Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 17.09.19X, l’Impresa Immobiliare X X dei X s.r.l. (in seguito solo Impresa), premesso che X D’X aveva commissionato lavori di rafforzamento e riparazione di un fabbricato sito in Piedimonte Matese danneggiato dal terremoto del maggio 1984; che la committente era beneficiaria di un contributo ex lege n. 219/81 di L. 50.662.103 poi non accreditato;
che essa Impresa si era obbligata ad eseguire i lavori approvati a propria cura e spese, riservandosi il diritto, a integrazione dei fondi, di recuperare la differenza; che era intervenuta l’ordinanza ministeriale n. X5/1997 la quale aveva innovato la normativa; che, pertanto, si erano aggravate le condizioni del contratto in quanto essa Impresa vedeva allontanarsi il momento della riscossione delle somme anticipate; conveniva in giudizio avanti al tribunale di S. Maria Capua Vetere la D’X al fine di sentir risolvere il contratto e condannare la convenuta al pagamento dei lavori effettuati.
Costituitasi, la D’X contestava la domanda e ne chiedeva il rigetto. Deduceva che l’Impresa aveva già eseguito i lavori, onde non poteva chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta; la domanda era inammissibile anche perchè Talea del contributo rientrava nella previsione contrattuale.
All’esito dell’istruttoria, il tribunale rigettava la domanda e compensava le spese del giudizio.
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 3127/00 del 07.12/20.12.2000, in parziale accoglimento dell’appello principale e della domanda della società, condannava la D’X a pagare in favore dell’Impresa la somma di L. 50.662.193, oltre agli interessi legali dalla domanda; rigettava la domanda di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento; rigettava l’appello incidentale della D’X e compensava tra le parti le spese del grado di giudizio.
Premesso che unico sostanziale motivo di doglianza dell’Impresa era la qualificazione giuridica data dal primo giudice all’azione proposta, ed esclusa l’ipotesi di novità della domanda in appello, osservava la Corte territoriale che il tribunale, anche sulla scorta dell’eccezioni della D’X, aveva ritenuto di dover considerare la richiesta dell’Impresa come domanda di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. Ma tale qualificazione non poteva essere condivisa perchè l’istituto presuppone l’inadempimento della parte che chiede la risoluzione, mentre nel caso specifico era pacifico che l’Impresa aveva portato a termine i lavori di cui al contratto d’appalto. Inoltre l’intervenuta ordinanza ministeriale n. X5/1997 non aveva creato uno squilibrio nel sinallagma contrattuale, ma solo reso più rigoroso l’iter procedimentale per accedere all’erogazione dei fondi pubblici. Infine non poteva parlarsi di alea già contenuta nel contratto, trattandosi di appalto ed essendovi, in ogni caso, incompatibilità tra contratto aleatorio e risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
La Corte d’appello, ritenuta poi inaccoglibile la domanda di risoluzione del contratto per mancanza di interesse dell’Impresa, osservava che, in base alla clausola contrattuale n. 10, l’Impresa si era obbligata ad anticipare il costo dei lavori, in attesa che il Comune erogasse il contributo pubblico, riservandosi di richiedere la eventuale differenza tra costo dei lavori e contributo. Poichè il contributo non era stato erogato, giustamente l’Impresa aveva chiesto alla D’X di pagare l’importo dei lavori. Tali lavori, a giudizio della la Corte d’appello, andavano liquidati in via equitativa nella somma di L. 50.662.103, di cui al contributo.
Avverso tale sentenza la D’X ha proposto ricorso per Cassazione, in base a tre motivi.
L’Impresa ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 132, 112 e 345 c.p.c. e dell’art. 1467 c.c., la ricorrente censura l’impugnata sentenza per aver respinto l’eccezione di novità della domanda. Sostiene che l’Impresa in primo grado aveva chiesto la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta in forza del mutamento, a suo dire, della normativa in materia di contributo e particolarmente dell’ordinanza n. X5/87. La richiesta dell’Impresa in appello di risoluzione del contratto per inadempimento costituiva domanda nuova non consentita. Erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto che si trattava di una mera diversa qualificazione della domanda, anche perchè il giudice di primo grado aveva fatto esplicito riferimento al secondo comma dell’art. 1467 c.c., a tenore del quale la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto.
1.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha rilevato che, nell’atto introduttivo del giudizio, l’Impresa non aveva qualificato in alcun modo l’azione proposta, limitandosi a riferire i fatti occorsi e i rimedi cui aspirava, così come aveva fatto in sede di appello, per cui non risultavano mutati gli elementi costitutivi della domanda, essendo in discussione soltanto la qualificazione giuridica dell’azione. Ha ritenuto non condivisibile la qualificazione che il tribunale, anche sulla scorta delle eccezioni sollevate dalla D’X, aveva dato alla domanda, osservando che la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta presuppone l’inadempimento della parte che chiede la risoluzione, laddove, dagli atti del giudizio, risultava pacifico che l’Impresa aveva portato a termine i lavori di cui al contratto d’appalto, donde l’inaccoglibilità della domanda di risoluzione per mancanza di interesse da parte dell’Impresa, che aveva diritto al corrispettivi dell’opera eseguita.
La Corte d’appello ha pure precisato che l’ordinanza n. X5/1987 non aveva affatto creato uno squilibrio nel rapporto sinallagmatico, ma solo reso più rigoroso l’iter procedurale per accedere all’erogazione dei fondi, mentre era da escludersi che il contratto d’appalto potesse essere inquadrato tra i cosiddetti contratti aleatori.
In questa ottica, giuridicamente valida ed ineccepibile, correttamente il giudice di secondo grado ha respinto l’eccezione della D’X concernente il divieto dello ius novorum in appello, ritenendo che si trattava di mera qualificazione giuridica della domanda.
2. Col secondo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione del comma 2 dell’art. 1453 c.c., nonchè difetto di motivazione, in riferimento all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la ricorrente censura l’impugnata sentenza per non aver considerato che, qualora sia stata chiesta la risoluzione del contratto, non può più domandarsene l’adempimento.
2.1. Il motivo non ha pregio.
Solo la proposizione senza riserve della domanda di risoluzione del contratto preclude, ai sensi del secondo comma dell’art. 1453 c.c., la successiva proposizione della domanda di adempimento, in quanto, alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente, che chieda senza riserva la risoluzione, è valutato dalla legge come manifestazione della mancanza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva. Mentre l’esercizio dello ius variandi deve ritenersi consentito quando la domanda di risoluzione e quella di adempimento sono proposte nello stesso giudizio in via subordinata, come è avvenuto nel caso specifico avendo l’Impresa chiesto in principalità la risoluzione e in via subordinata l’adempimento del contratto, allorchè ha domandato che la D’X, in ogni caso, fosse condannata al pagamento dei lavori eseguiti.
Va poi osservato che, secondo costante giurisprudenza (cfr. fra tante: Cass. 11.5.1996, n. 4444; 9.2.1995, n. 1457), il divieto posto dal secondo comma dell’art. 1453 c.c. di chiedere l’adempimento, una volta domandata la risoluzione del contratto, non può essere inteso in senso assoluto, ma è operante soltanto nei limiti in cui esiste l’interesse attuale del contraente, che ha chiesto la risoluzione, alla cessazione del rapporto, per modo che, quando tale interesse viene meno, per essere stata rigettata o dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione, la preclusione non opera, essendo cessata la ragione del divieto. Sotto questo profilo, nel caso specifico, poichè è stata rigettata la domanda di risoluzione, nulla può opporsi alla richiesta dell’Impresa di ottenere l’adempimento del contratto, stante l’indubbio attuale interesse della stessa ad ottenere il pagamento dei lavori eseguiti nell’interesse della D’X.
3. Col terzo motivo, denunciando nullità della sentenza e del procedimento per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1126, in relazione all’art. 2697 c.c., e artt. 112, 113, 114 c.p.c, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia determinato il quantum in via equitativa, facendolo corrispondere all’ammontare dell’intero contributo, senza considerare che l’Impresa aveva fornito soltanto la mano d’opera, mentre la D’X aveva acquistato tutto il materiale.
3.1. Il motivo è infondato.
Ai fini della liquidazione equitativa, ex art. 1126 c.c., cui è consentito ricorrere nel caso in cui non sussistono elementi utili e sufficienti per la sua determinazione, il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità tra ciascuno degli elementi di fatto esaminati e l’ammontare del pregiudizio economico liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. 2.12.1998, n. 12237).
Così come è avvenuto nel caso specifico. Invero, la Corte d’appello ha dato congrua ragione del processo logico attraverso il quale è pervenuta alla liquidazione del quantum debeatur, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo, allorchè ha fatto riferimento sia alla complessiva situazione processuale sia all’interrogatorio reso dalle parti, dal quale emergeva che le stesse avevano pattuito che i lavori sarebbero stati compensati con un importo corrispondente al contributo pubblico.
In base alle considerazioni svolte, il ricorso va rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.600,00, di cui Euro 1.500,00 per onorario, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 2 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005
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