Complesso dei beni e servizi scambiati, a livello internazionale, tra diversi paesi.
L’intensità degli scambi internazionali ha conosciuto nel corso degli anni fasi di espansione e di contrazione. In particolare, nella prima metà del XIX secolo, in seguito all’affermarsi delle dottrine liberiste (v. Liberismo) e all’indiscussa superiorità dell’Inghilterra come paese guida dell’economia mondiale, si assistette ad un progressivo aumento delle relazioni economiche internazionali. Tale tendenza fu invertita durante gli ultimi decenni del secolo in coincidenza con il periodo della grande depressione (1873-1896). L’espansione o la contrazione degli scambi internazionali, infatti, possono essere considerati dei validi indicatori di una fase di sviluppo o di recessione dell’economia internazionale: in genere, è associata a periodi di crisi una tendenza alla contrazione degli scambi mentre il contrario avviene nella fase di espansione. Il periodo che va dalla grande depressione allo scoppio della prima guerra mondiale fu caratterizzato dalla progressiva imposizione da parte di vari stati di misure protezionistiche (v. Protezionismo) ed, in particolare, di dazi doganali (v.).
Le difficoltà economiche e sociali che caratterizzarono l’economia di molti paesi nel primo dopoguerra non permise un ripristino di intense relazioni economiche tra gli Stati; la situazione fu aggravata dalla crisi economica del 1929, alla quale molti paesi risposero adottando misure protezionistiche che talvolta prospettavano anche l’instaurazione di regimi economici autarchici.
Soltanto nel secondo dopoguerra, in seguito agli accordi di Bretton Woods (v.), si è assistito ad una progressiva liberalizzazione degli scambi, favoriti anche dall’abolizione di numerose misure restrittive, dalle negoziazioni portate avanti da organismi internazionali, in particolare il GATT (v.), e da una lunga fase di crescita economica.
Le teorie sul commercio internazionale hanno sempre avuto lo scopo di determinare le variabili che generano la divisione internazionale del lavoro (v.) cioè le ragioni che spingono un paese a produrre determinati beni (e successivamente ad esportarli) e ad importarne altri.
I primi studiosi che affrontarono in modo sistematico le peculiarità del commercio internazionale furono gli economisti classici (v.): in particolare, la formulazione teorica destinata ad esercitare una più duratura influenza è la teoria dei costi comparati (v.) di D. Ricardo (v.) e R. Torrens.
La teoria ricardiana, pur offrendo un modello teorico utilizzato per molto tempo, non forniva, tuttavia, un’adeguata spiegazione delle motivazioni che determinavano una diversità nella produttività dei vari paesi. In altre parole, il modello ricardiano si limitava a constatare una differenza nei costi comparati ma non forniva una giustificazione per queste differenze.
Al problema tentò di dare una risposta la teoria elaborata dai due economisti svedesi Eli Heckscher e Bertil Ohlin, nota anche come teoria della dotazione dei fattori produttivi la quale, in sostanza, affermava che ciascun paese avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione di quei beni che richiedevano un maggior utilizzo del fattore produttivo di cui esso abbondava; così facendo, avrebbe prodotto quei beni per i quali poteva vantare un costo comparato più vantaggioso rispetto ad altri paesi.
I limiti della teoria classica e della successiva rielaborazione dei due economisti svedesi (limiti posti in evidenza soprattutto da analisi empiriche) hanno indotto molti economisti a concentrare i loro studi su altri fattori che darebbero luogo a differenze nei costi comparati tra diversi paesi. In particolare, l’analisi più recente ha posto l’attenzione su un elemento che, negli ultimi tempi, ha costituito uno dei fattori principali dello sviluppo del commercio internazionale: il progresso tecnologico.
In effetti, teorie più moderne; hanno evidenziato come le esportazioni di un paese non sono determinate da una differenza nella dotazione di fattori produttivi, ma nell’attitudine di alcuni prodotti esportati a costituire delle vere e proprie innovazioni sul mercato mondiale. L’innovazione assicura al paese produttore un certo lasso di tempo nel quale esso, in quanto unico produttore del bene, può ottenere dei vantaggi nello scambio internazionale. Ovviamente, il vantaggio ottenuto grazie allo sviluppo e alla diffusione di un particolare prodotto innovativo sarà limitato nel tempo in quanto ben presto esso sarà prodotto per imitazione anche in altri paesi, che potranno anche giovarsi dei risparmi ottenuti grazie ai minori costi di trasporto e di spedizione. Il vantaggio di una nazione nell’ambito del commercio internazionale può, quindi, essere misurato in termini di divario tecnologico che essa è capace di ottenere rispetto ad altri paesi concorrenti. Un flusso continuo di prodotti innovativi, infatti, permette di acquisire dei vantaggi negli scambi internazionali, mentre un minore dinamismo da questo punto di vista comporta una specializzazione nella produzione di beni cd. maturi, ovvero che non richiedono ingenti spese per innovazioni e ricerca.
La tesi non fornisce, tuttavia, una valida spiegazione dei motivi per cui il flusso di innovazioni trova origine in alcuni paesi e non in altri. Una valida risposta al quesito è la teoria del ciclo di vita del prodotto (v.) che associa l’evoluzione del prodotto a determinati fattori propri di ciascun paese come la capacità del mercato interno di assorbire un prodotto innovativo, nonché il necessario livello di conoscenze tecnologiche in grado di sviluppare il prodotto stesso. Gli ultimi sviluppi della teoria del commercio internazionale tendono a prendere in considerazione l’esistenza di mercati imperfetti, di economie di scala (v.) e della differenziazione dei prodotti adattata ai gusti dei consumatori come spiegazione ai flussi commerciali internazionali.