Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-09-2011, n. 19215 Costituzione delle servitù per destinazione del padre di famiglia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 27 aprile 2001 il Tribunale di Vasto – adito da L.M.M. nei confronti di D.V.F. e D.S.R. – condannò i convenuti a rimuovere dal terrazzo annesso all’appartamento di loro proprietà una struttura in legno, in quanto posta a distanza minore di quella legale da un balcone della sovrastante unità immobiliare dell’attrice.

Impugnata dai soccombenti, la decisione è stata confermata dalla Corte d’appello dell’Aquila, che con sentenza del 24 giugno 2004 ha rigettato il gravame. A tale conclusione il giudice di secondo grado è pervenuto ritenendo tra l’altro (per quanto ancora rileva in questa sede): che non poteva essere presa in considerazione, in quanto prospettata per la prima volta in appello, la tesi di D.V. F. e D.S.R., circa l’avvenuta costituzione per destinazione del padre di famiglia di un diritto di servitù che consentisse loro di mantenere il manufatto in questione così come realizzato; che la struttura oggetto della causa aveva la natura di una vera e propria costruzione, non assimilabile a una semplice pensilina.

D.V.F. e D.S.R. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi. L.M.M. si è costituita con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso D.V.F. e D.S. R. deducono che la Corte d’appello ha erroneamente reputato precluso, in quella sede, il tema della servitù, acquisita per destinazione del padre di famiglia, la quale consentiva loro di conservare l’intelaiatura lignea in questione, anche se collocata a distanza minore di quella legale dal sovrastante balcone dell’appartamento di L.M.M.: sostengono che l’argomento era già stato prospettato nelle loro comparse di risposta e conclusionale in primo grado e che in appello esso era stato soltanto meglio precisato nei suoi termini giuridici.

La doglianza non è fondata.

Risulta dagli atti di causa – che questa Corte può direttamente prendere in esame, stante la natura di error in procedendo del vizio denunciato – che nel costituirsi davanti al Tribunale D.V. F. e D.S.R. avevano contrastato la domanda proposta nei loro confronti, sotto il profilo che qui interessa, contestando che l’attrice potesse pretendere la rimozione della struttura in questione, in quanto essa già era stata da loro realizzata, allorchè l’attrice aveva acquistato il suo appartamento, sicchè la legittimazione attiva competeva al costruttore-venditore di quella unità immobiliare, il quale però aveva accettato la situazione.

Risulta quindi evidente che non era stata delineata una fattispecie riconducibile alla previsione dell’art. 1062 cod. civ., il quale peraltro neppure era stato menzionato: in fatto, non era stato dedotto nè che i due immobili fossero inizialmente appartenuti a uno stesso proprietario, nè che la situazione derivante dalla costruzione del manufatto fosse stata posta in essere da costui (ma anzi si era riconosciuto che i convenuti stessi vi avevano dato luogo); in diritto, se ne era desunta l’appartenenza del diritto a ottenere la rimozione non all’attrice ma al suo dante causa, con una conclusione incompatibile con la tesi dell’esistenza di una servitù che di tale diritto fosse impeditiva.

Correttamente, quindi, con la sentenza impugnata si è ritenuto che l’eccezione di cui si tratta, in quanto formulata per la prima volta in appello, fosse inammissibile per il disposto dell’art. 345 cod. proc. civ., nel nuovo testo applicabile nella specie ratione temporis.

Disatteso pertanto il primo motivo di ricorso, perde rilievo e consistenza il secondo, nella parte in cui si sostiene che la Corte d’appello, se avesse affrontato la questione – alla quale invece non ha dato ingresso – della costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, avrebbe dovuto risolverla in senso positivo, riconoscendo l’insussistenza del diritto vantato da L.M. M., il quale in realtà non le era stato trasmesso dal suo dante causa.

Con lo stesso secondo motivo di ricorso D.V.F. e D. S.R. deducono che la Corte d’appello ha ingiustificatamente qualificato come costruzione, soggetta quindi al rispetto della distanza stabilita dall’art. 907 cod. civ., il semplice reticolato ligneo, aperto e destinato a essere ricoperto con tende soltanto nei mesi estivi, che era stato realizzato nel terrazzo sottostante al balcone dell’attrice.

Neppure questa censura può essere accolta. Si verte nel campo di accertamenti di fatto e apprezzamenti di merito, insindacabili in questa sede se non sotto il profilo dell’omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Da tali vizi la sentenza impugnata è immune, poichè il giudice di secondo grado ha dato adeguatamente conto, in maniera esauriente e logicamente coerente, delle ragioni della decisione sul punto, evidenziando la tipologia, le caratteristiche e le dimensioni della struttura in questione, che impediscono, alla luce della costante giurisprudenza di legittimità in materia, di assimilarla a quelle entità edilizie di ridotta e precaria consistenza, che sono esenti dall’osservanza delle distanze legali.

Il ricorso viene pertanto rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti – in solido, stante il comune loro interesse nella causa – a rimborsare alla resistente le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in 200,00 Euro, oltre a 1.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido a rimborsare alla resistente le spese del giudizio di cassazione, liquidate in 200,00 Euro, oltre a 1.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 03-06-2011, n. 826 Giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo

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Svolgimento del processo

D. S.r.l. è una Società operante nel settore della riscossione spontanea e coattiva dei tributi per conto degli Enti pubblici territoriali.

Riferisce in punto di fatto che, a seguito di gara indetta dal Comune di Telgate nel 1989, ha conseguito l’affidamento quinquennale della gestione del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni (dall’1/1/1990 al 31/12/1994). Il rapporto contrattuale è stato confermato fino al 31/12/1998, ulteriormente rinnovato per l’anno 1999 e – con successivi provvedimenti di proroga – fino a tutto il 31/12/2009.

Con deliberazione del Commissario straordinario in data 27/3/2009 n. 15, è stato disposto un prolungamento fino al 31/12/2012 (doc. 10), fondato sull’art. 44 della L. 724/94, sull’art. 53 comma 5 del D. Lgs. 446/97 e sull’art. 3 comma 25 del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 248/2005, che ha differito al 31/12/2010 il termine di proroga dei contratti in corso tra Enti locali e Società inserite nell’Albo nazionale.

Con nota del Responsabile del Servizio finanziario del 10/12/2010 è stata dichiarata la risoluzione del contratto in essere con decorrenza 31/12/2010, invocando la novella all’art. 3 comma 25bis introdotta con D.L. 40/2010 conv. in L. 73/2010. Con successiva deliberazione giuntale 22/12/2010 n. 134 il servizio è stato affidato in via diretta alla controinteressata, con decorrenza 1/1/2011 e per un periodo triennale (doc. 2 Comune).

Con gravame ritualmente notificato e tempestivamente depositato presso la Segreteria della Sezione la ricorrente impugna i provvedimenti in epigrafe, deducendo i seguenti motivi di diritto:

SULLA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO

a) Violazione dell’art. 7 della L. 241/90 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca, che si rivela indispensabile prima di adottare qualsiasi provvedimento di secondo grado;

b) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma 25bis del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248, poiché la norma citata impone certamente di intraprendere, dall’1/1/2011, procedure ad evidenza pubblica per individuare il concessionario della riscossione (ponendo fine al regime delle proroghe reiterate), e tuttavia non prevede in alcun modo revoche ipso jure delle concessioni in corso;

c) Violazione e falsa applicazione, sotto un diverso profilo, dell’art. 3 comma 25 del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248, in quanto nel passaggio al nuovo regime è ammesso il prolungamento della fase transitoria, che si può realizzare disponendo (fino alla data del 31/12/2010) la proroga delle concessioni in corso;

d) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del D.L. 29/12/2010 n. 225, di differimento al 31/3/2011 del termine fissato dall’art. 3 comma 25bis già analizzato, mentre con successivo D.M. sarà possibile prorogare ulteriormente la data fino al 31/12/2011;

e) Violazione dell’art. 3 della Costituzione e del principio di parità di trattamento, ingiustizia manifesta, dato che l’atto di risoluzione – assunto invocando esigenze di apertura alla concorrenza – è stato accompagnato da un nuovo affidamento diretto, con conseguente contraddittorietà della decisione di non svolgere alcuna gara;

SULL’AFFIDAMENTO A TERZI

f) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma 25bis del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248, dal momento che detta norma impone di individuare il concessionario – dall’1/1/2011 – mediante procedure ad evidenza pubblica, mentre l’amministrazione ha optato per un affidamento diretto.

La ricorrente chiede il risarcimento del danno patrimoniale e del danno provocato alla propria immagine e alla reputazione commerciale.

Si sono costituite in giudizio l’amministrazione e la controinteressata, formulando eccezioni in rito e chiedendo nel merito la reiezione del gravame. Il Comune ha puntualizzato che Fraternità Sistemi è una Cooperativa Sociale ONLUS che offre opportunità lavorative a persone residenti in condizione di difficoltà, gravanti sui servizi sociali locali.

Con ordinanza n. 174, adottata nella Camera di consiglio del 10/2/2011, questo Tribunale ha ritenuto di fissare sollecitamente la discussione del merito della causa in applicazione dell’art. 55 comma 10 del Codice del processo amministrativo.

Alla pubblica udienza del 4/5/2011 il ricorso veniva chiamato per la discussione e trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

La ricorrente censura i provvedimenti con i quali l’amministrazione comunale ha dapprima statuito la risoluzione anticipata del contratto avente per oggetto l’attività di accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni, e di seguito ha assegnato all’impresa controinteressata la gestione del servizio senza il previo esperimento di una gara pubblica.

1. La controinteressata eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sullo scioglimento del contratto in corso, coinvolgendo detta scelta dell’amministrazione la fase esecutiva del rapporto nella quale affiorano posizioni di diritto soggettivo.

La tesi avanzata non è condivisibile.

1.1 I giudizi aventi ad oggetto le vicende di un rapporto di concessione di pubblico servizio, compresa la decadenza – ove non estesi a indennità, canoni ed altri corrispettivi – rientravano nella giurisdizione amministrativa ai sensi dell’art. 33 del D. Lgs. 80/98, nel testo modificato dall’art. 7 della L. 205/2000 e risultante dalla dichiarazione di illegittimità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004 (Consiglio di Stato, sez. V – 30/9/2010 n. 7214). Detta asserzione deve essere oggi confermata con riferimento all’art. 133 comma 1 lett. c) del Codice del processo amministrativo, in vigore dal 16/9/2010, ai sensi del quale rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi…". Anche la Corte di Cassazione (sez. unite civili – 18/3/2008 n. 27336) ha avuto modo di sostenere che le controversie in tema di concessione di pubblico servizio sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre le controversie concernenti indennità, canoni od altri corrispettivi – riservate alla giurisdizione del giudice ordinario – sono solo quelle a contenuto meramente patrimoniale, e cioè quelle nelle quali non viene in alcun modo in rilievo il potere autoritativo della pubblica amministrazione a tutela di interessi generali.

1.2 La delineata impostazione presuppone che il rapporto controverso sia qualificabile come concessione di pubblico servizio. A detta conclusione è pervenuta in più occasioni la giurisprudenza, la quale ha osservato che la liquidazione, l’accertamento e la riscossione dei tributi locali costituiscono attività di "servizio pubblico" (cfr. T.A.R. Sicilia Catania, sez. III – 12/3/2010 n. 621) affidato sulla base di un contratto che – pur utilizzando talora il termine "appalto", talora il termine "concessione" – riguarda in realtà un rapporto concessorio: questo intercorre tra amministrazione, concessionario ed utenti, ed il secondo agisce in luogo della prima riscuotendo i proventi dell’imposta comunale sulla pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissione e riversandoli poi all’amministrazione, trattenendo un aggio (T.A.R. Toscana, sez. I – 25/11/2009 n. 2001; si veda anche Consiglio di Stato, sez. V – 10/8/2010 n. 5566). Anche questo Tribunale (cfr. sentenza 7/12/2007 n. 1313) ha osservato che la gara per l’affidamento dei servizi innanzi citati (nonché dell’attività di materiale esposizione dei manifesti) ha per oggetto una concessione, in quanto l’aggiudicatario assume totalmente il rischio dell’iniziativa intrapresa e la sua remunerazione avviene attraverso la riscossione di un aggio percentuale calcolato sull’ammontare corrisposto dagli utenti: il cd. "criterio della gestione" è l’indice rilevante ai fini dell’individuazione dei tratti distintivi tra concessione di servizi pubblici ed appalto di servizi, e nella specie il concessionario sopporta direttamente i rischi economici dell’attività, mentre i destinatari della prestazione sono i cittadini utenti e non l’amministrazione.

Infine anche la Corte di Cassazione (sez. unite civili – 16/12/2009 n. 26280) ha statuito che la gestione e la riscossione dell’imposta comunale sulle pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni costituiscono un servizio pubblico.

1.3 Non è pertanto condivisibile la ricostruzione proposta dalla difesa dell’amministrazione, la quale mette in luce le peculiarità dell’oggetto del servizio, che contempla la riscossione di imposte e diritti (e non di corrispettivi) e viene reso esclusivamente a favore dell’amministrazione senza addebitare il relativo costo alla collettività (gli utenti pagano esclusivamente l’imposta e il diritto e non versano alcun onere aggiuntivo. mentre il concessionario trattiene una percentuale del riscosso quale corrispettivo per l’attività svolta a favore del Comune).

1.4 Osserva il Collegio che le prestazioni richieste al privato gestore – chiamato a predisporre un’organizzazione di tipo imprenditoriale – sono rivolte in modo generalizzato a favore della cittadinanza, ossia sono erogate ad una collettività indeterminata di utenti secondo caratteri di universalità, continuità ed uniformità (cfr. sentenza T.A.R. Brescia 26/11/2008 n. 1689 su una fattispecie di raccolta e trasporto rifiuti solidi urbani).

Tali caratteristiche sono rintracciabili nella proposta di atto di concessione predisposta dalla controinteressata (doc. 14 Comune). In particolare l’art. 13 – rubricato "Struttura e servizio pubblico" – prevede l’obbligo di allestire e mantenere sul territorio comunale un ufficio facilmente accessibile al pubblico, aperto per un tempo adeguato secondo le esigenze dei contribuenti e dell’utenza (connotato dell’universalità: commi 1, 2 e 3). L’obbligo di continuità è sancito all’art. 18, ai sensi del quale i servizi riguardanti la concessione – qualificati espressamente come "servizi pubblici" – non potranno essere sospesi o abbandonati salvo casi di forza maggiore.

Né a conclusioni diverse si deve pervenire per il fatto che la remunerazione dell’attività svolta dal privato è costituita da una percentuale sull’ammontare dell’imposta e dei diritti, poiché in ogni caso il compenso è direttamente collegato al quantum dovuto dai singoli cittadini soggetti passivi e si inserisce nel rapporto trilaterale che coinvolge gli stessi, il gestore e l’amministrazione.

1.5 La qualificazione del rapporto di cui si discute come concessione di pubblico servizio comporta in definitiva che le relative controversie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

2. Passando all’esame del merito ed in particolare del primo "versante" del ricorso introduttivo – diretto a contestare l’anticipata risoluzione del rapporto – il Collegio ritiene che le censure non siano meritevoli di positivo scrutinio.

Con le doglianze di cui ai punti b) e c) dell’esposizione in fatto parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 commi 25 e 25bis del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248, in quanto:

o le norme citate impongono certamente di intraprendere, dall’1/1/2011, procedure ad evidenza pubblica per individuare il concessionario della riscossione (ponendo fine al regime delle proroghe reiterate), e tuttavia non prevedono in alcun modo revoche ipso jure delle concessioni in corso, che rischiano di compromettere la continuità del servizio e di violare i principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa;

o nel passaggio al nuovo regime è ammesso il prolungamento della fase transitoria, disponendo (fino alla data del 31/12/2010) la proroga delle concessioni in corso: il Commissario ha coerentemente esteso il rapporto fino al 31/12/2012, nel rispetto della norma la quale ammette la proroga purchè la relativa facoltà sia esercitata anteriormente alla scadenza ultima.

L’articolata censura è priva di pregio.

2.1 Il Collegio ritiene anzitutto di richiamare la sentenza della Corte di Giustizia in data 17/7/2008 (causa C347/2006), pronunciata sul regime di distribuzione del gas naturale nel mercato italiano e che tuttavia esprime principi generali validi per i rapporti concessori. La Corte ha tra l’altro ribadito che le autorità pubbliche, qualora intendano affidare a privati una concessione, se da un lato non sono obbligate ad applicare le direttive che regolano la distinta figura dell’appalto, sono d’altro canto tenute a rispettare le regole fondamentali del Trattato CE, ed in particolare il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità: ciascuna amministrazione deve garantire, in favore di ogni potenziale offerente, un adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura delle commesse pubbliche alla concorrenza ed il contestuale controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione.

Al riguardo la giurisprudenza interna è da tempo uniforme nel ritenere illegittima la scelta di procedere a trattativa privata per l’individuazione del concessionario di un servizio, per contrasto con le norme ed i principi desumibili dall’ordinamento comunitario, ed in particolare con i principi di non discriminazione territoriale e di libera prestazione dei servizi sanciti dall’art. 59 del Trattato CEE, aventi diretta applicabilità nel territorio nazionale (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. III – 21/6/2007 n. 1683; T.A.R. Molise – 2/7/2008 n. 677).

Anche per i contratti esclusi dal raggio di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, gli Enti aggiudicatori che li stipulano sono comunque tenuti a rispettare i principi fondamentali del Trattato in generale, ed il principio di non discriminazione in base alla nazionalità in particolare (sentenza 7/12/2000 punto 60 – causa C324/98 Telaustria c. Telekom Austria AG). Si è da tempo affermato il principio che in tema di affidamento, mediante concessione, di servizi pubblici di rilevanza comunitaria, le regole fondamentali dell’ordinamento comunitario ed i principi generali che governano la materia dei contratti pubblici impongono all’amministrazione procedente di dare adeguata pubblicità agli affidamenti e di evitare la discriminazione delle imprese, attivando procedure competitive selettive.

In buona sostanza, i canoni guida in materia di affidamento delle commesse pubbliche esigono, a fini di trasparenza e di salvaguardia della concorrenza, la diffusione delle informazioni relative ai contratti da stipulare per consentire sia l’eguale possibilità di accesso delle imprese alle gare sia l’obiettiva ed imparziale selezione dei candidati (T.A.R. Sardegna, sez. I – 23/2/2007 n. 109; Consiglio di Stato, sez. VI – 30/1/2007 n. 362).

2.2 Sempre sull’argomento rileva il Collegio che, in ossequio ai principi comunitari, con l’art. 23 della L. 23/2005 è stata eliminata la possibilità – dapprima espressamente contemplata – di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti: alla scelta legislativa è stata riconosciuta una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche di altre disposizioni dell’ordinamento che si potrebbero risolvere, di fatto, nell’elusione del predetto divieto. Per assicurare l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, dunque, l’intervento normativo di cui sopra "dev’essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento che consentirebbero – in deroga alle procedure ordinarie di affidamento degli appalti pubblici – l’affidamento senza gara degli stessi servizi per ulteriori periodi, dev’essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti" (Consiglio di Stato, sez. IV – 31/10/2006 n. 6462; T.A.R. Sicilia Catania, sez. III – 22/6/2007 n. 1086; Sentenza sezione 11/3/2011 n. 419).

2.3 In quest’ottica devono essere interpretati i riferimenti normativi che regolano la fattispecie controversa, ed in particolare l’art. 3 commi 25 e 25bis del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248 così come modificato dal D.L. 40/2010 conv. in L. 73/2010.

2.4 Anzitutto l’attività dell’interprete deve essere guidata dal contesto normativo di riferimento che assume – quale obiettivo prioritario – la liberalizzazione del mercato e l’apertura al confronto concorrenziale fra i vari gestori, ed ogni norma volta a ritardare il raggiungimento dei predetti obiettivi va applicata con stretto rigore e nei casi espressamente previsti, anche al fine di rispettare gli obblighi imposti dalla normativa comunitaria.

Pertanto la scadenza introdotta dal legislatore è fissata inderogabilmente al 31/12/2010, senza che i singoli Enti locali possano deliberare in epoca anteriore una proroga per estendere i rapporti oltre tale data.

2.5 In secondo luogo va richiamato l’art. 23bis del D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008, nel testo vigente, che disciplina "l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale…" (comma 1), e le cui disposizioni "… si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili", salve deroghe per particolari ambiti che però non coinvolgono la materia di cui è causa.

L’art. 23bis comma 2 individua le modalità di conferimento dei servizi pubblici locali, ossia l’attivazione di una procedura competitiva ad evidenza pubblica (lett. a), la creazione di una società a partecipazione mista pubblica e privata (a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica – lett. b) e l’affidamento ad una Società in house purchè ricorrano rigorosi presupposti (comma 3).

Il comma 8 disciplina il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3 e, salve particolari ipotesi che non ricorrono nella fattispecie, le gestioni affidate (che appunto non rientrano nei casi di cui alle lettere a, b, c e d), cessano comunque entro e non oltre la data del 31/12/2010, senza necessità di apposita deliberazione dell’Ente affidante. Si tratta dunque di una cessazione automatica, la quale si produce a prescindere dall’emanazione di un atto o di un provvedimento.

2.6 Il problema a questo punto investe l’efficacia di un’eventuale deliberazione che stabilisce un termine più ampio – come nella fattispecie – in violazione della scadenza prefissata. Essa si pone in contrasto con una norma imperativa di legge e a questo proposito il Collegio fa proprie le considerazioni sviluppate nella precedente pronuncia di questa Sezione (12/6/2009 n. 1121, il cui appello è stato dichiarato estinto con decreto presidenziale 24/9/2010 n. 7111), resa anch’essa nella materia della distribuzione del gas naturale, caratterizzata da una minuziosa disciplina del cd. periodo transitorio delle concessioni in essere (sovente stipulate per una lunga durata, anche di 3040 anni) in vista dell’apertura al mercato mediante gare pubbliche. In quella fattispecie le parti (Ente locale e impresa privata) avevano concluso un accordo integrativo che contemplava una scadenza della concessione al 31/12/2012, prescindendo dalla rigida disciplina di legge in vigore al momento della sua stipula, che prevedeva una scadenza massima inferiore, ovvero il 31/12/2010. In altre parole, l’intesa sanciva per l’apertura alla concorrenza della distribuzione del gas nel Comune coinvolto una scansione temporale diversa da quella fissata in via autoritativa dalla legge, la quale introduceva scadenze rigide e ipotesi tassative di proroga: la pattuizione pertanto dava origine ad un contrasto con norme imperative di legge, paralizzando tra l’altro sino alla sua scadenza la possibilità del Comune di indire una pubblica gara per affidare il servizio. Da queste considerazioni il Collegio ha raggiunto la conclusione che l’atto aggiuntivo fosse nullo, così come la delibera che ne aveva autorizzato la stipulazione.

2.7 La deliberazione del Commissario straordinario n. 15/2009 era dunque in contrasto con una norma imperativa di legge e pertanto l’atto impugnato in questa sede è stato correttamente e doverosamente adottato.

3. Alla luce di tali considerazioni è infondata la censura afferente alla violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del D.L. 29/12/2010 n. 225, di differimento al 31/3/2011 del termine fissato dall’art. 3 comma 25bis già analizzato, quando con il D.M. era possibile prorogare ulteriormente la data fino al 31/12/2011 (circostanza che in effetti si è verificata).

3.1 Il provvedimento in esame soggiace al principio tempus regit actum a fronte del D.L. 225/2010 che non ha portata retroattiva, e in ogni caso la scadenza era stabilita ope legis alla data del 31/12/2010: gli atti di proroga o di incremento del termine di scadenza non erano di conseguenza assolutamente dovuti e pertanto ben poteva l’Ente rifiutarsi di procrastinare ulteriormente il rapporto in essere.

4. E’ infine infondata anche la censura con la quale parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 della L. 7/8/1990 n. 241 per inosservanza del principio del contraddittorio, non avendo il Comune consentito alla Società di interloquire nel procedimento di revoca.

Il Collegio osserva che gli effetti che la ricorrente assume lesivi sono collegati ope legis alla data di scadenza (31/12/2010) e non scaturiscono dalla deliberazione dell’Ente, per cui non si è trattato di un atto di secondo grado ma di una determinazione che ha preso atto dello scioglimento statuito ex lege.

5. Quanto all’ultima censura, riguardante la violazione dell’art. 3 della Costituzione e del principio di parità di trattamento e l’ingiustizia manifesta, dato che la risoluzione – adottata invocando esigenze di apertura alla concorrenza – è stata accompagnata da un nuovo affidamento diretto, la stessa deve essere trattata unitamente alla successiva doglianza sollevata contro la determinazione 22/12/2010 n. 134.

6. Il Collegio è ora chiamato ad affrontare l’ulteriore censura sviluppata nell’atto introduttivo del giudizio, orientata contro l’atto di affidamento a terzi del servizio.

6.1 Il Comune eccepisce la carenza della legittimazione e dell’interesse ad agire contro il provvedimento innanzi citato, poiché D. è priva dei requisiti elencati dall’art. 1 della L. 381/91 e non potrebbe in ogni caso conseguire la gestione del servizio con la stipula di una convenzione regolata da quella legge.

L’eccezione è infondata.

6.2 L’indizione di una gara in esito all’eventuale accoglimento della censura esigerebbe certamente – affinchè la ricorrente possa prendervi parte – la previsione nella nuova lex specialis di requisiti di ammissione non coincidenti con quelli enunciati all’art. 1 della L. 381/91 (che non sono pacificamente posseduti da D.). Posto che nella fattispecie non ha avuto luogo alcuna selezione, la ricorrente si duole dell’illegittimità dell’individuazione dell’impresa controinteressata, per cui l’eventuale rimozione giurisdizionale del disposto affidamento diretto imporrebbe all’amministrazione di compiere nuove valutazioni sull’opportunità di indire una gara e sui requisiti da prescrivere in capo alle imprese interessate a partecipare: l’esito di tale riedizione del potere potrebbe in buona sostanza concludersi con la decisione dell’amministrazione di avviare un confronto comparativo allargato a tutte le imprese in possesso dei requisiti minimi e tale chance – seppur allo stato astratta – è sufficiente a radicare l’interesse al ricorso (cfr. sentenza Sezione 27/5/2010 n. 2164 confermata dal Consiglio di Stato, sez. III – 12/4/2011 n. 2262).

6.3 Altra questione pregiudiziale di rito, introdotta dal Comune con la memoria dell’1/4/2011, riguarda l’inammissibilità della doglianza che investe l’affidamento del servizio alla controinteressata: parte ricorrente avrebbe omesso di svolgere nel ricorso introduttivo (e non avrebbe posto rimedio a tale lacuna con la proposizione di motivi aggiunti) la censura sull’illegittima applicazione dell’art. 5 della L. 381/91, ma si sarebbe limitata a denunciare l’avvenuto affidamento senza l’indizione di una gara. L’atto impugnato è stato assunto sulla base della disciplina derogatoria introdotta dalla disposizione appena citata, e parte ricorrente non avrebbe mosso alcun rilievo sull’insussistenza dei presupposti per la sua applicazione.

L’eccezione è infondata.

6.4 E’ noto al Collegio che nel giudizio amministrativo sono inammissibili le censure non ritualmente sollevate con il gravame introduttivo o i motivi aggiunti (e racchiuse in semplice memoria non notificata alla controparte) sia quando siano completamente nuove e non ricollegabili ad argomentazioni espresse nel ricorso introduttivo, ma anche quando – pur richiamandosi ad un motivo già ritualmente dedotto – introducano elementi nuovi ovvero in origine non indicati, con conseguente violazione del termine decadenziale e del principio del contraddittorio, essendo affidato alla memoria difensiva il compito di mera illustrazione esplicativa dei precedenti motivi di gravame e non anche di ampliamento del "thema decidendum" (cfr. T.A.R. Basilicata – 14/1/2011 n. 35; T.A.R. Liguria, sez. I – 25/10/2010 n. 10015; T.A.R. Campania Napoli, sez. I – 8/7/2010 n. 16615).

Detta ipotesi tuttavia non collima con quanto si è verificato nella fattispecie in esame, poiché parte ricorrente, alle pagg. 10 e seguenti del gravame introduttivo, ha minuziosamente contestato l’affidamento diretto alla controinteressata non accompagnato dalla gara pubblica, cui l’amministrazione era (asseritamente) tenuta sulla base della normativa vigente, diffusamente esposta. Il thema decidendum si è in questo modo cristallizzato sulla legittimità o meno della scelta del Comune di Telgate di non esperire una procedura selettiva per l’aggiudicazione della gestione del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni. I passaggi dell’atto introduttivo del gravame che affrontano il tema della violazione dell’obbligo di gara individuano dunque con sufficiente chiarezza il supposto vizio di legittimità.

In questa prospettiva, la sussistenza dei presupposti per la deroga all’obbligo di indire una gara pubblica – identificati dall’Ente locale nell’art. 5 della L. 381/91 – rappresentano un fattore potenzialmente paralizzante della pretesa esposta da D. e tuttavia introducono una questione in diritto (che il giudice è chiamato a risolvere) che non incide sul petitum originariamente sviluppato. In altri termini l’eventuale correttezza della decisione del Comune si fonda sulla deroga al generale obbligo di gara pubblica, quest’ultimo puntualmente dedotto nell’atto di ricorso e sottoposto al giudizio incardinato presso questo Tribunale: è evidente che non era esigibile un’ulteriore impugnazione dell’atto di affidamento per contestare i profili di diritto di cui all’art. 5 della L. 381/91 (così come accadrebbe ove affiorasse dagli atti la sussistenza di diverse ipotesi derogatorie che ammettono la trattativa privata), che comunque devono essere apprezzati dal giudice ai sensi del principio jura novit curia.

6.5 Va detto infine, con riguardo all’ulteriore eccezione in rito, che l’affidamento ad una Cooperativa sociale ex L. 381/91 integra una decisione di merito ben sindacabile dal giudice amministrativo quanto alla ricorrenza delle condizioni di legge che derogano all’obbligo di gara.

7. Passando all’esame del merito, D. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma 25bis del D.L. 30/9/2005 n. 203 conv. in L. 2/12/2005 n. 248, dal momento che detta norma impone di individuare il concessionario mediante procedure ad evidenza pubblica dall’1/1/2011 mentre l’amministrazione ha optato per un affidamento diretto: a questo proposito invoca i dati normativi che prevedono l’obbligo di gara (art. 28 D. Lgs. 507/93, art. 52 del D. Lgs. 446/97; art. 1 L. 337/98; art. 10 del regolamento comunale dell’imposta di pubblicità).

L’amministrazione oppone che l’affidamento diretto è stato disposto a favore di una Cooperativa sociale di tipo B in virtù di una norma speciale di deroga, dopo che già aveva ottenuto la gestione dei tributi ICI, TARSU e TOSAP.

Detto ordine di idee non merita condivisione.

7.1 Già si è diffusamente argomentato sul fatto (cfr. punti 1.2, 1.3, 1.4) che il servizio oggetto di affidamento deve essere qualificato come "servizio pubblico locale", rivolto all’esterno in quanto diretto a soddisfare i bisogni dell’intera collettività. In proposito questa Sezione ha già affermato (cfr. sentenza 30/3/2009 n. 719) che "tale qualificazione comporta l’impossibilità di applicare la norma speciale ora richiamata, la quale limita l’operare della deroga alle garanzie della gara pubblica, ai fini dell’affidamento del servizio, al solo caso in cui l’ente pubblico debba acquistare beni e servizi in proprio favore e non anche affidare a soggetti diversi lo svolgimento di servizi destinati ai terzi".

Il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale indirizzo, peraltro avallato dal Consiglio di Stato investito dell’appello (sez. V – 11/5/2010 n. 2829), il quale ha sostenuto che "… come correttamente ritenuto dal Tar, la richiamata disposizione, nel riferirsi alla "fornitura di beni e servizi", offre agli enti pubblici e alle società di capitali a partecipazione pubblica la possibilità di stipulare, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, convenzioni aventi ad oggetto la fornitura di beni e servizi – diversi da quelli sociosanitari ed educativi e di importo inferiore a quello preso in considerazione dalle direttive comunitarie in materia di appalti – in favore dell’amministrazione richiedente e non già l’affidamento di servizi pubblici locali". In altra fattispecie (servizio di scuolabus) è stato ribadito che l’art. 5 comma 1 della L. 381/91, in base alla sua formulazione, non consente di utilizzare le convenzioni ivi previste per l’affidamento di servizi pubblici locali, quale deve considerarsi il servizio di scuolabus (Consiglio di Stato, sez. V – 2/8/2010 n. 5100).

7.2 La controinteressata ricostruisce l’istituto convenzionale ex art. 5 della L. 381/91 mettendo in luce la sua funzione peculiare, avendo ad oggetto non soltanto l’erogazione del servizio ma anche l’impiego di personale svantaggiato, quale mission finalizzata alla promozione di soggetti che altrimenti resterebbero inevitabilmente marginalizzati e a carico del sistema assistenziale locale.

7.3 Detta condivisibile chiave di lettura, acutamente collegata al principio costituzionale di uguaglianza sostanziale, può trovare un efficace strumento di realizzazione alla luce del preambolo (punto 28) della direttiva 2004/18/CE, ai sensi del quale "L’occupazione e le condizioni di lavoro sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e contribuiscono all’integrazione nella società. In questo ambito i laboratori protetti ed i programmi di lavoro protetti contribuiscono efficacemente a promuovere l’integrazione o la reintegrazione dei disabili nel mercato del lavoro. Tuttavia, detti laboratori potrebbero non essere in grado di ottenere degli appalti in condizioni di concorrenza normali. Appare pertanto opportuno prevedere che gli Stati membri possano riservare la partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici a tali laboratori o riservare l’esecuzione degli appalti nel contesto di programmi di lavoro protetti". Di seguito l’art. 19 della direttiva – rubricato "Appalti riservati" – prevede che "Gli Stati membri possono riservare la partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici a laboratori protetti o riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando la maggioranza dei lavoratori interessati è composta di disabili i quali, in ragione della natura o della gravità del loro handicap, non possono esercitare un’attività professionale in condizioni normali. Il bando di gara menziona la presente disposizione".

Del resto, tali esigenze sono state comunque già prese in esame dalle sentenze sopra segnalate, le quali hanno statuito da un lato che "Le, seppur meritevoli di attenzione, finalità di incremento dell’occupazione potranno fare ingresso nella procedura, mediante la previsione di apposite clausole nel capitolato di gara" (cfr. sentenza T.A.R. Brescia 719/2009) e dall’altro che "… l’art. 52 del D. Lgs. 163/2006, di recepimento dell’art. 19 della Direttiva 2004/18, appresta strumenti di tutela a particolari istanze sociali, autorizzando, nell’ambito delle procedure di selezione per l’aggiudicazione di taluni appalti, una riserva nella partecipazione a particolari categorie meritevoli di protezione sociale, senza tuttavia escludere in radice l’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica" (Consiglio di Stato, sez. V – 2829/2010).

Dunque le ben apprezzabili necessità evidenziate dal Comune e dalla controinteressata possono essere affrontate attraverso prescrizioni particolari della lex specialis della gara ovvero attraverso meccanismi di riserva – in favore di Cooperative sociali di tipo B – della partecipazione a gare per l’affidamento di servizi pubblici, salvo il coordinamento tra l’art. 52 del D. Lgs. 163/2006 e la L. 381/91 anche alla luce del principio costituzionale di uguaglianza.

8. In definitiva il profilo di ricorso è fondato e deve essere accolto, con conseguente annullamento dell’atto di affidamento alla controinteressata del servizio di riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e diritti pubbliche affissioni.

9. E’ priva di fondamento la domanda risarcitoria.

9.1 La legittimità dell’adozione dell’atto di risoluzione esclude in radice la configurabilità del danno patrimoniale e all’immagine, una volta riconosciuta la bontà della condotta dell’amministrazione.

9.2 Non risultano meritevoli di apprezzamento neppure la richiesta di equo indennizzo ex art. 11 della L. 241/90 e del danno emergente, quantificato nella memoria finale (comprendente il costo della fidejussione assicurativa per la corretta esecuzione appalto, i costi vivi per l’acquisto materiale necessario ad affissioni, la rinuncia ai trasferimenti erariali per mancate entrate relative all’imposta sulla pubblicità).

9.3 Già si è sottolineato (cfr. punti 2.1 – 2.7) come la deliberazione del Commissario straordinario fosse chiaramente in contrasto con una norma imperativa di legge. In aggiunta si può osservare come l’ordinamento interno e comunitario della metà degli anni "90 erano chiari ed univoci nell’imporre la gara pubblica quale metodo ordinario di scelta del contraente privato. La direttiva 18/6/1992 n. 50 (recepita nel nostro paese con il D. Lgs. 17/3/1995 n. 157) aveva circoscritto a casi enumerati e tassativi la possibilità di affidare gli appalti di servizi mediante procedura negoziata non preceduta dalla pubblicazione di un bando. La chiarezza del quadro normativo è stata sostenuta dalla giurisprudenza comunitaria sviluppatasi nel periodo successivo: così si è affermato che l’aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi senza previa pubblicazione del bando di gara nella "Gazzetta Ufficiale" delle Comunità europee costituisce inadempimento da parte dello Stato membro, mentre la disposizione che ammette il ricorso alla procedura negoziata – derogando ad una norma fondamentale del Trattato – deve essere interpretata restrittivamente e l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che la giustificano gravano su colui che intende avvalersene (cfr. Corte di Giustizia CE, sez. V – 10/4/2003; Corte giustizia CE, sez. I – 14/10/2004 n. 340). Nell’ambito dei servizi pubblici, anche la giurisprudenza nazionale ha statuito che il ricorso, in via ordinaria, alla gara pubblica in ossequio alle esigenze di imparzialità e trasparenza è richiesto dai principi generali, e che l’affidamento a trattativa privata presuppone dunque una motivazione particolarmente rinforzata, dalla quale devono risultare le ragioni di deroga alla procedura dell’asta e della licitazione privata: (nello specifico settore delle concessioni del servizio di distribuzione del gas T.A.R. Lombardia Milano, sez. III – 29/6/1999 n. 2523; sez. III – 23/9/1998 n. 2167; sentenza T.A.R. 27/10/1992 n. 1138).

9.4 Posto che nella fattispecie non siamo di fronte ad una revoca ma alla presa d’atto di una naturale scadenza ex lege (cfr. punto 3.1) non è possibile riconoscere alcuna posizione di affidamento qualificato in capo all’impresa ricorrente, la quale ha in definitiva ottenuto il rinnovo della concessione in un momento nel quale l’invalidità dell’affidamento oltre la data del 31/12/2010 poteva assolutamente ritenersi sicura e pacifica.

9.5 Per il resto, la chance di partecipare alla nuova gara (e la possibilità di risultare vincitrice all’esito della riedizione del potere amministrativo) è conseguenza satisfattiva per l’interesse della ricorrente e in proposito non sussiste allo stato alcuna altra utilità che debba essere riconosciuta con lo strumento risarcitorio.

10. In conclusione il gravame deve essere parzialmente accolto, mentre va respinta la domanda risarcitoria. Nulla è stato dedotto sul nuovo contratto tra Comune e controinteressata, che si deve presumere non ancora sottoscritto. In ogni caso, l’amministrazione è tenuta ad agire sollecitamente per disporre un nuovo affidamento legittimo, con la possibilità di autorizzare medio tempore una breve proroga all’attuale gestore per il tempo strettamente necessario.

La parziale soccombenza reciproca e la complessità di alcune questioni giustificano la compensazione integrale delle spese di giudizio tra le parti in causa.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando accoglie parzialmente il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla l’atto di affidamento alla controinteressata del servizio di riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e diritti pubbliche affissioni.

Respinge la richiesta di risarcimento del danno.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-03-2011) 16-06-2011, n. 24093 Aggravanti comuni abuso di autorità o di relazioni domestiche, di ufficio, di prestazione d’opera, coabitazione, ospitalità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

D.S.M., tramite il difensore ricorre per Cassazione avverso la sentenza 13.5.2010 con la quale la Corte d’Appello di Venezia ha cosi statuito: "visto l’art. 605 c.p.p., in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia in composizione monocratica in data 20.7.2004, appellata dal D.S.M., assolve l’imputato dal reato di cui al capo a) relativo alla emissione di assegni bancari di importo pari a L. 16.000.000 e L. 200.00 perchè il fatto non sussiste e riduce la pena per il delitto di cui all’art. 643 c.p. a un anno e quattro mesi di reclusione e 400,00 Euro di multa. Riduce la provvisionale a 35. Milioni e conferma la condanna generica al risarcimento dei danni. Condanna l’imputato alla rifusione alla parte civile delle spese di rappresentanza del presente grado di giudizio che liquida in Euro 1033,25 comprensivo di rimborso forfettario oltre iva e cpa. Conferma nel resto".

L’imputato è stato sottoposto a giudizio penale per la violazione dell’art. 643 e 81 cpv c.p., art. 61 c.p., n. 11 "perchè, alfine di procurarsi un ingiusto profitto, abusando dello stato di deficienza psichica di Z.L. la induceva a compiere una pluralità di atti di disposizione patrimoniale comportanti per la stessa effetti giuridici a lei sfavorevoli e favorevoli al D.S. ed in particolare in data 1.4.1999 le faceva versare l’intero controvalore di una compravendita immobiliare, comprese le spese notarili della quale la Parte offesa acquistava il mero usufrutto, riservandone la nuda proprietà all’imputato, le faceva sostenere spese di ristrutturazione del predetto immobile pari a L. 14.416.700 e le faceva sottoscrivere in data 29.4.1999 una dichiarazione con la quale la p.o. si riconosceva debitrice della somma di L. 150.000.000, le faceva altresì emettere negli anni 1995-96 tre assegni bancari di importo pari a L. 16.000.000, 200.000, 2.400.000, incassati dal D. S. ed apparentemente emessi dalla Z. in proprio favore (il primo e il terzo, mentre il secondo emesso direttamente a favore dell’imputato), facendosi comunque consegnare dalla parte offesa assegni bancari firmati in bianco che lo stesso provvedeva successivamente a compilare, commettendo altresì il fatto con abuso della relazione di prestazione d’opera o comunque di ufficio che la legava alla parte lesa quale impiegato del Banco di Sicilia ove la predetta aveva il proprio conto corrente, offrendole di seguire personalmente le operazioni bancarie e amministrative. In Mestre e Venezia nelle date sopra indicate".

Condannato in entrambi i giudizi di merito in relazione alla suddetta imputazione (essendo stato dichiarato il non doversi procedere, per sopravvenuta prescrizione in riferimento ai reati di cui agli artt. 485, 491 e 81 cpv. c.p.) ed assolto in relazione ai soli episodi relativi agli assegni indicati nella detta imputazione, l’imputato ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia deducendo, dopo una articolata illustrazione della vicenda in fatto, i seguenti motivi:

p.1) Ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) l’erronea applicazione dell’art. 157 c.p.. sostenendo che la motivazione della sentenza di primo grado, pronunciata in data 20.7.2004, è stata depositata in data 6.3.2006, vigente ormai la nuova disciplina in materia di prescrizione introdotta con L. n. 251 del 2005, da applicarsi nel presente caso, perchè il diritto e la possibilità di appellare la sentenza sarebbe maturato sotto la vigenza della nuova legge. p.2) Ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), d) ed e) in relazione agli artt. 192, 220, 221 e 222 c.p.p. e art. 111 Cost. perchè, la consulenza del Pubblico Ministero essendo inidonea a dimostrare le minorate condizioni psichiche della Z.L. e la sua condizione di circonvenibilità, la Corte territoriale non ha disposto una perizia di ufficio sul punto. p.3) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), d) ed e) in relazione agli artt. 192, 220, 221 e 222 c.p.p. e all’art. 111 Cost., perchè la Corte d’Appello, benchè espressamente richiesta non ha disposto una consulenza tecnico contabile con la quale rilevare tanto le movimentazioni avvenute sul conto corrente della parte offesa, quanto quelle del connesso conto titoli. p.4) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’art. 192 c.p.p. con riferimento alla circostanza della sottoscrizione della scrittura privata con la quale la Z. si riconosceva debitrice della somma di L. 150.000.000 a favore dello imputato. p.5) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’art. 192 c.p.p. e all’art. 61 c.p., n. 11 con riguardo alla suddetta aggravante, sostenendo che il fatto ascritto, non ha connessione con la attività professionale dell’imputato.

Passando alla disamina dei singoli motivi, il collegio osserva quanto segue. p.1) In sede di impugnazione in grado di appello la difesa aveva formulato la richiesta di dichiarazione di estinzione del delitto di cui all’art. 643 c.p. per sopravvenuta prescrizione, invocando l’applicazione della normativa di cui alla L. n. 251 del 2006. La Corte territoriale richiamando il testo della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, come modificato a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, nonchè la decisione Cass. SU 29.10.2009 n. 47008, ha affermato che la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza del giudizio di appello, con la conseguenza che tale fatto costituisce la linea di demarcazione circa il regime giuridico da applicarsi in materia di prescrizione. Tenuto conto della data della pronuncia della sentenza di primo grado (20.7.2004) la Corte territoriale è giunta alla conclusione che debba essere applicata la disciplina della prescrizione nella versione antecedente alla riforma introdotta con L. n. 251 del 2005, essendo del tutto ininfluente la circostanza che la motivazione della decisione di primo grado sia stata depositata in epoca successiva all’entrata in vigore di detta legge. Il principio di diritto applicato dalla Corte territoriale è corretto, richiamandosi a consolidata giurisprudenza formatasi sul punto, ed alla quale questo Collegio ritiene di adeguarsi.

La difesa, con il ricorso in esame, ha formulato doglianze di contenuto generico e mere asserzioni legate a contingenti considerazioni di opportunità, senza prospettare temi giuridici che impongano una rimeditazione di quanto già affermato in precedenti pronunce di legittimità; pertanto il motivo è manifestamente infondato. p.2) la difesa lamenta, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), d) ed e), che la Corte territoriale abbia disatteso la richiesta di disporre una perizia di ufficio sulle condizioni psichiche della persona offesa, tale richiesta. La doglianza, in quanto ricondotta alla ipotesi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), è manifestamente infondata, perchè non sono evidenziati aspetti inerenti a violazioni o erronee applicazioni della legge penale sostanziale. La medesima doglianza se riguardata sotto il profilo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) è manifestamente infondata; infatti la "perizia", per il suo carattere "neutro", è prova sottratta alla disponibilità delle parti ed rimessa alla discrezionalità del giudice, non potendo essere considerata "prova decisiva" (v. in tal senso Cass. Sez. 4^ 22.1.2007, Pastorelli). Di qui consegue che la decisione della Corte territoriale di negare ingresso alla suddetta prova non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., citata lett. d), perchè si tratta di giudizio di fatto, che non è sindacabile in questa sede alla luce anche della articolata motivazione (pp. 9 e 10) con la quale la Corte d’Appello ha esaminato gli aspetti psichici della parte offesa. Va a tal proposito rilevato infine che la difesa del ricorrente non ha posto in evidenza vizi specifici della motivazione sul tema, che siano desumibili dalla lettura del provvedimento impugnato, secondo quanto previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), essendosi limitata a formulare, valutazioni soggettive interpolate dalla citazione di verbali e atti processuali, non suscettibili di considerazione nella presente sede. Pertanto il motivo è manifestamente infondato. p.3) la difesa lamenta che la Corte d’Appello, benchè richiesta, non ha disposto una perizia contabile che tenesse in considerazione anche le movimentazioni del conto titoli intestato alla persona offesa. La Corte d’Appello, pur prendendo atto, in sentenza, della richiesta formulata della difesa non l’ha accolta senza peraltro fornire ragioni a tal proposito e la difesa denuncia l’erroneità della decisione alla luce dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), d) ed e), insistendo sulla rilevanza dell’atto per la dimostrazione della correttezza del D.S. nella gestione del conto della parte offesa.

La doglianza non può essere presa in considerazione in riferimento alle ipotesi di cui al citato art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e d), per le medesime ragioni già indicate nel paragrafo che precede.

Viene quindi in evidenza la doglianza solo sotto il profilo di cui alla lett. e), dovendosene comunque rilevare la sua manifesta infondatezza. Dalla complessiva lettura della decisione impugnata si evince la totale irrilevanze e superfluità dell’accertamento peritale richiesto, posto che non viene messa in discussione la modalità di gestione del conto titoli della Z. da parte dell’imputato, ma vicende giuridiche che non attengono alle modalità della gestione del conto titoli. Conseguentemente la manifesta infondatezza della richiesta (in relazione alla superfluità dell’accertamento rispetto all’oggetto della decisione) rende incensurabile la carenza di motivazione della sentenza di appello sul punto. La circostanza, sostenuta dalla difesa, per la quale la richiesta perizia avrebbe permesso di verificare la correttezza del comportamento dell’imputato nei suoi rapporti con la Z., appare destituita di qualsiasi fondamento, alla luce della considerazione che tale "correttezza" non vale di per sè ad elidere o a ricondurre a diversa valutazione, gli aspetti fattuali della vicenda portata alla cognizione del giudice dell’appello. p.4) Con il quarto motivo la difesa censura la ricostruzione in fatto dalla Corte territoriale sulla vicenda relativa alla scrittura "ricognizione di debito" (di 150.000.000) sottoscritta dalla parte offesa a favore dell’imputato. La doglianza si articola attraverso il richiamo di atti processuali concludendo che la decisione si pone in contrasto con una diversa verità emergente dalle carte processuali.

La doglianza è manifestamente infondata sia sotto il profilo della lett. b) che quello di cui alla lett. e), art. 606 c.p.p.. In primo luogo la difesa non denuncia alcuna violazione di norme penali sostanziali, ma si duole in modo generico della violazione dell’art. 192 c.p.p. che è conducente alla censura in ordine alla motivazione di cui alla lett. e) ed in tale ambito potrà essere preso in considerazione il motivo che, peraltro, in modo generico si sviluppa in considerazioni orientate ad una alternativa valutazione delle prove, che è sottratta al giudice della legittimità. Infatti, come già affermato in precedenti pronunce, va qui ribadito che "Nell’ipotesi di ricorso per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, il sindacato in sede di legittimità è limitato alla sola verifica della sussistenza dell’esposizione dei fatti probatori e dei criteri adottati al fine di apprezzarne la rilevanza giuridica nonchè della congruità logica del ragionamento sviluppato nel testo del provvedimento impugnato rispetto alle decisioni conclusive; ne consegue che resta esclusa la possibilità di sindacare le scelte compiute dal giudice in ordine aita rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova, a meno che le stesse non siano il frutto di affermazioni apodittiche o illogiche" (v. Cass. Sez. 3^ 12.10.2007, Marrazzo).

Nel caso in esame la difesa non ha formulato alcuna valida e specifica censura sulla motivazione non essendo stati indicati i punti della decisione dai quali sarebbero desumibili carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità, vizi questi da desumersi dalla lettura del provvedimento impugnato; nè la difesa ha fornito specifiche indicazioni circa ipotesi di cd. "travisamento" del dato probatorio da dedursi in modo preciso e puntuale secondo quanto affermato in Cass. Sez. 4^ 12.2.2008 in Ced Cass. Rv 239533 ove: "In tema di ricorso per cassazione, la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per travisamento della prova è limitata all’ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale con la conseguenza che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall’escussione di una fonte dichiarativa, l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile".

Per le suddette ragioni il motivo è manifestamente infondato. p.5) La difesa lamenta la erronea applicazione dell’art. 61 c.p., n. 11, sostenendo che la vicenda integrante il reato contestato si è svolto al di fuori del contesto professionale dell’imputato. La doglianza è manifestamente infondata alla luce della sola considerazione che la parte offesa ha instaurato stretti rapporti fiduciari con l’imputato, proprio in funzione della sua attività (dipendente della banca presso la quale la parte offesa intratteneva i propri conti), con la conseguenza che lo imputato ha avuto modo di "abusare" della relazione di un mandato di fatto instauratosi fra le parti, avendo la persona offesa demandato all’imputato aspetti inerenti alla amministrazione del proprio patrimonio, proprio perchè quest’ultimo svolgeva la sua attività nella banca presso la quale la persona offesa aveva il suo conto; va qui ribadito che "l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera implica un concetto più ampio di quello civilistico di "locazione d’opera", comprendendo tutti i casi nei quali, a qualunque titolo, taluno abbia prestato ad altri la propria opera; infatti, ciò che rileva è l’abuso della relazione fiduciaria da parte dell’autore, il quale profitta di una situazione di minore attenzione della vittima, determinata proprio dall’affidamento che questa ripone nell’opera dell’altro, per commettere un reato a suo danno". (Cass. pen., sez. 2^, 23.9.2005 in Ced Cass. Rv 232894 e nello stesso senso Cass. Sez. 2^ 23.10.2003 in Ced Cass. Rv 227248).

Per le suddette ragioni il motivo è manifestamente infondato.

Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende, la pretestuosità delle ragioni del gravame.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-11-2011, n. 24471

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1 – Il contumace Z.A., titolare della ditta individuale Lavernicoat, fu condannato dal tribunale di Brindisi (con sentenza n. 42 del 2005) a pagare all’attrice D.A. la somma di Euro 11.708,28, oltre accessori, a titolo di risarcimento dei danni per le lesioni provocate all’appartamento della stessa a seguito dei lavori eseguiti al piano sottostante, commissionatigli in appalto dalle proprietarie (sorelle dell’attrice).

2.- La corte d’appello di Lecce, in accoglimento del primo motivo d’appello dello Z., con sentenza n. 385 dell’8.7.2009 ha dichiarato la nullità della sentenza di primo grado per la ravvisata nullità della notificazione dell’atto di citazione in primo grado (del 9.7.2000) ed ha conseguentemente rimesso la causa al tribunale.

3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione la D. (con ricorso ritualmente notificato l’ultimo giorno utile) affidandosi ad un unico motivo.

L’intimata "ditta Lavernicoat di Zizzari Antonio" non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1.- Sono denunciate violazioni di norme di diritto ed ogni possibile tipo di vizio della motivazione per avere la corte d’appello ritenuto che la notificazione dell’atto di citazione fosse nulla.

2.- Va premesso che la ditta è una mera denominazione, sicchè convenuto è, in realtà, l’imprenditore individuale che, sotto quel nome, esercita l’impresa.

La ragione per la quale la notificazione dell’atto di citazione in primo grado è stata dichiarata nulla è fondata sul rilievo della Corte d’appello (a pagina 6 della sentenza impugnata) che l’impresa individuale "Lavernicoat di Zizzari Antonio" ha la sua sede legale in (OMISSIS), mentre in Via (OMISSIS) vi è solo una sede secondaria, dove appunto l’atto di citazione era stato notificato.

Ma un imprenditore individuale non ha una sede legale; ha, invece, un domicilio, che l’art. 139 c.p.c., comma 1, definisce come il luogo in cui la persona fisica del destinatario "ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio".

Il punto era, dunque, quello di stabilire se anche in Via (OMISSIS), luogo di residenza dello Z., fosse dal medesimo esercitata l’industria o il commercio, non potendosi neppure escludere che un imprenditore eserciti la propria attività in due diversi luoghi.

2.1.- La corte d’appello ha poi ritenuto che, essendo stata la notifica eseguita in luogo diverso dalla residenza o domicilio dello Z. e dalla sede legale della sua impresa individuale la illeggibilità della firma sull’avviso di ricevimento dell’atto di citazione, diversa da quella del destinatario, siccome non accompagnata da alcuna dichiarazione – o attestazione del notificante – circa la sussistenza di un rapporto di familiarità o collaborazione, non autorizzasse alcuna presunzione in tal senso.

L’argomento è inficiato dall’assunto – erroneo come s’è detto – che una persona fisica che eserciti attività d’impresa sotto una determinata ditta possa avere una "sede legale" e per non aver correttamente applicato la nozione di domicilio di cui all’art. 138 c.p.c..

3.- Il motivo va dunque accolto nei sensi sopra precisati e la sentenza cassata con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione perchè apprezzi la validità dell’atto di citazione in primo grado alla luce della sopra enunciata nozione di domicilio, decidendo sull’appello nel caso in cui concluda che la notificazione non era nulla.

Il giudice del rinvio regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Lecce in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.