n. 644; Cass. 16 novembre 1989 n. 4878): basta che l’inferenza tra il fatto noto e quello ignoto sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza colte dal giudice per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto con quello accertato (Cass. 18 settembre 1991 n. 9717; Cass. 4 maggio 1985 n. 2790; Cass. 21 maggio 1984 n. 3109).
In presenza di alcuni fatti noti quali: – a) la presenza in altra zona dell’edificio di finestrino analogo; b) la simmetria della collocazione e la pari funzionalità di entrambe le aperture; c) l’apparente contestualità della struttura del vano rispetto alla costruzione del fabbricato e rispetto all’antichità dell’infisso – si può ricavare, con un giudizio di probabilità, che la realizzazione dell’apertura in contesa sia avvenuta in un momento coevo alla edificazione del fabbricato. A fronte di questa doverosa e corretta attuazione, da parte della Corte di rinvio, dei criteri fissati da questa corte con la citata sentenza n. 7490/2001, laddove ha posto l’accento sul fatto che l’apertura lucifera compresa nell’ambito del muro perimetrale dello stabile condominiale, non avendo la connotazione di precarietà e mera tolleranza, caratterizzanti le luci regolare dagli artt. 900 e 904 c.c., era sottratta alla disciplina prevista dalle predette norme e pertanto era possibile a favore di chi ne beneficiava "la possibilità di acquisto della relativa servitù anche per usucapione e per destinazione del padre di famiglia (e non solo per titolo)", per cui l’accertamento de giudice del rinvio ben poteva avere ad oggetto entrambe le fattispecie di acquisto e dei relativi elementi fattuali, il ricorrente si limita ad insistere che il giudice del rinvio avrebbe dovuto considerare quale modo di acquisizione della servitù solo quello per usucapione, così specificato nell’ultima parte della sentenza di legittimità, senza tenere conto della affermazione precedentemente fatta dallo stesso giudice e del complessivo contesto dell’ordito motivazionale. Il motivo va, dunque, disatteso.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del giudicato sulla inesistenza di alcune circostanze di fatto per avere ritenuto la corte di merito l’esistenza ab origine di una situazione fattuale di asservimento, negata dalla prima pronuncia della medesima corte e dallo stesso giudice della legittimità. In altri termini, non potevano essere rimessi in discussione accertamenti negativi compiuti dalla prima corte di appello e vagliati dalla corte di cassazione. La doglianza è priva di pregio.
La corte di legittimità con la decisione invocata ha affermato la differenza ontologica tra la luce che si apre su di un fondo aperto, per cui opera la ratio della mera tolleranza e della precarietà, e quella che concerne la luce che è aperta tra un vano e l’altro dello stesso edificio sul muro comune, con applicazione dell’art. 903 c.c., comma 2, con la conseguenza che incombeva al giudice del rinvio una valutazione degli elementi fattuali in detta prospettiva. Ed è ciò che ha effettuato la corte distrettuale procedendo ad un nuovo apprezzamento delle circostanze, così uniformandosi ai principi in precedenza enunciati, proprio al fine di pervenire ad una nuova valutazione dei fatti di causa coerente con i rilievi contenuti nella sentenza di cassazione, per cui ha correttamente proceduto ad un nuovo esame dei riscontri probatori, applicando doverosamente le regole giuridiche che governano la prova in ordine alle aperture. La decisione del giudice del rinvio sfugge pertanto alle censure mosse, tenuto anche conto che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la sentenza di annullamento, da parte della Corte di cassazione, della pronuncia di appello non conteneva alcuna preclusione all’apprezzamento da parte del giudice di rinvio delle circostanze di fatto, apprezzamento necessario, se non altro, per diversamente determinare gli elementi probatori forniti dalle parti.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. per avere la corte distrettuale ritenuto l’origine progettuale comune dei vani finestra, fra cui quello in contestazione, per la posizione simmetrica degli stessi, presumendo errata l’assenza catastale della luce.
Con il quarto mezzo viene censurata per insufficiente motivazione la presunzione in ordine al momento della costituzione della servitù per essere gli indizi diversi dalla simmetria dei due lucernari solo apparenti, come l’antichità dell’infisso in legno e dell’inferriata, in quanto la scissione del quinto piano, costruito il fabbricato a fine ottocento, era risalente al 1919, con conseguente distorsione logica. Aggiunge che i due elementi non sarebbero utili in tema di acquisto per destinazione, stante la sua natura istantanea.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce la contraddittorietà della motivazione per presunzioni in punto di utilizzo delle risultanze catastali.
Con il sesto ed ultimo mezzo viene denunciata la insufficiente motivazione sulla rilevanza probatoria complessiva della piantina catastale del 1939 dell’appartamento ora P. e del 1940 dell’appartamento ora L., nonchè la contraddittoria motivazione nella valutazione unitaria nella denuncia catastale dell’appartamento P..
Le censure esposte, che vanno esaminate congiuntamente per la loro intima connessione, nel complesso non possono essere accolte. Queste, anche con l’apparente denunzia di vizi di legittimità, sono sostanzialmente dirette ad una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice del merito nell’esercizio del suo potere istituzionale e che comprende l’attendibilità delle persone esaminate nonchè la scelta, fra le varie acquisizioni istruttorie, di quelle ritenute, per la loro rilevanza, più idonee a sorreggere la pronunzia (in proposito "ex multis" vedasi anche la pronunzia di questa corte 28 gennaio 2004 n. 1554). Ne consegue che l’esercizio di quel potere involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito che si sottraggono al sindacato di legittimità quando, come nella specie, quel giudice abbia in proposito reso sufficiente ed adeguata ragione.
In particolare, la corte distrettuale ha ritenuto decisive, nel senso dell’esercizio della servitù di veduta sul muro comune a favore dell’appartamento della P., la collocazione, in posizione simmetrica, di altra apertura, avente le medesime caratteristiche costruttive ed identica funzionalità, nonchè la presumibile realizzazione di entrambi "i finestrini" in epoca coeva alla costruzione dell’intero edificio di cui fanno parte gli appartamenti in contestazione: così compiutamente rendendo ragione dell’esercizio del potere-dovere di verifica. Della valorizzazione di detti elementi probatori rispetto ad altri il giudice dell’appello, per quel che in questa sede rileva, ha reso compiuta ragione posto che nell’apprezzamento di questi ha osservato integrare la rilevanza induttiva di cui all’art. 2729 c.c.. Nè nella specie ricorre ipotesi di "praesumptio de praesumpto" – come sostenuto dal ricorrente – ma convergenza degli elementi, non sussistendo alcuna difformità di valutazione rispetto alle risultanze della relazione peritale.
Inoltre quel giudice ha pur adeguatamente dato conto della attendibilità del testimone D.S.D.N., ritenuto veritiero osservando che doveva in via di deduzione logica necessariamente convenirsi che il "finestrino" in argomento, per le sue dimensioni, non poteva definirsi di difficile rilevabilità ottica, anche da parte di persona affetta da difetto di vista.
Inoltre, non considera il ricorrente che gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice del merito fondare anche su un elemento unico preciso e grave, in concreto apprezzato dal tribunale, e che il controllo di legittimità non può riguardare la valutazione della rilevanza dell’elemento valorizzato ai fini dell’"iter" induttivo (in proposito vedansi anche Cass. 4 maggio 1999 n. 4406).
Per ciò che concerne, inoltre, il sistema di accertamento mediante le mappe catastali, occorre osservare che soltanto quanto sia dimostrata la mancanza assoluta ed obiettiva di altri mezzi di prova, ovvero la loro inidoneità, in concreto, alla determinazione certa dello stato dei luoghi, è consentito il ricorso ai dati catastali.
Il giudice, comunque, non può prescindere da altri eventuali dati contenuti ovvero rinvenibili nella documentazione relativa al bene, anche se inidonei ad assumere un’efficacia probatoria diretta, potendo dare luogo, in concreto, a presunzioni (così Cass. 24 febbraio 1976 n. 605), costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all’insieme degli elementi acquisiti attraverso l’indagine istruttoria (tant’è che le risultanze di esse possono assumere rilevanza probatoria solo se espressamente richiamate nell’atto di acquisto o se non contraddette da specifiche determinazioni negoziali delle parti) (Cass. n. 711 del 1998).
Infine, resta da osservare che la censura del ricorrente secondo cui sarebbero solo apparenti gli indizi relativi alla vetustà dell’infisso in legno e dell’inferriata, risulta dedotta per la prima volta solo nel giudizio di rinvio.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.