Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza 15.5.2006 n, 133 la CTR della regione Toscana sez. 5 Firenze, accogliendo gli appelli riuniti proposti dall’Ufficio di Pescia della Agenzia delle Entrate, ed in riforma della impugnata sentenza, ha riconosciuto la legittimità degli avvisi di accertamento emessi nei confronti di M.P. e M.S., quali soci della XXXs.r.l., con i quali erano stati recuperati a tassazione IRPEF per gli anni dal 1990 al 1993 i maggiori redditi – conseguiti dalla distribuzione di utili occulti realizzati e non contabilizzati dalla predetta società – in misura corrispondente a quella degli importi delle movimentazioni bancarie rilevate sui conti personali dei due soci.
Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione M.P. e M.F. (quest’ultimo n.q. di erede del defunto M.S.) deducendo quattro motivi corredati del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c..
Hanno resistito con controricorso la Agenzia delle Entrate ed il Ministero della Economia e delle Finanze.
I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente dichiarata "ex officio" l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione passiva. non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nel giudizio di appello svolto avanti la CTR della Toscana ed introdotto dall’Ufficio di Pescia della Agenzia delle Entrate, in data successiva all’1.1.2001 (subentro delle Agenzie fiscali a titolo di successione particolare ex lege nella gestione dei rapporti giuridici tributati pendenti in cui era parte l’Amministrazione statale), con conseguente implicita estromissione della Amministrazione statale ex art. 111 c.p.c., comma 3 (cfr. Corte Cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e 3118).
Non avendo il ricorso proposto nei confronti del Ministero della Economia e delle Finanze comportato per la parte resistente svolgimento di specifica attività difensiva, si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.
2. La sentenza di appello, in riforma della decisione di prime cure che viene definita "carente ed insufficiente" quanto alla motivazione per relationem con riferimento "ai ricorsi impugnati (sic) da XXXs.r.l.", ha ritenuto la legittimità degli avvisi di accertamento in rettifica impugnati statuendo che:
– dai movimenti dei conti bancari intestati ai due unici soci di XXXs.r.l. risultavano prelievi e versamenti di somme non giustificate dai redditi indicati nelle dichiarazioni e consistenti nei soli utili distribuiti dalla società: in conseguenza, in difetto di prova contraria, tali importi dovevano essere recuperati ad imponibile giusta la presunzione legale prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), nel testo modificato dalla L. n. 413 del 1991, art. 18, "applicabile alle annualità in questione". – la giustificazione fornita dai soci che tali movimentazioni erano da imputarsi ad investimenti finanziari rinnovati nel tempo rimaneva smentita dalle risultanze del procedimento tributario definito nei confronti della XXXs.r.l. nel quale era stata accertata una evasione IRPEG ed IVA realizzata attraverso "una triangolazione con una società sammarinese" diretta alla evasione di imposta, circostanza di fatto che aveva trovato riscontro probatorio nelle dichiarazioni contenute in una lettera di tale F., condannato in sede penale dal Tribunale di Ferrara, nonchè nel rinvenimento – almeno in parte – dei proventi dell’evasione "sui conti correnti anche dei fratelli M. e delle loro consorti".
3. La eccezione pregiudiziale di difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti proposta dalla Agenzia delle Entrate sull’assunto della omessa indicazione nel ricorso della qualità di soci della XXXs.r.l. è infondata.
L’autonomia soggettiva della società di capitali rispetto ai singoli soci e la circostanza dirimente che, nella specie, non si verta in controversia di natura societaria, esclude ogni rilevanza alla mancata specificazione nella intestazione del ricorso per cassazione della qualità di soci dei ricorrenti, essendo inequivocamente circoscritto il rapporto tributario controverso alla maggiore imposta dovuta a titolo IRPEF sui redditi prodotti dalle persone fisiche.
4. Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49, 52 e 61, nonchè dell’art. 36, medesimo D.Lgs., (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto i Giudici di appello anzichè procedere ad un "novum judicandum" avrebbero irritualmente censurato per "violazione di legge" la decisione di prime cure ritenuta carente nella motivazione, con conseguente violazione delle norme indicate in rubrica atteso che ai giudici di appello non è consentito il mero sindacato di legittimità della pronuncia resa nel precedente grado.
In ogni caso il giudizio espresso dalla CTR toscana doveva ritenersi errato in quanto la pronuncia di primo grado (parzialmente favorevole ai contribuenti) andava esente da tale vizio essendo ampiamente motivata nel merito.
4.1 Il motivo è infondato.
L’affermazione del Giudice di appello investita dalla critica non integra, infatti, una autonoma "ratio decidendi" costituendo piuttosto un mero antefatto del "novum judicium" svolto dalla CTR, ed il cui ambito oggettivo (anche in considerazione della estrema laconicità della sentenza di prime cure come è dato evincere dalla trascrizione della motivazione "per rdationem" riportata nella sentenza di appello, pag. 3) ha trovato massima estensione, nei limiti dell’effetto devolutivo, nel riesame compiuto dalla CTR della Toscana dell’intera vicenda di merito, come risulta emergere dalla lettura della stessa sentenza.
Ne segue che, essendo il Giudice di appello venuto a sostituire la propria valutazione di merito a quella compiuta dal Giudice di primo grado, adempiendo in tal modo pienamente alla funzione propria del giudizio di impugnazione, da un lato, la critica, così come formulata, si palesa manifestamente infondata; dall’altro difetterebbe comunque del tutto l’interesse dei ricorrenti a censurare la sentenza di appello sotto il profilo della – asserita – ritenuta erroneità del vizio di carenza motivazionale della pronuncia di primo grado, atteso che detta censura è "ex se" inidonea a privare la decisione di secondo grado anche degli altri supporti argomentativi logici su quali è fondata.
5. Con il secondo motivo viene dedotta:
a) violazione e falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, art. 18, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in quanto la CTR avrebbe attribuito ai contribuenti maggiori redditi (distribuzione utili) desunti dai movimenti bancari dei loro conti correnti che, nel distinto procedimento a carico della XXXs.r.l., erano stati, invece, considerati ricavi prodotti dalla attività di impresa della società e dunque di pertinenza di tale soggetto giuridico. I dati rilevati sui conti bancari intestati ai soci ed ai loro familiari, avrebbero potuto essere utilizzati dagli accertatoci per applicare la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), nei confronti dei contribuenti titolari dei conti ma non anche per accertare i ricavi di un terzo soggetto quale è la società di capitali che avrebbero dovuto essere rilevati dalla verifica dei conti esclusivamente ad essa intestati come desumibile dalla L. n. 413 del 1991, art. 18, comma 2, lett. a), (che aveva modificato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2).
b) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto i Giudici di appello avrebbero violato le indicate norme che, secondo la costante interpretazione della Corte di legittimità, consentirebbero l’utilizzo dei dati rilevati su conti correnti intestati a terzi – ove legati al contribuente da vincoli familiari o commerciali – ai fini dell’accertamento dei maggiori redditi o ricavi nei confronti del contribuente, solo nel caso in cui sia dimostrata dalla Amministrazione finanziaria la intestazione fittizia dei conti bancari.
5.1 Le due censure del secondo motivo possono essere esaminate congiuntamente in quanto logicamente correlate.
5.2 La tesi dei ricorrenti può riassumersi nel modo seguente:
– se nel procedimento svoltosi nei confronti della società, i maggiori ricavi da questa occultati sono stati individuati nelle ingenti somme rinvenute sui conti correnti dei soci e di loro congiunti, ne consegue che la relativa prova avrebbe dovuto essere data mediante la dimostrazione della intestazione fittizia di tali conti, e della piena disponibilità delle somme da parte della società. – pertanto delle due, l’una : o le somme dei conti sono di pertinenza della società, ed allora non può essere accertato il maggior reddito in capo ai soci mediante la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che presuppone la reale intestazione alla persona fisica del conto bancario; o le somme invece non sono riferibili alla società (difettando la prova della intestazione fittizia dei conti), ed allora manca del tutto la prova dei maggiori ricavi prodotti dalla società (e conseguentemente della distribuzione di utili occulti).
– avendo i Giudici ritenuto applicabile la presunzione legale D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 51, alla società, utilizzando i movimenti dei conti dei soci e familiari di questi, senza dimostrare la intestazione fittizia dei conti, si sarebbero violate le norme indicate in ordine alla applicazione della presunzione legale "iuris tantum" tanto nella attribuzione di maggiori ricavi alla società, quanto nella attribuzione ai soci dei maggiori redditi derivati da tali ricavi, atteso che l’accesso a conti dei terzi presupponeva la prova (omessa) della fitfizietà dei conti.
5.3 La argomentazione difensiva non può essere condivisa.
5.3.1. Da un lato i ricorrenti non considerano, infatti, che la CTR richiama espressamente anche il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, (con implicito riferimento alla presunzione legale stabilita dall’art. 32, comma 1, n. 2 del decreto presidenziale), fondando la decisione nei confronti dei soci persone fisiche, attuali ricorrenti, sull’accertamento di movimentazioni bancarie per ingenti importi rilevate dai conti correnti intestati agli stessi contribuenti, incompatibili con le fonti di reddito dagli stessi dichiarate al Fisco e non altrimenti giustificate (in particolare non giustificate con la quota di utili distribuiti, nel periodo di imposta, da XXXs.r.l.).
L’apparato motivazionale della sentenza, in relazione a tale profilo, appare pienamente idoneo a supportare autonomamente il "decisum", risultando del tutto superflue le ulteriori digressioni "a chiarimento" della motivazione, in ordine alla evasione di imposte dirette ed di IVA accertata in altro giudizio a carico di XXXs.r.l., che non spiegano alcuna incidenza – diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti – sulla prova presuntiva legale di maggiori redditi imponibili, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, comma 1, n. 2), posta a carico dei soci-contribuenti.
Ne consegue che le critiche svolte in ordine alla pretesa violazione della L. n. 413 del 1991, art. 18, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in quanto concernenti la questione (oggetto di distinto giudizio) della prova dei maggiori ricavi attribuiti alla società non valgono a scalfire i fondamento giuridico del "decisum".
5.3.2. In secondo luogo la tesi difensiva svolta a sostegno del motivo di ricorso deve certamente essere disattesa nella parte in cui è volta a sostenere che la indagine bancaria e la utilizzazione dei dati rilevati dalle movimentazioni sui conti bancari intestati a soggetti diversi dal contribuente (nella specie la società XXXalla quale in diverso giudizio sono stati imputati maggiori ricavi desunti dai depositi e movimentazioni rilevate sui conti intestati ai soci) rimane necessariamente subordinata alla previa dimostrazione da parte della Amministrazione finanziaria che le somme giacenti sui conti dei soci sono di fatto nella esclusiva disponibilità della società medesima, ovvero alla previa dimostrazione della interposizione personale fittizia dei conti bancari. I ricorrenti sembrerebbero voler fare derivare dalla asserita illegittimità della indagine ed acquisizione di dati sui loro conti bancari, in quanto riferita ad accertamento concernente la società e dunque un diverso soggetto contribuente, la inutilizzabilità (o forse la inidoneità probatoria) dei medesimi dati a fondare l’accertamento dei maggiori redditi nei confronti dei singoli soci.
Premesso che anche in questo caso la critica sembra rivolgersi all’accertamento dei maggiori ricavi occultati dalla società piuttosto che ai maggiori redditi attribuiti ai soci in considerazione della prova presuntiva legale D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, comma 1, n. 2), occorre rilevare che i più recenti arresti giurisprudenziali di questa Corte, ai quali il Collegio intende uniformarsi, escludono il preteso vincolo di subordinazione probatoria della legittimità delle indagini su conti intestati a soggetti diversi dal contribuente (che relegherebbe la utilità della indagine sui conti e depositi formalmente intestali a terzi alla mera quantificazione della evasione), affermando che "in tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, n. 7, e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali commi, sulla base di elementi indiziari" (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 21.12.2007 n. 27032) o quando comunque "l’ufficio abbia motivo di ritenere, in base agli elementi indiziar raccolti, che gli stessi siano stati utilizzati per occultare operazioni commerciali, ovvero per imbastire una vera e propria gestione extra-contabile, a scopo di evasione fiscale" (cfr.
Corte Cass. 5^ sez. 12.1.2009 n. 374). La questione della prova della interposizione fittizia o fiduciaria nella intestazione dei conti/depositi o comunque della prova della pertinenza delle movimentazioni bancarie ad operazioni commerciali o finanziarie riconducibili alla attività di impresa svolta dalla società, viene in rilievo pertanto soltanto nella fase valutativa dell’accertamento, successiva alle indagini (accessi, ispezione, verifiche), in quanto diretta a dimostrare – anche mediante mera argomentazione logica fondata su presunzione semplice ex art. 2729 c.c.: arg. D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37, comma 3, – la "riferibilità" di detti movimenti alla produzione di ricavi societari non contabilizzati, e dunque a consentire l’applicazione delle ripetute presunzioni legali di accertamento del maggior reddito imponibile ove la società contribuente non sia stata in grado di dimostrare di aver tenuto conto degli importi rilevati nei conti/depositi nelle dichiarazioni presentate ovvero non ne giustifichi la omessa indicazione in quanto riferibili ad operazioni non imponibili (cfr. in tal senso le pronunce di questa Corte: 5^ sez. 24.9.2010 n. 20197 – in materia di imposte indirette – e 5^ sez. 24.9.2010 n. 20199 – in materia di imposte dirette – secondo cui "l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratoti generali, allorchè risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzione, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati").
L’utilizzo dei dati rilevati dalle movimentazione dei conti correnti bancari intestati ai singoli soci ed ai loro familiari ai fini dell’accertamento del maggior reddito imponibile e la conseguente applicazione della prova presuntiva D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, comma 1, n. 2), da parte della CTR toscana, appare, dunque, del tutto conforme ai precedenti giurisprudenziali di questa Corte che, tanto in relazione agli accertamenti fiscali in materia di imposte sui redditi (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7), quanto in materia IVA (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7), hanno ritenuto la piena legittimità delle indagini bancarie estese ai conti bancari di terzi (come ad es. nel caso di congiunti della persona fisica amministratore e/o socio della società contribuente), reputando lo stretto rapporto familiare, o la ristretta composizione societaria, o ancora il particolare vincolo commerciale, elementi indiziari sufficienti a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti bancari degli indicati soggetti (cfr. Corte Cass. 5^ sez. n. 1728/1999, id. 17.6.2002 n. 8683, id. 12.9.2003 n. 13391 – con riferimento a società di capitali -, id. n. 6743/2007, id.
7.9.2007 n. 18868, id. 21.12.2007 n. 27032, id. 12.1.2009 n. 374, id.
30.12.2009 n. 27947, id. 4.8.2010 n. 18083 – con riferimento a società di persone -; id. 24.9.2010 n. 20199 – con riferimento a società di capitali -).
Dalla mera lettura della disposizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7), (nel testo vigente "ratione temporis", secondo cui gli Uffici finanziari e la Guardia di Finanza possono: 7) richiedere, previa autorizzazione dell’ispettore compartimentale delle tasse ed imposte indirette sugli affari ovvero, per la Guardia di finanza, del comandante di zona, alle aziende e istituti di credito per quanto riguarda i rapporti con i clienti e all’Amministrazione postale per quanto attiene ai dati relativi ai servizi dei conti correnti postali, ai libretti di deposito e ai buoni postali fruttiferi, copia dei conti intrattenuti con il contribuente con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti comprese le garanzie prestate da terzi) non è dato, peraltro, individuare una limitazione dell’attività di indagine, volta all’accertamento della evasione fiscale, ai soli conti correnti bancari e postali ed ai libretti di deposito intestati esclusivamente al soggetto contribuente, in quanto, come è stato efficacemente evidenziato – con riferimento all’accesso ai conti intestati al coniuge del contribuente -, una tale limitazione verrebbe illogicamente ad eludere lo scopo della stessa previsione normativa: ed infatti "premesso che rappresenta un espediente normale l’intestazione a nome del coniuge di un conto corrente quando il contribuente sia soggetto a verifiche fiscali, non pare esservi dubbio che l’indagine sul conto corrente cointestato è senz’altro legittimata quando i coniugi sono co-dichiaranti; ma risulta del pari legittima siffatta indagine in ragione della connessione e della inerenza del conto intestato al coniuge al (conto intestato al) contribuente. Se la legge consente l’acquisizione delle garanzie prestate da terzi, a maggior ragione è consentita l’acquisizione di dati relativi a conti correnti del coniuge" (cfr. Corte Cass. n. 8683/2002 cit. id. 5^ sez. 12.9.2003 n. 13391 – che fonda normativamente l’indagine sui conti dei terzi sull’espresso riferimento contenuto nello stesso art. 51, comma 2, n. 7) a tutti i rapporti comunque connessi od inerenti" ai conti del contribuente -).
Alla successiva modifica della disposizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, n. 7), introdotta dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 403, che ha espunto il riferimento ai conti intrattenuti "con il contribuente", mantenendo il solo riferimento alla acquisizione di dati, notizie, documenti da enti creditizi, fiduciari o da Poste Italiane s.p.a. relativi a qualsiasi rapporto od operazione effettuati "con i loro clienti" (disposizione analoga a quella, dettata in materia di II.DD. dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7, come modificato dalla L. n. 413 del 1991, art. 19), deve pertanto attribuirsi carattere meramente ricognitivo della più ampia portata prescrittiva già in precedenza riconosciuta alla disposizione in esame dalla costante interpretazione giurisprudenziale fornita da questa Corte.
Il supposto contrasto giurisprudenziale, prospettato dalla parte ricorrente, che ha richiamato diverse pronunce di questa Corte, risalenti all’anno 2001 e 2003, nelle quali viene enunciata la massima secondo cui il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2) e 7), (che accorda all’ufficio il potere di richiedere agli istituti di credito notizie dei movimenti sui conti bancari intrattenuti dal contribuente e di presumere la loro inerenza ad operazioni imponibili, ove non si deduca e dimostri che i movimenti medesimi siano stati conteggiati nella dichiarazione annuale o siano ricollegabili ad atti non soggetti a tassazione) non trova applicazione con riguardo a conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorchè legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l’ufficio opponga e poi provi in sede giudiziale che l’intestazione a terzi è fittizia o comunque, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 28.6.2001 n. 8826; id. 18.4.2003 n. 6232; id. 18.9.2003 n. 13819 – con riferimento a società di persone ed ai conti intestati ai singoli soci -; id.
14.11.2003 n. 17243 – con riferimento a conto intestato al socio di società di capitali -), è solo apparente in quanto, come è stato già precedentemente evidenziato, la più recente giurisprudenza di questa Corte non esonera la Amministrazione finanziaria dalla necessità della prova presuntiva in ordine alla riferibilità alla società delle somme movimentate sui conti intestati ai terzi, ma afferma piuttosto che tale prova va rinvenuta nel requisito di serietà e gravità dell’elemento indiziario costituito dallo stretto legame parentale, che, unitamente ad altri elementi significativi desunti dalle circostanze de caso concreto, converge alla formazione della prova concludente della condotta evasiva (cfr. in termini Corte Cass. 5^ sez. n. 18083/2010 cit.).
La questione in diritto sottoposta all’esame della Corte va pertanto risolta, alla stregua del seguente principio di diritto: "l’Ufficio finanziario, nella fase delle indagini dirette all’accertamento della evasione di imposta da parte di una società di capitali, è legittimato a richiedere agli istituti baneari, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 7), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 7), l’accesso ai conti e depositi bancari formalmente intestati ai soci anche non amministratori e – in caso di ristretta compagine sociale – anche ai conti/depositi intestati ai loro familiari, qualora sussistano anche soltanto "fondati sospetti" che la società verificata abbia partecipato ad operazioni imponibili "soggettivamente" inesistenti volte a evadere l’imposta sul valore aggiunto. Costituiscono "fondati sospetti" l’avere intrattenuto ripetuti rapporti commerciali con società sfornite di personale adeguato, di beni aziendali ovvero comunque prive di adeguata struttura organizzativa di impresa – c.d.
società fantasma – in relazione alle operazioni commerciali in concreto svolte".
5.3.3. Nella sequenza accertativa dei maggiori ricavi della società e dei maggiori redditi dei soci non è ipotizzarle, conclusivamente, alcuna opposizione antinomica, venendo ad operare gli accertamenti su piani distinti: alla società si imputa l’occultamento di ricavi relativi ad operazioni commerciali non contabilizzate, per importi corrispondenti alle movimentazioni bancarie, non giustificate, rilevate sui conti dei soci, importi che, in considerazione della composizione azionaria estremamente ristretta della società di capitali ed in mancanza di altri fonti reddituali dichiarate, vengono attribuiti ad utili extrabilancio interamente distribuiti dalla medesima società; ai singoli soci viene, invece, imputato l’occultamento di maggiori redditi corrispondenti ai medesimi importi rilevati dai versamenti e dai prelievi risultanti dalle movimentazioni bancarie dei loro conti e considerati – in ragione dei medesimi elementi indiziari della stretta composizione azionaria e della assenza di altre fonti di reddito – derivanti da utili occulti distribuiti dalla società.
Non sussiste alcuna incompatibilità tra detta ricostruzione e la asserita necessità della prova della intestazione fittizia dei conti (cfr. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 4,), atteso che non vi è alcuna necessità di ricorrere a tale figura negoziale laddove, in relazione alla riferibilità alla società dei maggiori ricavi non contabilizzati, si proceda mediante prova presuntiva semplice fondata sul complesso delle circostanze di fatto costituenti elementi indiziari connotati dai requisiti di cui all’art. 2729 c.c.: a) dell’assenza – dichiarata dai soci e dai loro familiari – di qualsiasi altra fonte di produzione di reddito, diversa dagli utili distribuiti dall’ente societario, idonea a giustificare movimentazioni bancarie di importi talmente cospicui; b) della ristretta composizione azionaria dell’organismo societario che – se pure giuridicamente da qualificarsi come società di capitali- viene di fatto a replicare la stessa formula organizzativa-gestionale delle società persone, in considerazione della totale sovrapposizione degli interessi personali e societari, venendo ad identificarsi in concreto gli interessi economici perseguiti dalla società con quelli stessi degli unici due soci i quali "oltre a essere soci della XXXs.r.l., ne erano praticamente i titolari" (cfr. sentenza CTR pag. 3). Tale piena coincidenza legittima la presunzione che i ricavi occulti maturati dalla società possano "de facto" da questa essere stati interamente distribuiti sotto forma di utili occulti a favore dei soci (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 25.5.1995 n. 5729; id. sez. 11.11.2003 n. 16885 – che precisa come il giudizio relativo all’accertamento di utili extracontabili in capo alla società sia del tutto indipendente da quella relativo all’accertamento dei maggiori redditi in capo al socio-; id. 5^ sez. 16.3.2007 n. 6197 – secondo cui la presunzione di distribuzione di utili può essere vinta dalla prova contraria fornita dalla società che le relative somme sono state invece accantonate ovvero reinvestite nel ciclo produttivo; id. 5^ sez. 22.4.2009 n. 9519; id. 5^ sez. 29.12.2011 n. 29605).
Indipendentemente da ogni accertamento e valutazione in concreto in ordine alle prove dedotte nei diversi giudizi a carico dei soci e della società, l’astratto schema logico volto a ricomporre la unità sistematica delle relazioni tra i rispettivi rapporti tributari concernenti i soci e la società, appare dunque esente dalla intrinseca contraddittorietà logica ipotizzata dai ricorrenti secondo cui, accertati i maggiori ricavi della società (desunti dalla distribuzione di utili occulti rinvenuti sui conti personali), non potrebbero essere accertati anche i corrispondenti maggiori redditi (derivanti da utili occulti distribuiti) prodotti dai soci.
5.4 Con la terza censura, inserita anch’essa nel secondo motivo, i ricorrenti denunciano:
a) omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c., (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) in ordine alla questione della illegittima applicazione della presunzione legale relativa al maggiore imponibile ai fini delle Il.DD., non soltanto agli importi versati o accreditati sui conti bancari, ma anche alle operazioni passive (prelievi).
b) violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, e art. 53 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)).
Relativamente alla censura di "errar in procedendo" i ricorrenti sostengono che la CTR toscana avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame con il quale veniva dedotta la illegittima ricostruzione, negli avvisi di accertamento, dei maggiori redditi imponibili non essendo plausibile che gli "accrediti" fossero considerati "corrispettivi non regolarizzati per supposti ricavi" della società, e che gli "addebiti" fossero considerati come "acquisti non regolarizzati per supposti costi al nero".
Relativamente alla violazione delle norme di diritto sopra indicate i ricorrenti sostengono, da un lato, che, anche in considerazione della interpretazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), compatibile con il dettato costituzionale (art. 53 Cost.) fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza 8.6.2005 n. 225, la presunzione legale di maggiori redditi non dichiarati/ricavi non fatturati non potrebbe estendersi anche alle "operazioni bancarie passive" registrate sui conti correnti (prelievi) che, non necessariamente debbono considerarsi provviste destinate ad "acquisti non fatturati", ma potrebbero anche essere destinate "a pagamenti di debiti fuori bilancio o ad altre finalità non necessariamente e strettamente connessi ad acquisti in nero…alcuni pagamenti possono attenere ad operazioni del tutto escluse dall’imposta…"; dall’altro che i Giudici di appello avrebbero illegittimamente omesso di considerare, ai fini della determinazione del maggiore imponibile, i costi sostenuti dai contribuenti per la produzione del maggior reddito e che avrebbero dovuto essere dedotti "automaticamente".
5.4.1. Il motivo con il quale si fa valere l’omessa pronuncia ("error in procedendo") è inammissibile.
L’omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, può essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine alla domanda che, ritualmente ed incondizionatamente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto, onde è da escludere tale vizio ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della domanda o di un suo assorbimento in altre statuizioni (ex plurimis: Corte Cass. 2^ sez. 29.3.1995 n. 3693, id. 2^ sez. 15.5.2006 n. 4498; id. 2^ sez. 22.1.2000 n. 702; id. 5^ sez. 1.4.2003 n. 4975; id. 3^ sez. 11.1.2006 n. 264).
I Giudici territoriali, confermando la legittimità degli avvisi di accertamento, e ritenendo applicabile la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), hanno attribuito ai soci, a titolo di redditi non dichiarati, gli importi rilevati sui conti bancari relativi a tutte le operazioni, tanto in entrata che in uscita, con ciò fornendo implicitamente risposta negativa alla questione prospettata con il motivo di gravame.
Deve in conseguenza escludersi il vizio di nullità processuale prospettato, attesa la statuizione di merito del Giudice di appello che avrebbe dovuto, eventualmente, essere impugnata dai ricorrenti in relazione a differente parametro di legittimità.
5.4.2. La censura, dedotta con il secondo motivo, con la quale si fa valere l’"error in judicando", in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è infondata.
Premesso che anche in questo caso non è ben chiaro se i ricorrenti, attraverso il riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, ed ai maggiori ricavi prodotti dalla società, intendano contestare "a monte" l’accertamento fiscale relativo ad IVA, IRPEG ed ILOR oggetto di altro giudizio in cui è parte la sola società di capitali, l’esame della critica mossa alla sentenza non può prescindere dalla descrizione dello schema applicativo della presunzione legale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), utilizzato dalla CTR toscana a fondamento della propria decisione, ed i cui argomenti logici posti a sostegno del "decisum" si articolano nella seguente scansione deduttiva: 1 – la presunzione legale prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, non trova ostacolo nella specifica categoria reddituale oggetto di accertamento (nella specie redditi di capitale:
utili occulti distribuiti de facto ai soci e derivanti dai ricavi di impresa prodotti in forma societaria) 2 – dai conti bancari intestati ai soci risultavano "prelievi e versamenti" non giustificati: era dunque onere dei contribuenti fornire la prova contraria della estraneità dei versamenti ad operazioni imponibili, e della destinazione dei prelievi al pagamento di corrispettivi dovuti a soggetti specificamente individuati; 3 – non essendo state fornite dai contribuenti idonee giustificazioni circa la provenienza e destinazione degli importi rilevati, è legittimo l’avviso di accertamento che determina il maggiore imponibile in misura corrispondente all’importo dei prelievi e dei versamenti registrati sui conti bancari, in conforme applicazione della presunzione legale di cui al predetto D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.
Orbene non attiene alla asserita deviazione dallo schema normativo la questione concernente la prova dell’effettivo impiego degli importi "prelevati" dai predetti conti bancari, per scopi diversi dalla produzione di reddito: la norma tributaria determina, infatti, in relazione tanto ai "versamenti", quanto ai "prelevamenti" registrati sul conto, una inversione dell’onere probatorio che viene posto a carico del contribuente titolare del conto, a prescindere dalla necessità della dimostrazione che lo stesso eserciti o meno una determinata attività produttiva di reddito (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 13.5.2011 n. 10578), essendo, pertanto, tenuto il contribuente a fornire analitica giustificazione di tali impieghi se vuole impedire che i corrispondenti importi vengano considerati "ex lege" come redditi da assoggettare ad imposta (cfr.. con riferimento alle imposte dirette: Corte Cass. 5^ sez. 213.2008 n. 7766; id. 5^ sez. 26.2.2009 n. 4589; id. 5^ sez. 4.8.2010 n. 18081).
I rilievi formulati dai ricorrenti in ordine alla idoneità dei prelevamenti a giustificare maggiori redditi (o ricavi), al pari di quelli concernenti la difficoltà pratica connessa al reperimento delle prove giustificative della destinazione di tali somme ed alla indicazione dei beneficiari delle somme, non attengono al momento della applicazione del precetto normativo, ma a quello della valutazione della prova (contraria) che il contribuente deve fornire per superare la presunzione legale "juris tantum" con la conseguenza che un’eventuale inesatta od omessa valutazione di tale prova da parte del Giudice di merito potrà rilevare in relazione al profilo di legittimità inerente il vizio logico della motivazione, ma non certo in ordine al dedotto vizio di violazione o falsa applicazione della norma di legge.
Del pari infondata è la censura secondo cui i Giudici di appello, limitandosi ad attribuire presuntivamente i maggiori redditi determinati in misura corrispondente ai versamenti ed ai prelevamenti di conto corrente bancario, ed omettendo di dedurre "automaticamente" anche i costi di produzione del reddito (mediante determinazione presuntiva), avrebbero violato le norme indicate in rubrica in relazione al principio costituzionale della capacità contributiva ex art. 53 Cost..
Richiamando la sentenza della Corte costituzionale 8.6.2005 n. 225 (dichiarativa della non fondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.) i ricorrenti mostrano, infatti, di confondere l’"accertamento analitico", che bene può fondarsi anche su prova presuntiva legale utilizzando i dati contabili e bancari, con l’"accertamento induttivo", che prescinde, invece, proprio dai dati contabili e bancari, in quanto inattendibili o talmente frammentati da essere inutilizzabili per la completa ricostruzione della situazione economico-patrimoniale del contribuente: solo in questo secondo caso, infatti, l’Ufficio finanziario, quando accerta con metodo induttivo i redditi/ricavi, è tenuto anche a determinare induttivamente i costi, mentre nel caso in esame, in cui l’avviso è stato emesso a seguito di accertamento condotto con metodo analitico (essendo stato quantificato il maggior importo dell’imponibile in base agli stessi dati dei documenti bancari), a fronte della prova presuntiva legale dei maggiori redditi, il contribuente che intenda avvalersi della deduzione di eventuali maggiori costi non indicati nella dichiarazione è tenuto a fornire la prova certa delle eventuali componenti negative di reddito non indicate nella dichiarazione o non registrate nelle scritture contabili (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 23.6.2006 n. 14675: id. 5^ sez. 7.2.2008 n. 2821).
Non viene, dunque, in questione – come erroneamente ipotizzano i ricorrenti – la violazione del principio di correlazione costi/ricavi posto a base dell’accertamento della effettiva capacità contributiva, atteso che non è poso in dubbio che le somme prelevate dal conto bene possano essere destinate a pagamenti fuori bilancio, ad operazioni escluse dalla imposte o comunque a spese non necessariamente connesse all’acquisto di beni e servizi impiegati nella produzione di ricavi/redditi, come sono le spese sostenute per le esigenze quotidiane. Viene piuttosto in questione – in considerazione dell’inversione dell’"onus probandi" determinato dalla presunzione legale – l’assolvimento da parte de contribuente dell’onere della prova avente ad oggetto proprio la dimostrazione che le somme prelevate dal conto sono state destinate ad impieghi non produttivi di reddito.
6. Con i terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza di appello sotto il profilo del vizio di omessa motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non avendo considerato i Giudici di merito le prove documentali (contabili bancarie; estratti conto) dalle quali emergeva che i prelievi e versamenti, almeno in parte, inerivano a compravendite di titoli (CCT), ripetute nel tempo, originate da investimenti compiuti in anni antecedenti a quelli oggetto di accertamento e risalenti ad anni anteriori al 1990.
6.1 Il motivo è fondato.
I Giudici di appello pur dopo aver dato atto in sentenza, nella parte relativa allo svolgimento del processo, che la CTP aveva parzialmente accolto i ricorsi dei contribuenti anche sulla base dei documenti che giustificavano i movimenti bancari "con investimenti in titoli che si ripetono nel tempo", hanno omesso del tutto di prendere in considerazione tale documentazione -alla quale non viene fatto alcun riferimento nella parte motiva della sentenza – riformando integralmente l’appellata sentenza e ritenendo, in virtù della nota presunzione legale, che le movimentazioni bancarie rivelassero i maggiori redditi di capitale (percezione di utili occulti) conseguiti da fratelli M. che "oltre essere soci della XXXs.r.l., ne erano praticamente i titolari".
Tanto premesso, osserva il Collegio che le lacune ed insufficienze logiche dell’impianto motivazionale della sentenza configurano un "vulnus" al principio generale secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati (art. 111co6 Cost), che può spaziare, secondo la gravità, dal vizio di insufficienza logica (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) fino alla totale difformità della sentenza dal modello legale per assenza dell’indicato requisito essenziale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ed all’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1).
Più in particolare deve ravvisarsi il vizio di carenza di motivazione tutte le volte in cui la sentenza non dia conto dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 16.7.2009 n. 16581; id. 1^ sez. 4.8.2010 n. 18108) e dunque non consenta la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, non evidenziando gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 10.11.2010 n. 2845) ed impedendo ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del Giudice (cfr. Corte Cass. 3^ sez. 3.11.2008 n. 26426. con riferimento al ricorso ex art. 111 Cost.; id. sez. lav. 8.1.2009 n. 161).
Nella specie i Giudici di appello hanno abdicato del tutto alla fase della selezione e valutazione delle emergenze istruttorie (tenuto conto della peculiarità dell’accertamento fiscale effettuato con metodo analitico ed incentrato sui singoli importi di ciascun prelevamento e versamento rilevato sui conti bancari), ed omettendo del tutto di esaminare e valutare se la documentazione bancaria prodotta dai ricorrenti fosse o meno idonea a fornire una adeguata giustificazione delle movimentazioni registrate sui conti alternativa alla presunzione di maggior reddito derivante dagli utili societari.
I Giudici, in corrispondenza dell’onere probatorio posto a carico del contribuente ("il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibililà di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili": Corte Cass. 5^ sez. 4.8.2010 n. 18081) e dei documenti da quello prodotti in giudizio per giustificare i singoli prelievi e versamenti, avrebbero dovuto esaminare partitamente, con riferimento a ciascuno degli importi corrispondenti a versamenti e prelievi presuntivamente recuperati ad imponibile, gli elementi probatori contrari addotti, valutandone la coerenza ed attendibilità ovvero la irrilevanza ed inconsistenza.
La mancata esplicitazione nella motivazione della sentenza di tale attività valutativa priva del necessario supporto logico – non reso ostensibile – il giudizio conclusivo sulla legittimità della pretesa tributaria, rendendo pertanto la decisione affetta dal vizio denunciato.
7. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 21, nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
I ricorrenti contestano la rilevanza ai fini dell’accertamento dei maggiori redditi in capo ai contribuenti della affermazione contenuta in sentenza secondo cui la XXXs.r.l. aveva posto in essere una triangolazione con una società di San Marino al fine di evadere l’IVA e le altre imposte.
I Giudici di appello avrebbero errato nel ritenere la società coinvolta in una frode in quanto le operazioni commerciali aventi ad oggetto l’acquisto di capi di bestiame erano effettivamente avvenute.
Il motivo si palesa inammissibile, in quanto, come rilevato dagli stessi ricorrenti, le digressioni svolte dai Giudici di appello in ordine alle risultanze di altro giudizio (RG n. 718/2004 definito in primo grado con sentenza sfavorevole alla società) appaiono del tutto pleonastiche rispetto alla "ratio decidendi" della sentenza fondata sulle ingenti movimentazioni dei conti bancari intestati ai soci e sulla applicazione della presunzione legale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), come è dato peraltro evincere dalle stesse proposizioni introduttive di tali digressioni ("Deve poi ricordarsi a chiarimento…Per completezza deve precisarsi… "), con la conseguenza che se, da un lato, eventuali violazioni di norme di diritto in cui sarebbero incorsi i Giudici che hanno definito il processo in primo grado nei confronti della società, non possono all’evidenza essere introdotte nel presente giudizio che attiene a diverso rapporto tributario, dall’altro, la ipotetica fondatezza di tali censure non potrebbe comunque scalfire la "ratio decidendi" che supporta la sentenza impugnata nel presente giudizio, difettando pertanto in capo ai ricorrenti lo stesso interesse alla deduzione del motivo di ricorso in esame.
8. In conclusione i ricorsi debbono trovare accoglimento, limitatamente al terzo motivo (vizio motivazionale), con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria della regione Toscana per nuovo esame.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione:
– dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero della Economia e delle Finanze, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio;
– accoglie i ricorsi, limitatamente al terzo motivo (inammissibili od infondate le altre cesure), cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Commissione tributaria della regione Toscana in diversa composizione che provvederà ad emendare i vizi logici riscontrati nonchè a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 dicembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2012
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