Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
p. 1. Nel luglio del 2002 la s.r.l. Edilscuola conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Torino con ricorso per denuncia di nuova opera e danno temuto l’Università degli Studi di Torino, assumendo che la stessa, nel corso dell’esecuzione di lavori di ristrutturazione del tetto di una porzione di edificio precedentemente acquistata da essa ricorrente, aveva praticato tagli alla soletta e rimosso il manto di impermeabilizzazione della porzione di edificio rimasta in proprietà di essa ricorrente, dal che erano derivate infiltrazioni d’acqua nei locali sottostanti in occasione degli eventi piovosi. La ricorrente chiedeva che fossero ordinati all’Università i provvedimenti necessari ad eliminare la situazione dannosa ed al ripristino dello stato anteriore, nonchè quelli di garanzia per i danni subiti e subendi.
Nella costituzione dell’Università, che contestava il proprio difetto di legittimazione, assumendo che i lavori erano stati appaltati alla s.r.l. Coelna Impianti, e, tuttavia, affermava di adoperasi per ovviare agli inconvenienti lamentati, il Tribunale disponeva c.t.u. e all’esito, qualificata l’azione come di denuncia di nuova opera e ritenuti i suoi presupposti ed affermata la legittimazione passiva della resistente, autorizzava la prosecuzione dei lavori subordinatamente all’esecuzione delle opere di riparazione indicate dalla c.t.u., come necessarie per eliminare gli inconvenienti riscontrati sul manto di copertura dell’edificio. p.1.1. Nel giudizio di merito del quale il Tribunale disponeva la prosecuzione con il rito ordinario, l’Università instava la chiamata in causa della s.r.l. appaltatrice dei lavori quale unica responsabile dei danni e sosteneva che era cessata la materia del contendere, perchè le cautele indicate dalla c.t.u. erano state adottate, mentre la Edilscuola, oltre a non opporsi alla chiesta chiamata in causa, assumeva che erano stati eseguiti solo una parte dei lavori prescritti dalla c.t.u., tanto che, dopo inutili solleciti rivolti all’Università, essa era stata costretta a provvedere di sua iniziativa tramite un’impresa di sua fiducia, sopportando un costo pari ad Euro 10.200,00. Tanto premesso la Edilscuola chiedeva la conferma dell’ordinanza cautelare e la condanna della resistente al pagamento della detta somma.
Il Tribunale, negata l’autorizzazione alla chiamata della terza appaltatrice ed assunte prove per testi, con sentenza del luglio 2006, confermava l’ordinanza cautelare e condannava l’Università al pagamento della detta somma con gravame delle spese. p.2. La sentenza veniva appellata dall’Università, che insisteva nell’esclusiva responsabilità dell’impresa appaltatrice, in quanto aveva eseguito i lavori con autonomia di organizzazione e di mezzi, e, nella resistenza della Edilscuola, la Corte d’Appello di Torino ha rigettato l’appello con sentenza del 17 luglio 2009. p.2.1. Contro questa sentenza l’Università ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
La Edilscuola ha resistito con controricorso. p.2.2. La Edilscuola ha depositato memoria.
Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo si denuncia "Violazione e falsa applicazione artt. 1171 e 1172 cod. civ.; artt. 1655 e seguenti cod. civ.; artt. 2043 e ss. cod. civ. – Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio".
L’esposizione del motivo inizia con la premessa – individuatrice della parte della motivazione della sentenza impugnata che si intende sottoporre a critica – che la Corte territoriale, pur prendendo atto dell’esistenza dell’appalto ex artt. 1655 e ss. c.c. per l’esecuzione dei lavori fra l’Università e la Coelna, avrebbe ritenuto legittimata passivamente l’Università perchè l’azione esercitata dall’Edilscuola aveva avuto natura petitoria in quanto rivolta a tutela della proprietà e legittimato passivo ad essa non poteva che essere il proprietario del bene da cui proveniva il danno temuto o la cui nuova opera minacciava il bene di proprietà del ricorrente, di modo che la legittimazione passiva all’azione risarcitoria riguardo al danno derivato dalla nuova opera spettava a "colui che, al momento della verificazione del danno, era tenuto, quale proprietario del fondo, ad eseguire i lavori (in proprio e quale committente), e ad osservare l’obbligo del neminem laedere".
Dopo questa premessa, con quella che parrebbe una prima censura, si sostiene che la Edilscuola avrebbe "proposta un’azione per denunzia di nuova opera e danno temuto, sicchè trattandosi di azione possessoria e non petitoria legittimato passivo non poteva che essere in via esclusiva l’appaltatore, e ciò proprio sulla base dei principi stabiliti dalla Corte di merito, testè richiamati nel presente atto, in coerenza con quanto al riguardo stabilito dalla giurisprudenza di legittimità (sez. 2, n. 13327/2000)". Tale legittimazione, giusta la qualità di detentore qualificato del bene insita nel munus di appaltatore, avrebbe riguardato anche il giudizio di merito.
Si sostiene, poi, che la sentenza impugnata avrebbe eluso il punto fondamentale rilevante, cioè che trattandosi di pregiudizi derivanti dall’opera dell’appaltatore, quest’ultimo, "quantomeno di regola" sarebbe l’unico responsabile dei danni derivanti a terzi dall’esecuzione delle opere commissionate (vengono citate Cass. n. 27495 del 2009; n. 7356 del 2009; n. 8686 del 2000; n. 11566 del 1997 e, quindi, dopo avere evocato il principio di diritto secondo cui il rischio inerente alla cosa oggetto dell’appalto si sposterebbe dal committente all’appaltatore con conseguente inapplicabilità della responsabilità del committente ai sensi dell’art. 2049 c.c., si riportano brani di una delle decisioni citate. Quindi si sostiene che il suddetto principio di diritto sarebbe stato violato, perchè la Corte territoriale, nonostante avesse accertato l’esistenza dell’appalto nell’esecuzione delle opere, avrebbe considerato responsabile della cattiva loro esecuzione l’Università committente.
Inoltre – evidentemente volendosi riferire alla mancata esecuzione integrale delle opere disposte in via cautelare la Corte torinese non avrebbe considerato che l’Università non poteva eseguirle direttamente, perchè "non poteva che conferire detti lavori in appalto, non potendo certo nè spossessare l’appaltatore, ripetesi detentorie qualificato, nè provvedere direttamente all’evasione degli incombenti realizzativi disposti giudizialmente. E ciò è quanto la convenuta Univesità (avrebbe) fatto, affidando alla ditta Coelna Impianti, già "sul posto" in quanto impegnata nei menzionati lavori di ristrutturazione dell’immobile di sua proprietà la realizzazione della ripresa del manto di impermeabilizzazione, al fine di scongiurare ulteriori danni alla proprietà della società attrice". Tale circostanza risulterebbe "inequivocabilmente dai documenti prodotti da parte convenuta nel giudizio di primo grado" (viene indicato un atto di sottomissione del 13 novembre 2002) e sarebbe stata ammessa dalla Edilscuola nella memoria autorizzata del 10 gennaio 2003.
Nella parte finale dell’esposizione il motivo in fine assume la "inadeguatezza" della motivazione con riferimento alla qualificazione dell’azione della Edilscuola come petitoria. La Corte torinese avrebbe travisato il reale tenore dell’azione della medesima "all’evidente obiettivo di radicare la responsabilità dell’Ateneo in luogo di quella dell’appaltatore, esprimendo una serie di considerazioni in ordine al regime della responsabilità non soltanto contrarie alla normativa indicata nell’epigrafe del (….) motivo di ricorso, ma anche affatto illogiche". L’illogicità si coglierebbe sia nel richiamo al principio del neminem laedere (perchè esso non terrebbe in conto che l’Ateneo, una volta commissionata l’opera all’appaltatrice, non poteva rispondere a titolo di responsabilità oggettiva dei danni cagionati da quest’ultima a terzi), sia nell’affermazione che l’effettivo destinatario dell’ordine impartito dal giudice era l’Università, tenuto conto che tale ordine non poteva che essere emesso che nei confronti della parte convenuta e non certo di un soggetto estraneo al processo, nel mentre l’Università non poteva che avvalersi che dell’appaltatrice per eseguire i lavori, essendo priva della capacità e professionalità per realizzare i lavori. p.1.1. Il motivo, che conforme all’intestazione denuncia distinte violazioni di norme di diritto e, quindi, vizio di motivazione, deve ritenersi inammissibile per plurime gradate ragioni. p.1.1.1. La prima ragione riguarda le censure di violazione di norme di diritto.
Nell’esposizione del motivo sarebbe stato necessario enunciare, preliminarmente all’enunciazione delle ragioni che evidenzierebbero nella motivazione della sentenza impugnata la violazione di ciascuna delle norme cui fa riferimento l’intestazione del motivo, l’indicazione dell’intentio argomentativa della violazione di ciascuna. Viceversa, in nessuna parte dell’esposizione del motivo si fa questa enunciazione preliminare, per cui resta completamente affidato al lettore di individuare, con inevitabile soggettivismo e rischio di fraintendimenti e con inammissibile supplenza dell’onere che caratterizza la posizione del ricorrente in Cassazione nella denuncia del vizio di violazione, che si connota nello svolgimento di un’attività assertiva chiara di dimostrazione della violazione delle norme indicate nell’intestazione del motivo come inosservate dalla sentenza impugnata.
Al riguardo, si rileva che in nessuna parte dell’esposizione del motivo si coglie quando si denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione degli art. 1171 e 1172 c.c., quando si denuncia la violazione degli artt. 1655 e ss. c.c. e quando si denuncia quella degli artt. 2043 e ss. c.c.. Nè si coglie alcuna affermazione intesa a preannunciare che tali norme sarebbero state violate in combinato disposto fra loro.
Nella giurisprudenza della Corte si ricorda che è consolidato il principio di diritto secondo cui "Nel ricorso per cassazione, il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione" (ex multis Cass. n. 5076 del 2007).
Nella specie, è da rilevare che, là dove si evocano nella illustrazione del motivo parti della motivazione della sentenza impugnata e, quindi, si svolgono considerazioni riguardo ad esse, non si dice in alcun modo in relazione a quale vizio si argomenta. p.1.1.2. Inoltre, il motivo si presenta inammissibile, perchè, essendo diretto contro una sentenza di appello e censurandola riguardo allo scrutinio che ha fatto della sentenza di primo grado, omette di individuare con riferimento a quale o a quali motivi di appello l’erroneo scrutinio sarebbe avvenuto. p.1.1.3. In secondo luogo, se fosse superabile il rilievo di inammissibilità appena svolto e si procedesse d’ufficio a raccordare le argomentazioni dell’illustrazione del motivo alle norme denunciate, si dovrebbe constatare:
a) che la prima censura che presumibilmente dovrebbe raccordarsi alla violazione delle norme degli artt. 1171 e 1172 c.c., là dove critica la sentenza impugnata per avere considerato di natura reale l’azione esercitata dalla resistente, è non solo enunciata in modo apodittico quanto all’affermazione che l’azione ai sensi degli artt. 1171 e 1172 c.c. sarebbe stata azione possessoria e non petitoria (sempre che l’assunto si ritenga riferito a concreto tenore dell’azione esercitata: perchè se si trattasse di enunciazione riferita al modello normativo dell’azione, sarebbe palesemente priva di fondamento, posto che l’una e l’altra azione nunciatoria competono al possessore come al proprietario o altro titolare di diritto reale), ma sarebbe anche inammissibile perchè, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, costituente il precipitato normativo della cd. autosufficienza dell’esposizione motivo di ricorso per cassazione, non ha identificato il tenore della domanda proposta nel giudizio a cognizione piena di cui il Tribunale dispose la prosecuzione davanti a sè, onde risulterebbe impossibile verificare l’assunto della censura;
b) la seconda censura, ipoteticamente riferibile alle norme sull’appalto e alla norma sull’illecito aquiliano, là dove evoca i principi della giurisprudenza di questa Corte circa la responsabilità per i danni cagionati dall’esecuzione di opere date in appalto e particolarmente circa la posizione in relazione del committente, risulterebbe priva di pertinenza con la motivazione della sentenza impugnata, perchè essa non ha affatto disconosciuto detti principi, avendo attribuito la responsabilità (cioè la legittimazione in senso sostanziale) all’Università nonostante l’appalto sul riflesso che "l’appaltatore non era libero di operare per il risultato contrattualmente previsto ma doveva agire in base ad un progetto e alle direttive che gli venivano fornite dalla committente Università (v. Cass. 22/2/2008 n. 4591), come emerge senza ombra di dubbio dal doc. 1 prodotto dalla appellante in primo grado (v. art. 4)" (pag. 10 della sentenza, in chiusura dello scrutinio del primo motivo di appello).
La Corte territoriale, dopo avere evocato alla pagina precedente Cass. 13327 del 2000, ha fatto applicazione del seguente principio di diritto: "In tema di risarcimento del danno, con riferimento all’appalto di opere pubbliche, gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della P.A. nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l’ente committente. (Nella specie la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha cassato la sentenza impugnata con cui era stata esclusa la corresponsabilità dell’ente comunale committente con la ditta appaltatrice in ordine ai danni subiti dalla ricorrente in seguito ad un furto consumato nella sua abitazione agevolato dall’installazione di alcuni ponteggi posti a servizio delle opere da svolgersi su un attiguo edificio comunale con restrizione della via pubblica ed appoggiati a ridosso del palazzo di cui faceva parte l’appartamento in cui si erano introdotti i ladri)" (Cass. n. 4591 del 2008).
Questa affermazione si sarebbe, dunque, dovuta criticare e non un inesistente disconoscimento da parte della Corte torinese dei principi della giurisprudenza richiamata dal motivo, i quali, peraltro suonano in questi termini: "L’autonomia dell’appaltatore il quale esplica la sua attività nell’esecuzione dell’opera assunta con propria organizzazione apprestandone i mezzi, nonchè curandone le modalità ed obbligandosi verso il committente a prestargli il risultato della sua opera, comporta che, di regola, l’appaltatore deve ritenersi unico responsabile dei danni derivati a terzi dall’esecuzione dell’opera (nella specie i danni derivanti dall’esecuzione di lavori di riparazione del tetto di un edificio in condominio). Una corresponsabilità del committente può configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 cod. civ., ovvero in caso di riferibilità dell’evento al committente stesso per "culpa in eligendo" per essere stata affidata l’opera ad un’impresa assolutamente inidonea ovvero quando l’appaltatore in base a patti contrattuali sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente ed abbia agito quale "nudus minister" attuandone specifiche direttive." (Cass. n. 8686 del 2000).
Peraltro, anche in base a tali principi – ove la Corte territoriale li avesse posti a base della sua decisione – la negazione della responsabilità dell’Università avrebbe dovuto fare i conti con l’essere stato nella specie l’appaltatore mero esecutore.
La censura, in definitiva, sarebbe inammissibile alla stregua del seguente consolidato principio di diritto: "Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4" (Cass. n. 359 del 2005, seguito da numerose conformi);
d) Il rilievo di inammissibilità riguarda anche la parte finale dell’esposizione del motivo;
e) in fine alla pagina 19 del ricorso la censura che è esposta riguardo all’affidamento dell’Università sull’esecuzione dell’ordine cautelare da parte dell’appaltatrice si fonda su un documento del quale non si fornisce l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 nei termini di cui alla consolidata giurisprudenza della Corte (ex multis, Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e n. 7161 del 2010);
f) la censura svolta alla fine della pagina 18 e poi articolata con il riferimento al documento di cui sub e) adombrando una mancanza di responsabilità per avere dovuto disporre che le opere in ottemperanza all’ordine cautelare fossero eseguite dalla società appaltatrice, là dove pretende di escludere che l’Università dovesse ingerirsi dell’esecuzione dell’ordine da parte dell’appaltatrice nuovamente si scontra con il principio di diritto evocato alla pagina dieci dalla sentenza impugnata: poichè l’esecuzione della misura cautelare era parte dell’esecuzione del rapporto di appalto la pretesa dell’Università di sottrarsi a qualsiasi attività di controllo dell’operato della ditta appaltatrice è priva di fondamento. p.1.1.4. Da ultimo si deve rilevare che il motivo non espone alcuna censura di ricostruzione della ed. quaestio facti sicchè "manca" come motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. p.2. Con il secondo motivo si denuncia "Violazione artt. 1655, 1669, 2043 e 2049 cod. civ. – Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio".
Vi si critica la sentenza impugnata, là dove, scrutinando il secondo motivo di appello, con cui la ricorrente aveva sostenuto doversi escludere la sua responsabilità perchè durante l’esecuzione dei lavori non aveva mantenuto un potere di controllo sull’immobile, dopo avere rilevato (punto che, come emerge dalla sentenza e la ricorrente non dive, la Corte territoriale ha desunto riproducendo testualmente a suo dire l’art. 6 del contratto di affidamento dei lavori, intitolato "Coordinamento con le attività universitarie" e che, inoltre, è riportato i sentenza anche per una successiva enunciazione non riprodotta nel motivo) che "tutti i lavori dovranno essere compiuti in concomitanza con le normali attività dell’Università e di eventuali imprese terze, e non dovranno in alcun modo interferire con esse", avrebbe poi inferito che "durante il lavori di ristrutturazione oggetto del contratto di appalto, la appellante Università ha continuato a svolgere tute le sue normali attività e quindi ha mantenuto il potere di fatto e il controllo dell’edificio che non è stato affidato in toto all’appaltatore, la cui attività, comunque, era sotto la supervisione della direzione dei lavori". p.2.1. Il motivo sconta nuovamente la mancanza di chiare enunciazioni dirette ad evidenziare in quale parte dell’illustrazione si intende denunciare la violazione di ciascuna norma indicata nell’intestazione o, de del caso, del combinato disposto di alcune o di tutte.
E’ inoltre argomentato con l’affermazione apodittica che "anche le considerazioni di cui sopra sono (….) errate in diritto ed illogiche, non vedendosi proprio, ai fini che interessano, qual attinenza e rilievo abbia la circostanza rappresentata dal concomitante e perdurante svolgimento all’interno dell’edificio, della attività istituzionale dell’Ateneo".
Inoltre, nessun riferimento si fa alla supervisione della direzione dei lavori.
In fine, in disparte il mancato rispetto dell’onere di indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 del documento cui si fa riferimento nella motivazione, particolarmente quanto al se e dove sia stato prodotto in questa sede di legittimità al fine dell’esame da parte della Corte, il motivo è poi fondato su quanto "esposto ed argomentato in atto di appello (oltre ad essere stato ampiamente documentato dagli atti del giudizio di primo grado)", il che nuovamente implica inosservanza della detta norma.
Va ancora considerato che l’esposizione del motivo non si a carico del riferimento al principio di diritto di cui a Cass. n. 4591 del 208, evocata dalla motivazione della sentenza impugnata, nonchè del correlato riferimento di essa all’art. 4 del documento colà citato. p.3. Il ricorso è, conclusivamente rigettato. p.4. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro duemila, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
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