Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-05-2012, n. 7526 Deposito cauzionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

p. 1. F.T. e V.V.A.R. hanno proposto ricorso per cassazione contro A.N. e G.C. avverso la sentenza del 21 ottobre 2009, con la quale la Corte d’Appello di Bari ha provveduto in grado di appello sulla controversia a suo tempo dalla A. dinanzi al Tribunale di Trani, con ricorso ai sensi dell’art. 447-bis c.p.c. in opposizione al decreto ingiuntivo nei suoi confronti ottenuto dal G. per l’importo di Euro 1.030,00 a titolo di restituzione del deposito cauzionale versato al momento della stipulazione di un contratto locativo immobiliare.

Nell’atto di opposizione al decreto, risalente al luglio del 2003, la A. aveva contestato d’essere tenuta alla restituzione adducendo che il F. e la V., suoi danti causa e precedenti locatori dell’immobile, non le avevano trasferito il deposito cauzionale. Per tale ragione l’ A. nell’atto di opposizione aveva svolto domanda di chiamata in causa dei medesimi per sentirli condannare al pagamento della somma oggetto dell’ingiunzione. Inoltre, aveva eccepito comunque in compensazione un proprio controcredito di pari importo a titolo di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. per la ritardata restituzione dell’immobile.

Fissata dal Tribunale l’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. e notificato il ricorso ed il decreto dì fissazione dell’udienza sia all’opposto che ai terzi chiamati, si costituiva il G., che contestava la fondatezza dell’opposizione, e si costituivano con atti separati il F. e la V.. Questi ultimi eccepivano entrambi l’irritualità della loro chiamata in causa, la prescrizione del credito dell’ A. e comunque deducevano di avere a suo tempo rimesso alla medesima la cauzione. p. 2. Con sentenza del novembre 2006 l’adito Tribunale dichiarava la nullità della chiamata in causa dei terzi e rigettava l’opposizione dell’ A. e la sua domanda di compensazione, con gravame delle spese sia a favore dell’opposto che dei terzi chiamati. p. 2.1. La sentenza veniva appellata dal G. riguardo alla sola declaratoria di nullità della chiamata in causa dei terzi e la Corte d’Appello di Bari, nella separata costituzione di ciascuno dei terzi chiamati e del G., accoglieva l’appello sul punto e, provvedendo sull’azione di rivalsa esercitata dall’ A., condannava il F. e la V. a tenere indenne la medesima delle conseguenze della soccombenza patita nei riguardi del G., nonchè alle spese del doppio grado. Compensava le spese del grado nel rapporto fra l’ A. e l’appellato G.. p. 3. Al ricorso per cassazione proposto dal F. e dalla V., che è affidato a tre motivi, ha resistito con controricorso l’ A., mentre non ha svolto attività difensiva il G.. p. 4. Le parti costituite hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p. 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 420 c.p.c., comma 9 in materia di autorizzazione della chiamata del terzo nel giudizio e art. 645 c.p.c. Irritualità chiamata terzo".

Vi si critica la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto rituale la chiamata in causa dei ricorrenti ribaltando l’assunto del Tribunale in primo grado. p. 1.1. Quest’ultimo era pervenuto alla declaratoria di inammissibilità della chiamata in causa evocando il principio di diritto che la giurisprudenza di questa Corte ritiene applicabile all’ipotesi di chiamata in causa di un terzo nel rito di cognizione ordinario con la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, là dove si ritiene che, essendo la posizione dell’opponente quella sostanziale di un convenuto, detto atto, non diversamente da quanto accade per la comparsa di riposta in un normale processo di cognizione, potrebbe solo contenere la proposizione della chiamata in causa e la relativa richiesta, ma su di essa dovrebbe provvedere il giudice con lo spostamento dell’udienza a mente dell’art. 269 c.p.c., comma 2. Di modo che il convenuto e, quindi, l’opponente non può citare direttamente il terzo ma deve citare solo la parte opposta e, quindi, all’udienza dar corso alla richiesta di chiamare in causa il terzo soltanto formulata nella citazione in opposizione. p. 1.2. La Corte territoriale ha ritenuto che tale principio di diritto fosse stato male applicato dal Tribunale per avere esso omesso di considerare che, vertendosi in causa soggetta al rito del lavoro, la opposizione era stata dall’ A. proposta con ricorso, nel quale risultava enunciato l’intento di chiamare in causa i terzi e che detto ricorso era stato depositato nella cancelleria del giudice competente, che, dopo averlo letto, ha fissato l’udienza di discussione, onerando la ricorrente in opposizione della notifica del ricorso e del proprio decreto, senza esclusione di alcuno dei destinatari, di modo che il giudice di prime cure aveva di fatto consentito alla chiamata dei terzi, non avendo individuato nel solo G. il destinatario della notifica.

Sulla base di tali premesse, la Corte barese ha, pertanto, osservato che l’ A. non aveva convenuto direttamente i terzi in giudizio, ma lo aveva fatto sulla base del provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza e di concessione del termine per la notificazione. Ha, poi, osservato: a) che la chiamata in causa nel rito del lavoro deve effettuarsi nella comparsa di risposta e non in un momento successivo ed ha citato in proposito Cass. n. 15080 del 2008; b) che nel processo ordinario secondo quel rito è a ciò che la sentenza si riferisce con l’espressione processo di cognizione ordinaria all’inizio dell’ultima proposizione della pagina 9 il giudice si pronuncia sulla chiamata all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 420 c.p.c., comma 9, mentre, nell’opposizione al decreto ingiuntivo secondo quel rito il giudice si pronuncia con il decreto di fissazione dell’udienza di discussione, con piena tutela dei diritti del terzo, che partecipa al processo ab initio e che nel tempo intercorrente fra la notifica e la costituzione in giudizio ha anche la possibilità di accedere alla competente cancelleria per esaminare il decreto ingiuntivo opposto; c) che, inoltre, i terzi si erano costituiti e non avevano ricevuto alcun pregiudizio alla loro facoltà di difesa ed avevano contraddetto nel merito, ditalchè un’interpretazione costituzionalmente orientata e volta ad escludere inutili lungaggini, induceva a ritenere sanata l’eventuale nullità. p. 1.3. La critica rivolta dai ricorrenti alla sentenza impugnata si sviluppa evocando la giurisprudenza su cui aveva fatto leva la sentenza di primo grado e segnatamente Cass. n. 4800 del 2007 e Cass. n. 8718 del 2000, di cui vengono richiamati i principi di diritto.

Viene, poi, richiamata Cass. n. 3156 del 2002. p. 1.4. Il Collegio ritiene il motivo infondato.

Queste le ragioni. p. 1.4.1. Va premesso che la giurisprudenza evocata dai ricorrenti non concerne il caso dell’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con il rito del lavoro, qual è quello che ha regolato la proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo nella specie.

Nella giurisprudenza della Corte non sembra invero che vi siano stati precedenti su questo specifico caso.

La giurisprudenza richiamata dai ricorrenti concerne il rito di cognizione ordinario, cioè l’ipotesi di introduzione dell’opposizione al decreto ingiuntivo con la citazione, evocata nell’art. 645 c.p.c., comma 1.

Secondo questa giurisprudenza In tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell’opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l’opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti. Ne consegue che il disposto dell’art. 269 cod. proc. civ., che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con l’opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l’opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento e non potendo le parti originariamente essere altre che il soggetto istante per l’ingiunzione e il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta, così che l’opponente deve necessariamente chiedere al giudice, con l’atto di opposizione, l’autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritenga comune la causa sulla base dell’esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto. (Nella specie, in applicazione del principio soprariportato, la S.C. ha cassato la sentenza d’appello e rinviato la causa al giudice di primo grado per provvedere in ordine alla richiesta di chiamata in causa proposta dall’opponente con l’atto di opposizione e giudicata inammissibile dai giudici di merito). (Così Cass. n. 5800 del 2007; in precedenza: Cass. n. 1175 del 2003, oltre che Cass. n. 7818 del 2000, evocata dai ricorrenti).

La ragione giustificativa di questo orientamento, a seguire la logica della considerazione della posizione dell’opponente al decreto ingiuntivo sub specie di convenuto in senso sostanziale, è evidentemente basata sul riflesso che tale posizione nella specie si connota in modo particolare, in quanto, per un verso compete al convenuto individuare nella citazione in opposizione la prima udienza di comparizione (che invece nel rito ordinario è quella indicata dall’attore e della quale il convenuto deve chiedere lo spostamento in funzione della chiamata del terzo), per altro verso, dovendo la citazione essere iscritta a ruolo e, quindi, dovendo avvenire la presa di contatto con il giudice solo successivamente, una "richiesta", come esige l’art. 269 c.p.c., comma 2 non potrebbe ancora essere formulata.

D’altro canto, nemmeno l’ulteriore esigenza che di recente la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto espressa nella previsione del doversi indirizzare una richiesta al giudice, cioè l’esigenza di consentirgli una valutazione sull’istanza, potrebbe essere assicurata e ciò sempre perchè, mancando quella presa di contatto quando si notifica la citazione in opposizione al decreto, la richiesta al giudice non sarebbe formulabile.

Di recente, infatti, è stato statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte che In tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 cod. proc. civ., è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell’art. 269 cod. proc. civ., come modificato dalla L. 26 novembre 1990, n. 353; conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo. (Cass. sez. un. n. 4309 del 2010).

In base a questo arresto delle Sezioni Unite le forme previste dall’art. 269, comma 2 hanno acquisito un’ulteriore connotazione funzionale e, quindi, di scopo: quella di consentire al giudice di interloquire sulla chiamata, eventualmente non reputandola ammissibile e, quindi, non facendo luogo allo spostamento dell’udienza. p. 1.4.2. Quelle descritte essendo le coordinate giustificative della giurisprudenza sul rito ordinario, si tratta di vedere come essa si debba applicare all’introduzione dell’opposizione al decreto con il rito del lavoro e simili.

Opposizione che si introduce con ricorso ai sensi dell’art. 415 c.p.c. (già Cass. sez. un. n. 6128 del 1983 per il rito del lavoro e Cass. n. 8 del 1998 per il rito locativo, in motivazione).

Ora, l’introduzione con ricorso dell’opposizione a decreto ingiuntivo, lasciando immutata la posizione di convenuto sostanziale dell’opponente, comporta innanzitutto che la chiamata in causa del terzo debba essere articolata nel ricorso in opposizione, posto che esso assume la funzione della memoria ai sensi dell’art. 416 c.p.c. e considerato che, nel silenzio della disciplina dell’art. 416 e segg. sull’ipotesi in cui il convenuto con il rito del lavoro voglia chiamare in causa un terzo, dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che il veicolo sia la memoria di cui all’art. 416 c.p.c. sulla base dell’art. 420 c.p.c., comma 9 che, prevedendo lo spostamento dell’udienza, suppone che la chiamata effettuata dal convenuto vada fatta con quel veicolo (si veda già Cass. n. 828 del 1987 e, di seguito, Cass. n. 2182 del 1989, che, contraddicendo la prima decisione che l’aveva negato, ritenne che il giudice avesse potere discrezionale di valutazione sull’istanza di spostamento dell’udienza e, quindi, sul dar corso alla chiamata: In tema di controversie di lavoro, la disposizione dell’art. 420 cod. proc. civ., comma 9 – relativa ai provvedimenti del giudice, nell’udienza di discussione di primo grado, in ipotesi di chiamata in causa a norma degli artt. 102, 106 e 107 cod. proc. civ. – non implica un automatico Obbligo di adozione dei provvedimenti predetti, in quanto il pretore, investito della domanda di chiamata in giudizio di un terzo ai sensi delle norme citate, non è sempre tenuto a fissare una nuova udienza e a disporre le relative notifiche, conservando, secondo i principi generali, il potere di valutare – con i margini di discrezionalità attribuitigli dagli artt. 106, 107 c.p.c., dall’art. 269 c.p.c., comma 2, e dall’art. 270 cod. proc. civ. – la comunanza della causa e le ragioni d’intervento del terzo, restando configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 383 cod. proc. civ., solo quando il giudice, investito della domanda predetta, si sia sottratto al dovere di esaminarla o abbia comunque omesso di rilevare il difetto del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario).

E’ da rilevare che nel rito del lavoro e nei riti su di esso modellati per rinvio, come quello locativo, la previsione dell’art. 420 c.p.c., comma 9 appare preservare due esigenze: quella di interlocuzione del giudice sull’allargamento soggettivo del processo e quella di interlocuzione della controparte attrice e, dunque, il suo diritto di difesa contro allargamenti su chiamata di terzi del tutto ingiustificati e determinativi di inutili complicazioni di svolgimento del giudizio.

La garanzia della posizione del terzo chiamato è affidata invece alla notificazione degli atti introduttivi delle difese delle parti con il rispetto dei termini di cui al terzo, quinto e sesto dell’art. 415 c.p.c.. p. 1.4.3. Ora, va verificato come e se queste garanzie possano trovare assicurazione nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, qualora si consenta all’opponente a decreto ingiuntivo di notificare, dopo il deposito del ricorso in opposizione contenente la chiamata del terzo, il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. emesso senza riserve dal giudice, anche al terzo dando corso direttamente alla chiamata, com’è accaduto nella specie.

In proposito, si deve rilevare anzitutto dal punto di vista del giudice che il potere di valutazione a lui riconosciuto dall’art. 420 c.p.c., comma 9 è esercitabile mediante la fissazione dell’udienza con il decreto di cui all’art. 415 c.p.c., comma 2.

Manca invece la possibilità di interlocuzione del soggetto attore in senso sostanziale, cioè del creditore ingiungente.

Senonchè, di questa inosservanza delle forme si può dolere solo lui e non risulta che nel caso di specie se ne sia doluto. Non risulta, cioè, che del modo in cui è avvenuta la chiamata in causa dei qui ricorrenti si sia doluto il G., per non avere avuto possibilità di interloquire all’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. prima che alla chiamata si desse corso.

E’ appena il caso di rilevare che ai sensi dell’art. 157, comma 2, l’inosservanza delle forme sotto tale profilo poteva essere eccepita soltanto dal G., perchè esse erano stabilite nel suo interesse.

Per quanto attiene alla posizione del giudice, come s’è già detto, è palese ed in ciò è corretta la valutazione formulata dalla Corte territoriale, che il giudice ha implicitamente esercitato il potere valutativo di cui all’art. 420, comma 9 e se avesse inteso non consentire la chiamata avrebbe potuto e dovuto farlo precisando nel decreto ai sensi dell’art. 415 c.p.c., comma 2, (e stavolta anche a tutela del creditore ingiungente, non ancora interloquente) che ricorso in opposizione e relativo decreto si dovevano notificare solo all’opposto.

Non avendo posto tale limitazione, è palese che egli valutò ammissibile la chiamata.

I ricorrenti, facendo riferimento alla circostanza che nel decreto ai sensi dell’art. 415, comma 2, si fece riferimento soltanto al resistente ai fini dell’avvertimento relativo alla costituzione nei modi e termini di cui all’art. 416 c.p.c., vorrebbero intendere il provvedimento al contrario come negativo in modo implicito della possibilità di notificazione ad essi terzi. Il rilievo è privo di fondamento, essendo l’espressione "resistente" riferibile nella sua genericità sia all’opposto che ai terzi, posto che sia l’uno che gli altri assumevano la posizione formale del resistente, ma solo costituendosi. L’uso del singolare appare, dunque, giustificato perchè parametrato ad un evento riferibile a chi avesse voluto costituirsi.

Assume, invece, rilievo, ai fini della individuazione dell’onere di dar corso alla vocatio in jus, la mancanza di limitazione figurante nel fatto che il decreto fece genericamente carico al ricorrente di notificare il ricorso e pedissequo decreto nel rispetto dei termini di cui all’art. 415 c.p.c.. Poichè il decreto venne emesso dopo la lettura del ricorso, di cui si da atto, la mancanza di limitazione dell’imposizione dell’onere, collegata al tenore dell’atto in cui si formulava anche la chiamata, implicava autorizzazione a notificare anche ai terzi.

Resta da dire che la forma seguita dalla A., cioè dall’opponente, legittimatavi dal tenore del decreto, non ha sacrificato l’esigenza di interlocuzione dei qui ricorrenti, quali terzi chiamati, sul tenore complessivo degli atti introduttivi del giudizio, atteso che del tenore di quello del creditore G., siccome espresso nel ricorso per decreto ingiuntivo, essi ebbero contezza attraverso il riferimento necessariamente contenuto nel ricorso in opposizione.

Sicchè, essi non hanno ricevuto dalla forma seguita, pregiudizio in tal senso e comunque, avrebbero dovuto lamentarlo, avrebbero dovuto cioè lamentare che per le insufficienze del ricorso in opposizione non erano stati messi in grado di percepire adeguatamente, sì da potersi utilmente difendere, la prospettazione del G. di cui al decreto. Nel qual caso vi sarebbe stata nullità per indeterminatezza dello stesso ricorso.

Onde ed in definitiva, nulla è stato dedotto nel senso che l’atto compiuto dal G. fosse era inidoneo al raggiungimento dello scopo sotto tale profilo (art. 156 c.p.c., comma 3). p. 1.5. Il primo motivo è, pertanto, rigettato sulla base del seguente principio di diritto: In tema di opposizione a decreto ingiuntivo in controversia soggetta al rito del lavoro, o ad altri che ad esso fanno rinvio, come quello locativo, qualora l’opponente formuli con il ricorso in opposizione istanza di chiamata in causa di un terzo ed il giudice, nel fissare l’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. non riservi all’udienza ogni provvedimento sulla chiamata del terzo, si deve intendere che l’opponente sia stato implicitamente autorizzato a chiamare il terzo notificandogli ricorso e decreto di fissazione dell’udienza. Qualora, l’opponente provveda a notificare ritualmente al creditore opposto ed al terzo, il primo si può dolere che sia stato consentito l’ingresso del terzo senza permettergli di interloquire, mentre il secondo può soltanto dolersi che eventualmente il ricorso in opposizione per la sua insufficienza espositiva non l’abbia messo in condizione di comprendere la prospettazione del creditore nel ricorso per decreto ingiuntivo e, dunque, eccepire la nullità del ricorso sotto tale profilo. In mancanza di tali evenienze non si evidenzia alcuna nullità e bene la chiamata del terzo viene ritenuta rituale dal giudice di merito. p. 2. Il secondo motivo deduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. – Onere prova a carico opponente sig.ra A.".

Il motivo non svolge alcuna attività dimostrativa, attraverso pertinenti richiami al paradigma dell’art. 2697 c.c., su come e perchè esso sarebbe stato violato. Non enuncia, cioè, in che modo la sentenza impugnata avrebbe violato la regola di distribuzione dell’onere della prova che riguardava la domanda proposta dall’ A. contro i ricorrenti. In particolare, in relazione alla fattispecie oggetto di essa non identifica, attraverso l’uso della terminologia presente nell’art. 2697 c.c., i fatti costitutivi della domanda dell’ A. e quelli impeditivi, modificativi od estintivi rilevanti in relazione ad essi.

Del tutto oscuro rimane l’individuazione di che cosa l’ A. dovesse provare e non abbia provato.

Non solo: nella illustrazione si fa riferimento a una lettera raccomandata, all’atto di compravendita e ad una prova testimoniale non ammessa, riguardo alle quali non si fornisce l’indicazione specifica nei termini richiesti da consolidata giurisprudenza di questa Corte in relazione al requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 (ex multis Cass. sez. un. n. 28547 del 208 e 7161 del 2010).

Si deve, inoltre, aggiungere che a pagina venti-ventuno del ricorso i ricorrenti adducono che nei loro scritti avevano assunto di avere versato in contanti ai coniugi A. – C. la cauzione a suo tempo corrisposta dal conduttore, sicchè, avendo essi assunto tale posizione, è palese che la prova della restituzione incombeva su di loro, come ha ritenuto la Corte territoriale.

Il motivo è rigettato. p. 3. Il terzo motivo deduce "violazione e falsa applicazione art. 91 c.p.c.".

Con esso ci si duole che la Corte d’Appello abbia posto a carico dei ricorrenti le spese di giudizio che per la fase monitoria e quella di opposizione al decreto ingiuntivo in primo grado la sentenza di primo grado aveva posto a carico dell’ A. nei confronti del G..

Il motivo è privo di fondamento: la Corte territoriale ha fatto applicazione del principio di soccombenza nell’ambito del rapporto processuale fra i ricorrenti e l’ A., poichè, una volta ravvisata la fondatezza della domanda di garanzia da quest’ultima proposta l’assicurazione degli effetti di tale fondatezza, oltre a comportare che all’ A. i ricorrenti fossero tenuti a versare le somme dovute da lei al G. in relazione alla sua pretesa sostanziale, comportava anche che essi fossero tenuti a versare alla medesima le spese giudiziali riconosciute a favore del G. sia in relazione alla fase monitoria che alla fase del giudizio di primo grado (mentre il problema non si poneva per quelle di appello, compensate nei rapporto fra l’ A. ed il G.). Ciò quale mera conseguenza – salvo valutazioni del giudice di merito su giusti motivi per una compensazione totale o parziale – della piena assicurazione della tutela della pretesa di garanzia dell’ A. anche per quanto attiene al non dover sopportare il costo del processo. p. 4. Il ricorso è conclusivamente rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro milletrecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione terza civile, il 9 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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