Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza del 16 settembre 2010, in riforma della decisione 17 luglio 2003 del Tribunale di Reggio Calabria, ha condannato il comune di Reggio Calabria al risarcimento del danno in favore di Gi., E., M. e S.G. liquidato nella misura di Euro 75.910,85 per l’abusiva occupazione di un terreno di loro proprietà denominato "(OMISSIS)" (in catasto al fg.101, part.89, 228, 239 e 345), osservando: a) che l’apprensione del fondo e la sua irreversibile trasformazione ravvisata nella posa dell’asfalto sulla preesistente strada costruita dal proprietario, erano avvenute al di fuori di qualsiasi procedimento espropriativo: perciò, escludendosi il decorso della prescrizione del diritto a conseguire il controvalore del bene, interrotto dalla citazione introduttiva del giudizio con cui era stata avanzata la relativa richiesta in luogo della sua restituzione; b) che non ricorreva l’ipotesi della volontaria costituzione di servitù di uso pubblico della strada in forza della cd. dicatio ad patriam, difettandone il presupposto della messa a disposizione della stessa per il passaggio dei cittadini.
Per la cassazione della sentenza il comune ha proposto ricorso per due motivi;cui resistono gli S. con controricorso.
Motivi della decisione
Con il secondo motivo del ricorso, dall’evidente carattere pregiudiziale, il comune di Reggio Calabria, deducendo difetti di motivazione, censura la sentenza impugnata per avere escluso la avvenuta costituzione, da parte del dante causa degli S. della servitù di uso pubblico (cd. dicatio ad patriam), senza considerare che l’immobile era stato messo di fatto a disposizione della collettività ed assoggettato a pubblico transito da detto proprietario: perciò rendendone in configurabile l’occupazione senza titolo da parte dei cittadini e/o dell’amministrazione comunale. La doglianza è infondata.
Lo stesso ente pubblico ha confermato che la "dicatio ad patriam", quale modo di costituzione di una servitù (nella specie, transito sulla strada), postula un comportamento del proprietario che, seppur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al relativo uso (Cass. 3742/2007; 3075/2006; 20867/2004).
Senonchè i giudici di appello hanno escluso proprio la ricorrenza di siffatto presupposto, avendo accertato, in base alla documentazione in atti ed alle risultanze della ct., che: a) lo S., a partire dagli anni 50, si era limitato a realizzare una strada privata di accesso e collegamento fra i vari edifici ivi realizzati a seguito di una sorta di lottizzazione attuata sul proprio fondo; b) il comune, senza alcun progetto o procedimento espropriativo e, pur in mancanza di qualsiasi altro titolo, aveva provveduto ad asfaltare detta strada, denominata appunto "(OMISSIS)", che peraltro poneva in collegamento due strade pubbliche; c) il proprietario non soltanto non aveva tenuto alcun comportamento omissivo o tollerante, ma aveva contestato l’abusiva ingerenza dell’ente pubblico nel manufatto di sua proprietà e gli aveva inviato una serie di missive con le quali aveva inistentemente richiesto il risarcimento del danno.
Vero è che l’operazione materiale compiuta dal comune non è sussumibile secondo la giurisprudenza di questa Corte nella nozione di irreversibile trasformazione del fondo privato in un’opera pubblica, perciò costituita necessariamente da un bene demaniale o patrimoniale indisponibile (nè lo è a maggior ragione la realizzazione di opere di urbanizzazione o di edifici pubblici in altri terreni della zona), e rientra, invece, nella categoria delle opere fatte da un terzo con materiali propri, interamente disciplinata dall’art. 936 cod. civ.. Ma la contraria statuizione dei giudici di merito, seppur erronea, non è stata contestata dalle parti, che l’hanno anzi interamente condivisa, da ultimo nel ricorso in cui l’ente pubblico ha ritenuto perfino di individuarne la data nell’anno 1974, in coincidenza con "la posa dell’asfalto" (pag.7 ric.); sicchè è divenuta definitiva comportando l’acquisizione del manufatto nel patrimonio dell’ente pubblico e rendendo con essa incompatibile anche sotto questo profilo l’assunto che lo S. abbia consentito o soltanto tollerato il mero uso pubblico della propria strada rimasta privata.
Con il primo motivo, il comune, deducendo difetti di motivazione in ordine alla decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno chiesto dalla controparte, censura la decisione impugnata per avere aderito all’orientamento giurisprudenziale di legittimità che la individua in coincidenza con la data della domanda giudiziale;
disattendendo l’altro più corretto e copioso indirizzo che invece determina preventivamente la data di irreversibile trasformazione del fondo dalla quale non è più conseguibile la restituzione dell’immobile e sorge in luogo della stessa il diritto del proprietario al risarcimento del danno pari al controvalore del bene.
E comporta che dallo stesso momento, nel caso coincidente con l’anno 1974, inizia del pari a decorrere la prescrizione del relativo credito, il cui temine – quinquennale o decennale che sia – per quanto riguarda il controvalore dell’immobile S., era interamente spirato alla data della citazione introduttiva del giudizio (anno 1987).
Il motivo è infondato, anche se va corretta la motivazione della sentenza impugnata che, dichiarando di conoscere le differenze tra espropriazione illegittima ed occupazione senza titolo cd. usurpativa, ha finito per confondere (così come hanno fatto entrambe le parti) le problematiche relative ai due istituti, peraltro ipotizzando inesistenti contrasti giurisprudenziali su principi in realtà inerenti a questioni del tutto diverse.
Al riguardo la Corte deve ribadire ancora una volta, dando ulteriore continuità alla propria giurisprudenza, che, siccome nel caso è pacifica (sul punto essendosi formato il giudicato interno) l’avvenuta occupazione da parte del comune della menzionata "(OMISSIS)" senza alcun procedimento espropriativo, la vicenda esula dalla materia delle espropriazioni per p.u. – siano esse legittime, che illegittime (cd. occupazione acquisitiva) – per rientrare nella categoria dell’apprensione – detenzione senza titolo di un bene altrui, costituente un fatto illecito di diritto comune e sottoposta (almeno fino al T.U. delle espropriazioni appr. con D.P.R. n. 327 del 2001) alla relativa disciplina: nel duplice senso di soggezione alle regole del codice civile – ed tin particolar modo alle disposizioni degli artt. 2043 e 2058 -, nonchè di applicabilità indifferenziata delle stesse a qualunque soggetto assuma la qualifica di occupante abusivo, sia esso un ente pubblico che un soggetto privato.
Da questa disciplina niente affatto recente, come dedotto dagli S. (pag.2 controric.), ma risalente quanto meno alle note decisioni delle Sezioni Unite 4423/1977 e 118/1978, e fondata sul presupposto che di funzione amministrativa ablatoria meritevole della particolare tutela apprestata dall’art. 42 Cost. nonchè dalla L. n. 2248 del 1865, art. 4, All. E non può parlarsi nel caso di mero impiego, sia pure per fini pubblici, del fondo altrui materialmente appreso, sono derivate quali necessario conseguenze: a) che siccome la semplice intromissione nell’immobile e la sua materiale utilizzazione non possono valere a trasformare in esercizio di poteri ablativi nè l’iniziale apprensione del bene nè la sua successiva manipolazione, diviene del tutto irrilevante anche la sua successiva e non consentita trasformazione da parte dell’ente pubblico che produce soltanto le conseguenze proprie dell’illecito comune di carattere permanente di cui alla normativa ricordata; b) che il proprietario conserva e mantiene il diritto dominicale sull’immobile, nonchè in via primaria, la possibilità di esercizio delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà, e perfino dell’azione esecutiva di cui agli artt. 474 e 605 cod. proc. civ. anche per conseguire il ripristino dello status quo ante previa demolizione dell’opera abusiva (Cass. 18239/2005; 18436/2004;
15710/2001; 12841/1995; 1867/1991): salvo rimanendo il diritto al risarcimento del danno per i frutti via via perduti e per ogni altra ragione di pregiudizio causata dalla compressione del diritto dominicale, fino al momento in cui tale situazione venga a cessare.
In relazione al quale può porsi di conseguenza soltanto il problema della prescrizione dei crediti (frutti, occasioni ed altri utili) via via sorti nel periodo anteriore al quinquennio antecedente alla domanda giudiziale Cass. 1683/1984; 4522/1994 e da ultimo:
5381/2011). Non vi è invece spazio per la prescrizione del credito inerente al controvalore del fondo, del tutto estraneo a tale categoria di occupazione-detenzione illegittima, in cui nessuna funzione è svolta dalla trasformazione del bene per fini pubblici;
non ne è ipotizzabile il mutamento dell’assetto reale ed il fulcro dell’intera costruzione si incentra sulla compressione, rinnovantesi di momento in momento delle principali facoltà di godimento e di disposizioni del diritto dominicale su di esso, propria del fatto illecito di natura permanente (Cass. sez. un. 1907/1997 e 2332/1997, e succ.).
Questo regime non è stato rimesso in discussione nè modificato da queste ultime decisioni delle Sezioni Unite, nonchè dalla conforme giurisprudenza successiva sostanzialmente invocate dai giudici di appello; le quali hanno confermato nuovamente in tale fattispecie "il carattere permanente dell’illecito, con evidenti implicazioni sia in punto di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante dal protrarsi dell’illecita occupazione, sia in punto di esperibilità delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà".
E tuttavia hanno esteso anche a questa tipologia di illecito la facoltà concessa dal legislatore al proprietario di un bene mobile (si pensi ad un’autovettura) o immobile, distrutto, neutralizzato o comunque reso inidoneo a svolgere la funzione originaria, di chiedere la condanna del danneggiante invece che alla restituzione ed al ripristino del bene nello stato originario (peraltro non sempre attuabile), al risarcimento del danno per equivalente: in corrispondenza all’analoga facoltà data dall’art. 2058 c.c., comma 2 al debitore, ove la reintegrazione in forma specifica risulti per lui eccessivamente onerosa. E specificato che anche in tal caso l’azione di risarcimento del danno extracontrattuale soggiace alla disciplina della prescrizione propria dei fatti illeciti permanenti; con la peculiarità che la decorrenza di essa non può iniziare dalla restituzione dell’immobile (costituente l’atto del danneggiante che pone fine alla permanenza), più non richiesta dal danneggiato, bensì dal momento della scelta in luogo di essa, dell’azione risarcitoria, per l’implicito meccanismo abdicativo ravvisabile nei confronti di quella restitutoria: a differenza di quanto accade nelle espropriazioni – rituali e/o illegittime – in cui la prescrizione del credito indennitario, dovendo cominciare a decorrere ex art. 2937 cod. civ. dal momento in cui il relativo diritto può essere fatto valere, è necessariamente ancorata alla data del trasferimento coattivo del fondo (per effetto del decreto di esproprio, del contratto di cessione volontaria, ovvero della sua irreversibile trasformazione in un bene pubblico) che è quella della perdita definitiva del diritto dominicale.
Per cui, siccome la scelta dello S. di chiederne il controvalore è stata palesata con la citazione introduttiva del giudizio, notificata il 10 gennaio 1987, correttamente la sentenza impugnata ha respinto l’eccezione di prescrizione del comune, definitivamente interrotta proprio in concomitanza con il termine iniziale del suo decorso. A tutt’altro problema si riferisce l’orientamento giurisprudenziale che i giudici di appello hanno dichiarato di non condividere;il quale lungi dal contraddire i principi avanti ribaditi in tema di prescrizione, ha affrontato la diversa questione dell’accertamento del controvalore del fondo, nonchè della necessità di determinare il momento in cui eseguirne la ricognizione fattuale e giuridica. Ed ha ribadito anche in questo settore la medesima regola enunciata da dottrina e giurisprudenza tutte le volte in cui il proprietario di un bene – mobile o immobile – distrutto, radicalmente trasformato, ovvero reso privo della funzione sua propria, ne chieda l’equivalente pecuniario in luogo del ripristino nello stato originario (talvolta impossibile o più oneroso del suo stesso valore commerciale): che il periodo o l’evento cui deve ancorarsi la sua valutazione è proprio quello in cui ne è localizzabile l’annullamento fisico-giuridico. Con la conseguenza che mentre lo stesso, per quanto si è detto, non ricopre alcun ruolo nella disciplina dell’assetto proprietario dipendente dall’occupazione, assume invece necessariamente valenza decisiva, in seguito alla scelta operata dal proprietario, con riguardo ai criteri che presidiano alla liquidazione del danno richiesto (Cass. 2207/2007; 13585/2006; 7643/2003; 4189/2001; 1814/2000).
Il ricorso del comune va conclusivamente respinto con la conseguente condanna dell’ente pubblico, rimasto soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il comune ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in favore degli S. in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 4.000 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
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