T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 25-07-2011, n. 6666

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

RITENUTO IN FATTO:

– che il ricorrente ha impugnato gli atti ed il provvedimento con i quali è stato giudicato non idoneo (per "conduzione atrioventricolare accelerata") al concorso per l’ammissione di 400 Allievi Marescialli alla Scuola Ispettori e Sovrintendenti della Guardia di Finanza per l’anno 20102011, indetto con Bando del Comandante Generale della Guardia di Finanza;

– che con ordinanza n.2587 del 23.3.2011 questo TAR ha disposto una verificazione in contraddittorio volta ad accertare, mediante rinnovamento dell’esame medicosanitario già effettuato dall’Amministrazione, se il ricorrente sia effettivamente affetto dalla patologia riscontrata;

– che tale accertamento, espletato da un Commissione medica operante presso il Policlinico Militare di Roma (Ospedale Militare del Celio), ha dato esito favorevole al ricorrente;

ESAMINATI i motivi di ricorso;

CONSIDERATO IN DIRITTO che con unico mezzo di gravame il ricorrente lamenta eccesso di potere per errore nei presupposti, carenza istruttoria, travisamento dei fatti, erronea valutazione e difetto di motivazione, deducendo di essere stato erroneamente considerato inidoneo e di aver titolo per essere ammesso al concorso per cui è causa;

RITENUTO che la doglianza si appalesa fondata in quanto le risultanze della verificazione disposta da questo TAR hanno acclarato che il ricorrente è idoneo;

RITENUTO, in definitiva, che in considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso sia da accogliere; e che sussistano giuste ragioni per condannare la parte soccombente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessive Euro.1.000, oltre I.V.A. e C.P.A.;

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie; e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.

Condanna l’Amministrazione soccombente al pagamento delle spese processuali nella misura indicata in motivazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 07-07-2011) 01-08-2011, n. 30463 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Il 17 ottobre 2006 il Tribunale di Catania dichiarava M. C. e C.M. colpevoli dei reati previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, art. 74 ed, esclusa per entrambi l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, ritenuta la continuazione fra i reati, previa concessione delle circostanze attenuanti dichiarate equivalenti all’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6, condannava M. C. alla pena di sette anni e otto mesi di reclusione e C.M. a quella di otto anni di reclusione, nonchè alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e del divieto di espatrio per due anni.

2. Il 2 luglio 2010 la Corte d’appello di Catania, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dagli imputati, determinava la pena nei confronti di C.M. in sette anni e otto mesi di reclusione e nei confronti di C.M. in otto anni di reclusione, ritenuta la continuazione dei reati di cui alla sentenza impugnata con quelli oggetto della sentenza emessa il 5 settembre 2003 dalla Corte distrettuale degli Stati Uniti, distretto di New Jersey, riconosciuta con sentenza del 25 gennaio 2008 (irrevocabile il 21 dicembre 2008).

3. Entrambi i giudici di merito ritenevano provata la responsabilità degli imputati sulla base delle intercettazioni disposte, dei sequestri di droga operati, degli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria in ordine ai viaggi da loro effettuati in Olanda e negli U.S.A. Dal complesso di questi elementi risultava che M. e C.M. erano inseriti in un sodalizio operante in Italia, dedito all’immissione sul mercato statunitense di partite di ectasy di cui essi, insieme con gli altri complici, si rifornivano periodicamente in Olanda e concorrevano con gli altri coimputati nell’effettiva immissione delle partite di stupefacenti sul mercato.

4. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catania e gli imputati.

Il primo lamenta violazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’applicazione della continuazione tra i reati commessi all’estero, oggetto di giudizio da parte del giudice straniero, e i reati commessi in Italia e quivi giudicati, non rientrando tale valutazione tra gli effetti penali della condanna ai sensi del l’art. 12 c.p..

La difesa di C.M., anche mediante motivi aggiunti e una memoria difensiva, deduce: a) violazione di legge e carenza della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto associativo, tenuto conto del fatto che l’imputato ebbe a prendere parte soltanto a due viaggi e che la coimputata C.L. è stata assolta dal delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, come documentato mediante la produzione della relativa sentenza pronunziata in un separato procedimento penale concernente i medesimi fatti, sentenza il cui contenuto, insieme con quello di una memoria depositata nel giudizio d’appello, non è stato in alcun modo apprezzato con conseguente lesione dei diritti di difesa; b) inosservanza del principio del ne bis in idem alla luce del fatto che gli imputati, per il medesimo fatto, sono stati sottoposti a processo sia in Itali che all’estero.

M.C. lamenta, a sua volta, violazione della legge penale e carenza della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della fattispecie associativa, all’omessa applicazione dell’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6.

Motivi della decisione

Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catania è fondato.

La ratio dell’istituto del riconoscimento delle sentenze penali straniere non è quella di parificare la pronuncia dell’Autorità giudiziaria straniera a quella del giudice italiano, bensì è da ravvisare nella finalità di assumere la decisione adottata all’estero quale fatto storico giuridico secondo la tassativa catalogazione di cui all’art. 12 c.p. con la conseguenza che le sentenze pronunciate all’estero acquistano efficacia giuridica solo in seguito a formale riconoscimento, i cui fini e limiti sono solo quelli indicati nel predetto art. 12.

In tale contesto, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che il riconoscimento di una sentenza penale straniera non può essere richiesto al fine di ottenere l’eventuale applicazione dell’istituto della continuazione, che, implicando un giudizio di merito bilaterale tra la pronuncia estera e quella emanata in Italia, non può considerarsi un "effetto penale della condanna", rilevante ai sensi dell’art. 12 c.p., comma 1, n. 1 (Sez. 1, Sentenza n. 19469 del 07 maggio 2008; Sez. 1, n. 31422 dell’11 maggio 2006; Sez. 1, n. 46323 del 4 novembre 2003; Sez. 6^, 7 marzo 1996, Avogadro, in Cass. pen. mass. ann., 1997, n. 909, p. 1458; Sez. 1^, 14 giugno 1996, Leitner, ivi, 1997, n. 867, p. 1415; Sez. 2^, 15 novembre 1982, Di Trani, ivi, 1984, n. 1145, p. 1659; Sez. 2^, 21 ottobre 1980, Meinardi, ibidem, 1982, n. 676, p. 746).

Attesa la tassativa elencazione, contenuta nell’art. 12 c.p., degli effetti penali scaturenti dal riconoscimento di una sentenza penale straniera, è, quindi, da escludere la possibilità di un’interpretazione estensiva o analogica della disposizione in esame (Sez. 2^, 15 novembre 1982, Dirani, rv. 159299; Sez. 2^, 18 giugno 1973, Segnino, in Cass. pen. mass. ann,, 1975, p. 190; cfr., inoltre, con riferimento alla determinazione della pena ai sensi, della L. 3 luglio 1989, art. 3, comma 2, n. 257, contenente le norme di attuazione della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone detenute, adottata il 21 marzo 1983 e ratificata con la L. 25 luglio 1988 n. 334, Sez. 5^, 15 novembre 1993, Di Carlo, in Cass. pen. mass. ann., 1995, n. 291, p. 360).

Non può, inoltre, ritenersi operante neppure il disposto dell’art. 696 c.p.p., che, nell’affermare la prevalenza delle convenzioni internazionali in vigore e delle norme del diritto internazionale generale, presuppone pur sempre l’identità della materia regolata, laddove tra gli "effetti delle sentenze penali straniere" non si ricomprende certo, come si è visto, l’istituto della continuazione.

Deve, quindi, essere affermato il principio di diritto, cui il giudice di rinvio dovrà uniformarsi ai sensi dell’art. 627 c.p.p., comma 3, che il riconoscimento di una sentenza penale straniera può avvenire solo per i fini espressamente e tassativamente previsti dall’art. 12 c.p., comma 1, e che, pertanto, per la sentenza penale straniera è preclusa la riunione con vincolo della continuazione con altri reati giudicati nel nostro ordinamento che presuppone un giudizio di merito e, quindi, il riferimento a categorie di diritto sostanziale (reati e pene) che si qualificano soltanto in ragione del diritto interno (Corte Cost. 24/28.3.1997 n. 72).

2. Parimenti fondate sono le censure prospettate da entrambi i ricorrenti in tema di reato associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, a base della figura dell’associazione finalizzata a traffici di sostanze stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74) è identificabile un accordo destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, preordinati alla cessione o al traffico di droga. Per la configurazione del reato associativo non è necessaria la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali. deducibili dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, col contributo dei singoli associati (Sez. 1^, 22 dicembre 1997, n. 5083, rv. 204963; Sez. 6^, 12 maggio 1995, n. 9320, n. 742, rv. 202037; Sez. 1^, 31 maggio 1995, n. 742, rv. 202193; Sez. 6^, 9 gennaio 1995, n. 2772, rv. 201353). Nella giurisprudenza di legittimità è stato altresì precisato che il dolo è dato dalla coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione del programma delinquenziale in modo stabile e permanente (Sez. 6^, 23 gennaio 1997, n. 5970, riv. 208306) e che il vincolo associativo può poggiare anche sul rapporto che accomuna, in maniera durevole, il fornitore di droga e gli spacciatori che la ricevono per immetterla nel consumo al minuto, sempre che vi sia la consapevolezza di operare nell’ambito di un unica associazione e di contribuire con i ripetuti apporti alla realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio di droga (Sez. 1, 10 giugno 1996, n. 7758, rv.

205531; Sez. 1^, 21 ottobre 1999, n. 14578, rv. 216124; Sez. 1, 23 dicembre 1999, n. 14578, rv. 216124; Sez. 5^, 11 agosto 1999, n. 10076, rv. 213978; Sez. 5^, 17 settembre 2001, n. 33717, rv. 219921).

La sentenza impugnata, pure a fronte delle specifiche doglianze difensive in ordine all’assenza degli elementi costitutivi di un’associazione per delinquere finalizzata a traffici di droga, ha omesso di fornire qualsiasi motivazione circa le emergenze processuali che consentivano di ritenere integrata, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, la fattispecie prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, soffermandosi esclusivamente su alcuni episodi rilevanti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, da cui, peraltro, non può essere di per sè desunta, sulla base di automatiche e immotivate inferenze probatorie, la sussistenza di un’organizzazione dedita a traffici di droga.

Anche sotto questo profilo, pertanto, s’impone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania.

3. Non fondata, invece, è la censura di violazione del principio del ne bis in idem.

Il principio del ne bis in idem permea l’intero ordinamento giuridico e fonda il preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va, pertanto, attribuito, il ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, a norma dell’art. 12 preleggi, comma 2, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione logico-sistematica. La sua matrice deve essere identificata nella categoria della preclusione processuale, ben nota alla teoria generale del processo, sia civile che penale. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del legislatore. Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di determinati criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le esigenze di giustizia, di certezza e di economia.

Questa impostazione teorica rende evidente che la preclusione costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra toro, ciascuno dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere. In quest’ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere. Nel perimetro della preclusione-consumazione ricade, oltre all’esercizio dell’azione penale, anche il potere di ius dicere ad opera del giudice, secondo quanto costantemente affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr.

Cass., Sez. Un, 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799; Cass., Sez. Un. 14 luglio 2004, rv. 228666; Cass., Sez. Un. 31 marzo 2004, rv.

227358; Cass., Sez. Un. 18 maggio 1994, r. 198543; Cass., Sez. Un. 29 maggio 2002, rv. 221999; Cass., Sez. Un. 22 marzo 2000, rv. 216004;

Cass., Sez. Un. 19 gennaio 2000, rv. 216239; Cass., Sez. Un. 23 febbraio 2000, rv. 215411; Cass, Sez. Un., 10 dicembre 1997, rv.

209603; Cass., Sez. Un. 31 luglio 1997, rv. 208220; Cass., Sez. Un., 26 marzo 1997, rv. 207640; Cass., Sez. Un. 18 giugno 1993, rv.

194061; Cass., Sez. Un. 8 luglio 1994, rv. 198213; Cass., Sez. Un. 23 novembre 1990, rv. 186164; Corte Cost, sent. n. 318 del 2001, n. 144 del 1999, n. 27 del 1995;).

Il ne bis in idem è, quindi, finalizzato ad evitare che per lo "stesso tatto" -inteso, ai fini della preclusione connessa al predetto principio, come corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi del reato (condotta, evento, nesso casuale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, (Cass., Sez. Un., 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799; Cass., Sez. 1^, 21 aprile 2006, n. 19787, rv. 234176; Cass., Sez. 2^, 18 aprile 2008, n. 21035, rv. 240106) – si svolgano più procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, e trova la sua espressione in rapporto alle diverse scansioni procedimentali disegnate dal legislatore.

Sulla base di quanto sinora esposto è evidente che la censura prospettata sotto il profilo dell’inosservanza degli art. 649 c.p.p. è priva di qualsiasi pregio, attesa l’assenza di identità, sotto il profilo della "identità" del fatto storico-naturalistico, nel senso sopra chiarito, tra i reati commessi all’estero e quelli oggetto del giudizio da parte dell’Autorità giudiziaria di Catania.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al riconoscimento della continuazione con i reati giudicati all’estero e al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte d’appello di Catania.

Rigetta nel resto i ricorsi di C.M. e C.M..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 08-07-2011) 12-09-2011, n. 33803

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del dì 8 febbraio 2011 il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del riesame, rigettava l’istanza proposta, a mente dell’art. 309 c.p.p., da S.M. avverso la misura cautelare in carcere in suo danno disposta dal GIP del medesimo Tribunale, il precedente 18 gennaio, in relazione al reato di omicidio volontario di D.P.A., al reato di tentato omicidio di F.F. ed a quello di rissa, nel cui contesto le due parti offese sono state raggiunte da più colpi portati con un coltello e con una bottiglia infranta, condotte consumate all’una circa del 15 gennaio 2011, all’esterno di un locale pubblico di Grottaferrata.

1.2 A sostegno della decisione il Tribunale, confermando analoga valutazione del giudice di prime cure, richiamava una serie di dichiarazioni testimoniali rese dalla fidanzata della vittima, dalla moglie del ferito e da altri presenti ai fatti di causa, valutando criticamente le non poche discrasie delle dichiarazioni medesime in relazione alla contestazione dei reati appena indicati, per i quali il ricorrente risulta indagato in concorso con R.F. e C.S..

Il tribunale motivava altresì la decisione impugnata sulla base delle dichiarazioni rese dai coimputati e dal F., delle ricognizioni fotografiche risultanti in atti e degli indumenti degli indagati sequestrati dalla P.G. nelle ore immediatamente successive ai fatti di causa.

In forza delle predette risultanze processuali il GIP prima ed il tribunale poi ricostruivano i fatti evidenziando che, tra due gruppi di giovani avventori di un club notturno di Grottaferrata, vi era stata all’interno del locale un primo teso confronto tra il D. P. ed un ragazzo di circa vent’anni, al quale il primo aveva rimproverato di averlo guardato male, confronto poi sfociato all’esterno in una violentissima rissa, che aveva impegnato gli amici dell’uno e dell’altro con le conseguenze nefaste cagione delle accuse dedotte nel processo.

Con riferimento particolare al ricorrente, ha il tribunale ritenuto provato, sulla base delle fonti indiziarie e probatorie innanzi indicate, che lo stesso uscì con il C. – autoaccusatosi delle coltellate omicide e dei fendenti lesivi, a suo dire portati per difendersi dall’aggressione dei numerosi avversari – per il chiarimento preteso dopo il diverbio iniziale, poi partecipando attivamente allo scontro.

Il Tribunale, ancora, dando fede alle dichiarazione della p.l.

F., imputa al ricorrente di aver armato il C. con un coltello preso dall’autovettura di questi.

2. Ricorre per l’annullamento dell’impugnata ordinanza l’indagato, assistito dal difensore di fiducia, il quale sviluppa ed articola due motivi di impugnazione.

2.1 Denuncia con il primo di essi la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione alla responsabilità dell’indagato per i reati di omicidio e tentato omicidio, in particolare deducendo che:

– il Tribunale ha contestato all’indagato il concorso nelle condotte di omicidio e tentato omicidio sull’unico rilievo che lo stesso avrebbe armato il C. con il coltello utilizzato per colpire il D.P. e che ciò avrebbe fatto raggiungendo l’autovettura del C. nel pieno della rissa, e da qui prelevando l’arma poi data all’amico;

– l’accusa in tali termini si appalesa illogica dappoichè il Tribunale ha dato fede alla circostanza che l’indagato, una volta iniziato lo scontro fisico, ha chiamato il buttafuori del locale per sedarla;

– come si concilia questa finalità con la condotta di armare l’amico? Palese la contraddizione.

– la semplice partecipazione alla rissa non può rappresentare elemento di per sè sufficiente per estendere la responsabilità del corrissante anche alle eventuali conseguenze per fatti di sangue;

– il Tribunale, al fine di superare siffatti limiti giuridici, ha valorizzato all’estremo le dichiarazioni della p.l. F., nonostante le medesime siano imprecise, quanto meno perchè non individuano con certezza la persona dell’indagato e perchè il fatto che qualcuno si sia portato presso l’autovettura del C. non può provare che ciò sia stato fatto per prelevare l’arma del delitto;

– la ricostruzione sin qui accreditata dal tribunale cozza irrimediabilmente con quella fornita dal C., dallo stesso Tribunale giudicato attendibile, il quale si è autoccusato dei colpi micidiali i quali, a suo dire, furono portati con un coltello che aveva in tasca, per difendersi dall’aggressione in atto contro di lui;

– è apodittica l’affermazione del tribunale secondo cui il preventivo ferimento del F. utilizzando una bottiglia proverebbe che il C., inizialmente era privo del coltello;

– può essere infatti accaduto esattamente il contrario e cioè che dopo aver lasciato il coltello infisso nel corpo del D.P. il C. abbia continuato la colluttazione utilizzando la bottiglia rotta;

– il Tribunale non ha poi valutato l’attendibilità del F., indagato per rissa;

– la tesi del F. (il corrissante che si arma del coltello prelevandolo dall’autovettura del coimputato) non collima con le dichiarazioni del posteggiatore, il quale ha visto l’autovettura arrivare, parcheggiarsi e poi ripartire senza altre condotte incidentali;

– il F. inoltre riferisce dell’episodio collocandolo dopo il suo ferimento, e, pertanto, a rissa esauritasi;

– va dato rilievo alla circostanza che il C., reo confesso, non ha mai raccontato di aver ricevuto da altri il coltello pur potendone trarre giovamento processuale;

– anche la fuga del C. insieme all’indagato viene utilizzato indiziariamente al di fuori di ogni logico argomentare, tenuto conto del comportamento precedente dell’indagato medesimo (che ha richiesto l’aiuto del personale del pub);

– la fuga insieme in auto trova giustificazione nell’amicizia dei due e nel fatto che il C., se fosse rimasto sul posto, sarebbe stato linciato;

– anche sul rinvenimento degli abiti dello S. occorre rilevare che le dichiarazione della madre dell’indagato e le argomentazioni difensive portate alla valutazione del Tribunale risultano del tutto pretermesse (incerte tracce forse di natura ematica e vestiti lasciati davanti alla porta di casa, quindi non occultati);

– ancora sulla partecipazione alla rissa il tribunale travisa le dichiarazioni dell’ I. e dello stesso C., in quanto il primo ha chiarito che l’indagato non uscì insieme al C. dal locale, ma dopo pochi minuti, mentre il secondo ha sostenuto che l’indagato non partecipò allo scontro fisico;

– il tutto sempre alla luce del certo comportamento dell’indagato, il quale, visto lo scontro scoppiato fuori dal pub, chiamò immediatamente il personale del locale con fini evidentemente contrari alla partecipazione diretta alla rissa;

– palese poi l’illogicità con la quale il tribunale esclude che sia l’indagato il giovane indicato dallo stesso F. come colui che ebbe il diverbio iniziale con la vittima all’interno del locale e che fuori di esso non partecipò alla rissa, benchè l’indagato stesso abbia l’età e l’altezza indicate dalla p.o.;

– anche l’indicazione del giubbotto tipo Woolrich indossato dallo S., singolarmente, per la difesa, non giova all’indagato ai fini di riconoscerlo come colui che non partecipò alla rissa, giacchè il tribunale obbietta che trattasi di capo molto in uso, senza considerare che nessuno dei testi ne ha indicato l’uso da parte di altri presenti sulla scena del delitto;

– anche il cappuccio di pelliccia visto da una ragazza vicino alla vittima dell’omicidio non può essere quello dell’indagato, perchè diverso il colore indicato dalla teste rispetto al medesimo capo ritrovato dalla P.G. a casa dello S.;

– i fatti avvennero in tempi rapidissimi dopo l’inizio dello scontro fisico e questo è un ulteriore dato in contrasto con la ricostruzione del tribunale ed, in particolare, con l’asserita azione dell’indagato volta a prelevare il coltello dalla macchina e portarlo all’amico, dappoichè comunque ormai consumata la tragedia in pochi terribili momenti.

2.2 Col secondo motivo di ricorso deduce ancora la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del ricorrente per il reato di rissa. A sostegno della doglianza il difensore ha richiamato le medesime argomentazioni spese a sostegno del primo motivo.

3. Il ricorso è fondato.

E’ noto che, ai fini dell’emissione di una misura cautelare personale, per "gravi indizi di colpevolezza" ex art. 273 c.p.p., devono intendersi, secondo insegnamento di questa Corte, tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che, contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova, non valgono di per sè a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato ai fini della pronuncia di una sentenza di condanna, e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso il prosieguo delle indagini, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità dì colpevolezza (principio ampiamente consolidato; tra le tante: Cass., Sez. 6, 06/07/2004, n. 35671).

Orbene, nel caso di specie il fondamento indiziario della colpevolezza del ricorrente si fonda sulla circostanza fattuale che lo stesso avrebbe armato la mano dell’omicida, fornendogli il coltello usato per colpire il D.P., coltello prelevato dalla sua autovettura in precedenza posteggiata.

Orbene, siffatta ricostruzione, ancorchè nei limiti della probatio minor caratterizzante la fase processuale in atto, appare per più versi contraddittoria, priva di adeguato supporto indiziario e francamente non articolata con coerenza logica. Ed invero dati considerati certi dal Tribunale sono la circostanza che l’indagato, allo scoppiare della rissa, si adoperò presso i buttafuori chiedendo un loro intervento pacificatore, e che lo stesso F., vittima del ferimento, non ha affatto visto l’indagato prelevare l’arma dalla sua autovettura.

A parte ciò non può non convenirsi che costituisca una forzatura logica ritenere che nei tempi brevissimi della colluttazione l’indagato: abbia chiamato i buttafuori, abbia partecipato alla rissa, nel mentre della colluttazione si sia allontanato per raggiungere la sua autovettura, vi abbia prelevato il coltello, sia tornato tra i corrissanti ed abbia consegnato l’arma letale al C.. Tanto, giova ribadirlo, in assenza di un certo riconoscimento dell’indagato da parte del F. come colui che avrebbe guadagnato l’autovettura ed in assenza di qualsivoglia testimonianza confermativa di tale circostanza, affermata dal tribunale in assenza di riscontro indiziario e sostegno logico, anche in relazione alla tempistica del fatto riferito all’indagato, collocata dal predetto F. in momenti non proprio compatibili con l’esito omicidiario della rissa.

4. Alla stregua delle esposte considerazioni l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di Roma affinchè, in libertà di giudizio, provveda ad una più coerente e motivata valutazione della posizione processuale dell’indagato.

P.Q.M.

la Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Roma. DISPONE trasmettersi a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 24-10-2011, n. 8165 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il provvedimento emesso in data 29.6.2011 l’Ambasciata d’Italia a Dhaka si è pronunciata nel senso dell’inammissibilità della richiesta di visto di ingresso per motivi di lavoro subordinato, ex art. 22 TU 286/98, presentata dal ricorrente.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di diritto:

1). Violazione art. 4, 2, e 22 TU 286/98, art. 3 L. 241/90, mancanza di motivazione;

2). Violazione e falsa applicazione art 3 L. 241/90, e successive modifiche; art. 4, 2, TU 286/98 e 31, 8, DPR 394/90, e successive modifiche; art. 97 Cost.; principi del giusto procedimento; difetto di istruttoria e carenza di motivazione; eccesso di potere per erronea e falsa interpreta"ione, valutazione e/o travisamento del presupposto in fatto;

3). Violazione e falsa applicazione artt. 7 e 10 bis L. 241/90; art. 18 D. L. 15/08; difetto di istruttoria e carenza di motivazione; eccesso di potere per erronea e falsa interpretazione, valutazione e/o travisamento del presupposto in fatto.

In data 12.10.2011 controparte ha depositato memoria.

Il presente giudizio può essere definito con decisione in forma semplificata stante la completezza del contraddittorio e della documentazione di causa; di ciò sono stati resi edotti i difensori delle parti.

Tanto premesso, il Collegio ritiene che il presente ricorso è infondato e deve essere respinto.

Con i motivi di ricorso l’interessato lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione.

Ad avviso del Collegio le censure non meritano positivo apprezzamento.

In particolare, si osserva che:

a). come emerge dagli atti istruttori del procedimento in questione e dalla relazione difensiva della PA, depositati in giudizio, risulta che " in fase di istruttoria della pratica di visto sorgevano dubbi sul passaporto n. V0606611 in quanto si constatava che la data di nascita originale fosse stata alterata. Pertanto, sottoponendo il documento ai controlli, con l’ausilio di strumenti elettronici ultravioletti e di apparati ottici in dotazione in questa rappresentanza diplomatica si evidenziava come fosse stata manomessa l’intera data di nascita";

b). in sintesi, si ritiene sussistente un serio rischio migratorio non essendo stato dimostrato un effettivo interesse del richiedente a fare rientro nel suo paese al termine del periodo di validità di un eventuale visto di ingresso in Italia;

c). dunque, nel caso in esame l’Amministrazione ha dato -adeguatamente- conto (anche per relationem) della sussistenza di motivi ostativi, atti a supportare la legittima adozione del diniego; pertanto, nessuna contestazione può essere mossa alla stessa.

In definitiva, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio, il cui importo viene liquidato come da dispositivo, debbono essere poste a carico del ricorrente in quanto soccombente.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando:

Respinge il ricorso in epigrafe.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della resistente per complessivi Euro 1000,00 (mille).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.