Cons. Stato Sez. III, Sent., 11-03-2011, n. 1575 Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione Sanzione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante, società L. (I.) Ltd (di seguito "L."), azienda fornitrice di servizi di telecomunicazione, per l’annullamento del provvedimento sanzionatorio, irrogatole dalla Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (di seguito "AGCOM"), per la violazione dell’articolo 70 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259, in relazione alla asserita mancanza di trasparenza tariffaria della carta telefonica denominata "Europa". In particolare, l’ordinanza ingiunzione adottata da AGCOM ha imputato alla L. le seguenti condotte:

– non avere presentato, in modo chiaro, esatto e completo, i contenuti del servizio e i termini delle modalità di erogazione, i prezzi, l’unità di conteggio, le modalità di tassazione applicate;

– avere scalato sulle carte prepagate importi differenti e maggiori rispetto a quelli resi noti dai profili tariffari pubblicizzati;

– avere modificato senza preavviso le condizioni economiche applicate ai servizi telefonici internazionali offerti al pubblico.

2. L’appellante ripropone e sviluppa le censure disattese dal TAR. AGCOM resiste al gravame.

3. In primo luogo, l’appellante deduce la violazione dell’articolo 8 della legge n. 689/1981. Al riguardo, evidenzia che AGCOM, oltre alla sanzione contestata nel presente giudizio, le ha irrogate altre tre sanzioni, riferite ad identiche violazioni, impugnate in distinti giudizi, per un importo complessivo di euro 1.287.600,00.

Inoltre, aggiunge l’appellante, la sanzione applicata con il provvedimento contestato nel presente giudizio riguarderebbe identiche violazioni, anche esse ascrivibili ad un’unica condotta.

A dire dell’appellante, quindi, risulterebbe violato quanto stabilito dall’articolo 8, comma 1, della legge n. 689/1981, secondo cui "salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi, con un’azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo."

4. La censura è infondata. Nel caso di specie, infatti, è comprovato che la sanzione è stata correttamente applicata in relazione a ciascuna delle diverse e separate condotte ascritte a L., distintamente accertate dalla Polizia Postale. Esse si sono concretizzate in distinte violazioni dell’obbligo di trasparenza e del dovere di non modificare, senza preavviso, le condizioni economiche del servizio.

Contrariamente a quanto affermato dall’appellante, le condotte sono oggettivamente distinte: gli accertamenti compiuti non riguardano un unico comportamento, ma diverse azioni, separate nel tempo, ancorché di contenuto identico o analogo.

La giurisprudenza ha chiarito, del resto, che l’istituto del cumulo giuridico delle pene, previsto per il caso della continuazione fra reati, non è applicabile in via analogica al concorso materiale di violazioni amministrative, le cui sanzioni pertanto devono essere applicate autonomamente e per l’intero. (Fattispecie in cui la Corte ha considerato legittimo il cumulo materiale tra sanzioni amministrative accessorie nel caso di condanna per reati previsti dal Cod. strada ritenuti in continuazione tra loro: Cass. pen. Sez. IV, 6 maggio 2009, n. 25933).

Analogamente, si è chiarito che l’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, pur prevedendo l’applicabilità dell’istituto del cosiddetto "cumulo giuridico" tra sanzioni nella sola ipotesi di concorso formale (omogeneo od eterogeneo) tra le violazioni contestate – in cui con un’unica azione od omissione sono commesse violazioni plurime – non è, invece, invocabile con riferimento alla diversa ipotesi di concorso materiale – in cui una pluralità di violazioni è commessa con più azioni od omissioni -, atteso che la norma prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza e che non è applicabile in via analogica l’art. 81 cod. pen., stante la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo, anche alla luce del diverso atteggiarsi dei profili soggettivi relativi alle due tipologie di illecito (Cass. civ. Sez. lavoro Sent. 6 ottobre 2008, n. 24655).

È anche possibile ipotizzare che tali comportamenti siano effettivamente riconducibili ad una unitaria strategia aziendale e derivino da una unitaria decisione imprenditoriale. Ma ciò non impedisce affatto di riscontrare la pluralità dei fatti e delle correlate sanzioni applicate da AGCOM.

Pertanto, nel caso di specie, non può trovare applicazione il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sezione VI, 10 gennaio 2007, n. 26, secondo cui, ai fini della configurazione unitaria, o meno, delle condotte sanzionate secondo la legislazione speciale in materia di tutela della concorrenza occorre considerare la normale complessità, in termini ideativi e organizzativi, delle azioni imprenditoriali capaci, per dimensioni e portata, di produrre effetti sui mercati, e quindi deve ragionevolmente intendersi come "strategia d’impresa".

5. Con un secondo mezzo di impugnazione, l’appellante contesta la pronuncia del TAR, nella parte in cui ha giudicato inammissibili le censure articolate attraverso la memoria depositata il 30 giugno 2008. Al proposito, L. sostiene che tale memoria si è limitata a sviluppare e precisare le censure già ritualmente esposte nell’atto introduttivo del giudizio, con particolare riguardo all’asserito difetto di istruttoria e al difetto di legittimazione passiva, in quanto impresa straniera che non offre servizi di comunicazione elettronica in Italia, ai sensi del codice delle comunicazioni.

6. Il motivo è infondato.

Il ricorso di primo grado non contiene alcun riferimento a questi profili di illegittimità, articolandosi in quattro distinti gruppi di censura, riguardanti rispettivamente:

I) la mancata notificazione degli atti di contestazione e dei relativi verbali di accertamento;

II) la violazione dei principi in materia di cumulo giuridico tra sanzioni;

III) il difetto di motivazione in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito contestato;

IV) la violazione delle regole in materia di termini massimi per la conclusione del procedimento.

Nessuna di queste censure contiene riferimenti, ancorché meramente induttivi o indiretti, agli ulteriori profili di illegittimità prospettati tardivamente e irritualmente con la memoria di discussione presentata al TAR.

A tale scopo, infatti, non può reputarsi idoneo il riferimento, del tutto generico, contenuto nella rubrica del primo mezzo di ricorso, alla "violazione dei principi generali in materia di sanzioni amministrative – eccesso di potere sotto il profilo del difetto dei presupposti – eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria – eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità, della irragionevolezza e della carenza di motivazione". Infatti, tale formula non potrebbe essere utilizzata per articolare una vera e propria "censura in bianco", da riempire, successivamente, attraverso la deduzione di specifici vizi del procedimento sanzionatorio, perfettamente conoscibili dalla ricorrente già al momento della notificazione del ricorso di primo grado.

7. Per le stesse ragioni, sono inammissibili anche le censure, proposte per la prima volta in appello, con cui la società contesta la sussistenza materiale dell’illecito (p. 14 dell’atto di appello).

8. In definitiva, quindi, l’appello deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

Respinge l’appello.

Condanna l’appellante a rimborsare all’amministrazione appellata le spese di lite, liquidandole in euro tremila.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-06-2011, n. 13574 Licenziamento disciplinare per giusta causa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 414/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Grosseto accoglieva la domanda avanzata da G.M. contro l’Amministrazione Provinciale di Grosseto ed annullava il licenziamento con preavviso intimato il 16-7-2002. In particolare il Giudice riteneva generica la contestazione disciplinare, rilevando il difetto di prova sui presupposti previsti dal CCNL per la sanzione espulsiva.

Avverso la detta sentenza l’Amministrazione proponeva appello censurando la pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto generica la contestazione e non aveva considerato che, in sede di procedimento disciplinare, il dipendente aveva ammesso l’addebito.

Il G. si costituiva resistendo al gravame di controparte e proponendo appello incidentale avverso il capo di sentenza che aveva negato il diritto al risarcimento (anche) del danno biologico.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza depositata il 15-5-2007, in accoglimento dell’appello principale, rigettava la domanda del G., così rigettando conseguentemente anche l’appello incidentale.

In sintesi la Corte territoriale riteneva senz’altro esaustiva e specifica la contestazione con riferimento al primo addebito (in sostanza quello di "aver fatto uso di documentazione a firma non autentica" concernente "impegni di spesa a carico del datore di lavoro per trasferte ed altro", senza che fosse propriamente attribuita "al G. la materiale falsificazione" – "ancorchè la destinazione a suo evidente vantaggio economico" autorizzasse "deduzioni presuntive in tal senso" -) ed affermava che tale circostanza, che doveva considerarsi "un fatto definitivamente acquisito alla causa perchè ammesso dal dipendente", era, per la sua gravità, da sola sufficiente a giustificare il licenziamento.

Per la cassazione di tale sentenza il G. ha proposto ricorso con quattro motivi, corredati dai relativi quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis.

La Amministrazione Provinciale di Grosseto ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, in sostanza lamenta che la Corte di merito "ha valutato legittimo il licenziamento sulla scorta di un fatto (l’aver utilizzato i documenti in questione) che non era stato in realtà contestato al lavoratore e rispetto al quale non aveva dunque potuto difendersi".

In particolare il ricorrente deduce che il primo addebito contenuto nella lettera di contestazione, consisteva nel fatto che "a seguito di controlli effettuati relativamente alle presenze e missioni, il Responsabile del Servizio Formazione Professionale aveva "riscontrato la non autenticità della sua firma su documenti che riguardavano" il G. "relativi al periodo settembre 2001-aprile 2002 (mod. 1 mod.

2 ed indennità spese)". Pertanto, secondo il ricorrente, non rispondeva a verità la circostanza che fosse stata contestata chiaramente la utilizzazione dei documenti in questione, di guisa che esso ricorrente neppure aveva potuto prendere una "precisa posizione difensiva", stante l’incertezza della formale contestazione.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato, "il requisito della specificità della previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, non è integrato dalla certezza dei fatti addebitati ma dalla idoneità della contestazione a realizzare il risultato perseguito dalla legge ossia a consentire al lavoratore una puntuale difesa, ed a tal fine si richiede soltanto che la contestazione individui i fatti addebitati con sufficiente precisione, anche se sinteticamente, per modo che non risulti incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi" (v. Cass. 23-1-1998 n. 624, Cass. 15-6-1999 n. 5975, Cass. 28-12-1999 n. 14619, Cass. 14-12- 2002 n. 17932). In particolare, come pure è stato affermato "il carattere della specificità è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c." e "l’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito" (v. Cass. 30-3-2006 n. 7546, Cass. 3-2-2003 n. 1562).

Nello stesso quadro è stato poi chiarito che "in tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, occorrendo verificare se tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore" (v. Cass. 25-8-1993 n. 8956) ed in particolare è stato anche precisato che all’uopo non assumono rilevanza circostanze confermative in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre (v. Cass. 12-3-2010 n. 6091) o modificazioni che non configurino elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare (v. Cass. 13-6-2005 n. 12644).

A tali principi, che vanno qui ribaditi, la impugnata sentenza si è attenuta, da un lato accertando che nella sostanza il fatto contestato al G. non è andato al di là della circostanza di aver "fatto uso" dei documenti in oggetto a firma non autentica (circostanza chiaramente implicita nel dato formalmente contestato del riscontro circa la non autenticità della firma del responsabile nei documenti stessi utilizzati dal lavoratore) e dall’altro giudicando sufficientemente specifici gli elementi di fatto indicati nella contestazione, con motivazione congrua e priva di vizi logici (fondata sulla chiara enunciazione del fatto e delle date di riferimento in dettaglio dei singoli documenti, nonchè delle ragioni per le quali la non autenticità della firma poteva ricavarsi sulla base dei criteri oggettivi indicati).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione nella misura in cui la Corte territoriale "ha ritenuto provato il fatto giustificativo del licenziamento sulla scorta di presunte "ammissioni" del lavoratore", contenute nella lettera di giustificazioni, sempre negate dalla difesa dello stesso ricorrente, nonchè "in virtù della dichiarazione resa dal ricorrente, in sede di giudizio cautelare, circa la sussistenza di una "prassi comune" al riguardo, ed in particolare lamenta una "errata valutazione degli elementi probatori, che ha condotto a ritenere acquisita una prova che, in realtà, non lo era affatto".

Il motivo risulta inammissibile sia perchè, in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso, non viene riportato il contenuto nè della lettera di giustificazione nè della dichiarazione in sede di giudizio cautelare, sia perchè, attraverso un asserito vizio di motivazione, in sostanza si sollecita un riesame del merito inammissibile in questa sede.

In proposito ripetutamente questa Corte ha affermato il principio secondo cui "il ricorrente che denuncia sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto" (v. fra le altre Cass. sez. 1^ 17-7-2007 n. 15952, Cass. 20-2-2003 n. 2527, Cass. 25-8- 2003 n. 12468, Cass. sez. 3^ 20-10-2005 n. 2032, da ultimo cfr. anche Cass. 30-7-2010 n. 17915), essendo "necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti" (v. Cass. sez. 3^ 24-5-2006 n. 12362, Cass. sez. 3^ 26-6-2007 n. 14751, Cass. sez. Ili 26-6-2007 n. 14767).

La censura si risolve, poi, in una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio", non sussumibile nel "controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5 " (v., fra le altre, Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

Del resto la motivazione dell’impugnata sentenza, sul punto, appare senz’altro congrua, anche in ordine alla inattendibilità della "ricostruzione" offerta dall’appellato (in specie circa la pretesa non riferibilità delle ammissioni al primo addebito, in esame).

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, prima parte, e degli artt. 23-25 del c.c.n.L comparto Regioni Enti Locali del 6-7-1995, lamenta che la sentenza impugnata erroneamente avrebbe "qualificato come giustificato motivo soggettivo di licenziamento la mera utilizzazione di un documento interessante il lavoratore, e recante una firma non autentica, oltretutto senza valutare la colpevolezza soggettiva imputabile al dipendente nel concreto contesto lavorativo".

In sostanza secondo il ricorrente la Corte di merito non avrebbe adeguatamente valutato "la valenza disciplinare che il fatto addebitato al dipendente rivestiva nell’ambito del concreto contesto lavorativo", "e ciò, in particolare, ai fini della valutazione sull’elemento soggettivo della condotta del lavoratore, che è indispensabile…per ritenere integrata la fattispecie" del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, tanto più "nel caso di un tipo di addebito non contemplato dal c.c.n.l. quale illecito meritevole di una sanzione non conservativa".

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, "in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso -istituzionalmente rimesso al giudice del merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente L. n. 604 del 1966, ex art. 5 deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all’art. 1455 cod. civ., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto" (v.

Cass. 14-1-2003 n. 444, Cass. 25-2-2005 n. 3994, Cass. 16-5-2006 n. 11430, Cass. 24-7-2006 n. 16864, Cass. 10-12-2007 n. 25743, Cass. 22- 3-2010 n. 6848).

Al riguardo, peraltro, l’elencazione dei casi contenuta nel codice disciplinare di cui al ccnl ha valore soltanto esemplificativo, costituendo le relative indicazioni meri parametri di giudizio (cfr.

Cass. 14-2-2005 n. 2906, Cass. 22-12-2006 n. 27464).

Nella fattispecie la Corte di merito, premesso che "la gravità del fatto, ancorchè non descritto in sede di ccnl, è affidata alla valutazione giudiziale", ha rilevato che " – al di là di ogni discutibile conseguenza patrimoniale derivante dallo svolgimento effettivo delle attività comportanti esborsi a carico del datore di lavoro – la particolare gravità dell’inadempimento contrattuale si ricava dall’oggettivo riflesso che il comportamento attribuito al G. ha sia sul rapporto fiduciario (tenuto conto delle mansioni affidate e dell’elevato grado di professionalità) sia sul piano della corretta organizzazione del lavoro, non essendo in contestazione che le autorizzazioni in questione dovessero essere approvate (e firmate) dal Responsabile del Servizio; il che significa, più semplicemente, che, anche in assenza di una prova sulla esistenza di una prassi derogatoria tollerata dal datore di lavoro, è sicuramente un grave inadempimento contrattuale omettere tale approvazione avente un contenuto, oltre che di controllo della spesa, anche di effettivo riscontro della necessità della singola operazione".

Tale motivazione, incentrata su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme ai principi sopra richiamati nonchè congrua e priva di vizi logici e resiste alla censura del ricorrente.

Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando nullità del procedimento, in sostanza lamenta che la Corte d’Appello ha fondato la decisione "sulla presunta valenza confessoria", "già negata dal giudice di prima istanza", delle dichiarazioni da lui rese, tra l’altro, in sede di interrogatorio nel giudizio ex art. 700 c.p.c., non avendo "mai preso visione diretta di tali dichiarazioni", non essendo mai stato acquisito il fascicolo d’ufficio contenente i verbali di udienza del giudizio cautelare.

Anche tale motivo non può essere accolto.

Come più volte è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito "l’acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice dell’impugnazione, sicchè l’omessa acquisizione, cui non consegue un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili "aliunde" e specificamente indicati dalla parte interessata" (v. Cass. 19-1-2010 n. 688, Cass. 23-11-2007 n. 24437).

Orbene il ricorrente non indica specificamente quali elementi decisivi, contenuti nelle dette dichiarazioni, sarebbero stati trascurati dalla Corte di merito, e a ben vedere sollecita semplicemente, una diversa lettura delle stesse, che, comunque, per nulla smentisce l’avvenuto utilizzo da parte del G. dei documenti de quibus, con firma non autentica del responsabile del servizio.

Del resto è tale utilizzo (risultato in sostanza pacifico) che è stato ritenuto giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a prescindere dalla provenienza della falsificazione della firma del responsabile, che non è stata oggetto della contestazione disciplinare.

Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese in favore della controricorrente.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla controricorrente le spese, liquidate in Euro 39,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 5 maggio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 08-03-2011) 15-04-2011, n. 15450

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 31 marzo 2010 il Tribunale di Pordenone ha condannato D.V.M. alla pena di Euro 600 di ammenda, siccome ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 81, 660 c.p. (avere in più occasioni arrecato molestie ai coniugi D.B. S. e R.G., suoi vicini di casa, posizionandosi su di un terrazzo posto a brevissima distanza dall’appartamento abitato dai predetti, scrutando in continuazione all’interno di esso, che aveva cinque finestre prospicienti su detto terrazzo, in tal modo costringendo le parti offese a tirare i tendaggi ed ad accendere la luce anche in pieno giorno per proteggersi dalla sua intrusione; per avere altresì fatto gesti con la bocca e con le mani a titolo beffardo, in tal modo arrecando fastidio alle parti offese, da lui altresì apostrofate con frasi irridenti, sghignazzi e fischi, quando erano da lui incontrate sulle scale dell’edificio ovvero sulla pubblica via).

2. Il Tribunale ha ritenuto provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli, avendo valorizzato le deposizioni rese dalle parti offese ed avendo rilevato come le dichiarazioni rese da queste ultime erano state altresì confermate dagli stessi due testi introdotti dall’imputato.

3. Avverso detta sentenza D.V.M. propone ricorso per cassazione per il tramite del suo difensore, che ha dedotto:

a)- inosservanza di norme processuali, in quanto l’udienza dell’8 marzo 2010 era stata tenuta dal Tribunale nonostante che il proprio difensore di fiducia, per il tramite di un sostituto nominato allo scopo, avesse chiesto un differimento dell’udienza per un proprio impedimento consistito nel suo stato influenzale, opportunamente documentato da certificazione medica; nonostante tale richiesta il Tribunale aveva ritenuto di procedere oltre nel dibattimento, assumendo le deposizioni dei testi indicati dal pubblico ministero e dalla parte civile e nonostante che il proprio difensore di fiducia non avesse potuto esercitare il proprio mandato difensionale;

b)- travisamento dei fatti e manifesta illogicità della motivazione, in quanto la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti si era basata sulla sola testimonianza resa dalle parti offese, senza che fosse tenuto nel debito conto quanto riferito dai testi da lui indotti, D.V.F. e C.L., nonchè dal teste D.B., ispettore di polizia; in particolare quest’ultimo teste aveva rilevato come diverse persone frequentavano il terrazzo, dal quale si sarebbe affacciato esso ricorrente e che dall’esame delle riprese video effettuate dalle stesse parti offese il teste non aveva desunto che esso ricorrente avesse posto in essere gesti od altri atti all’indirizzo delle patti offese; il Tribunale poi neppure aveva tenuto nella debito conto i contrasti che da tempo sussistevano fra le parti offese e la famiglia di esso ricorrente, tali da inficiare la genuinità delle dichiarazioni rese dalle prime;

dagli elementi acquisiti in corso di causa, era emerso che la terrazza, su cui esso ricorrente si trovava, era visibile soltanto da coloro che abitavano nello stabile frontistante; che trattavasi di terrazza che non costituiva oggetto di proprietà comune fra esso ricorrente e le parti offese, atteso che soltanto i proprietari degli appartamenti siti al primo ed al secondo piano dello stabile avevano diritto di accedervi; si che trattavasi di un luogo privato, con conseguente non ravvisabilità nella specie del reato previsto dall’art. 660 c.p., per mancanza del requisito della pubblicità del luogo.
Motivi della decisione

1. E’ infondato il motivo di ricorso proposto da D.V.M. sub a). Non sussiste invero la dedotta nullità del giudizio di primo grado, per essersi l’udienza dell’8 marzo 2010 svolta, sebbene il difensore di fiducia del ricorrente avesse chiesto un rinvio per motivi di salute.

Dall’esame degli atti emerge invero come il Tribunale abbia adeguatamente motivato il diniego di rinviare l’udienza, avendo rilevato come la certificazione prodotta dal difensore di fiducia del ricorrente non fosse idonea a provare un assoluto suo impedimento ad essere presente, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, riferendo il certificato medico da lui prodotto solo di una sindrome influenzale del difensore, senza neppure indicare il grado di temperatura del medesimo (cfr., in termini, Cass Sez. 5, 20/09/2005 n. 35170, dep. 30/09/2005, imp. Ornaghi, Rv. 232568).

Va inoltre ritenuto che il difensore di fiducia dell’imputato è stato regolarmente presente alla successiva udienza del 31 marzo 2010, nel corso della quale è stata pronunciata la sentenza, in tal modo mostrando di avere fatto acquiescenza al diniego di rinvio della precedente udienza, non emergendo dal relativo verbale di udienza che il medesimo abbia fatto constare alcuna sua riserva in ordine al diniego di rinvio disposto dal Tribunale nella precedente udienza.

2. E’ altresì infondato al limite della inammissibilità il motivo di ricorso proposto dal ricorrente sub b).

Esso contiene invero censure improponibili nella presente sede di legittimità, siccome riferite al merito della controversia, avendo esse ad oggetto la valutazione delle deposizioni rese dai testi escussi nel corso del giudizio di primo grado; in tal modo il ricorrente si è fatto promotore di una qualificazione dei fatti alternativa rispetto a quella ritenuta dal primo giudice. Questa Corte di legittimità è tenuta al contrario a valutare esclusivamente se la motivazione addotta dal primo giudice per ritenere la penale responsabilità del ricorrente sia o meno conforme ai principi della logica e della non contraddizione; e sotto tale aspetto la sentenza impugnata è pienamente condivisibile, avendo essa fondato la declaratoria di penale responsabilità del D. V. sulle concordi e convergenti deposizioni rese dalle parti offese D.B.S. e R.G., ritenute credibili anche perchè indirettamente confermate dalle stesse dichiarazioni rese dai testi indotti dal ricorrente e cioè dai suoi genitori D.V.F. e C.L..

Non è poi idonea a scriminare la condotta del ricorrente la circostanza che fra la famiglia di quest’ultimo e le parti offese fossero insorte nel passato delle liti connesse proprio alla utilizzazione della terrazza, dalla quale esso ricorrente aveva posto in essere il comportamento sanzionato.

3. E’ infine infondato il motivo di ricorso proposto da D.V. M. sub c).

Con esso il ricorrente ha sostenuto che, essendo la terrazza dalla quale egli avrebbe posto in essere il comportamento penalmente sanzionato di proprietà esclusiva dei condomini proprietari degli appartamenti siti al primo ed al secondo piano dello stabile, mancava uno degli elementi indispensabili per aversi reato in esame e cioè che le molestie fossero state poste in essere in un luogo pubblico o aperto al pubblico.

Al riguardo la sentenza impugnata, con motivazione incensurabile nella presente sede, siccome conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, ha specificato come la terrazza in questione si trovasse al piano ammezzato fra il primo piano, dove era ubicato l’appartamento delle odierne parti offese ed il secondo piano, dove era ubicato l’appartamento del ricorrente e che ad essa si accedeva attraverso un’apertura del comune vano scale condominiale, sicchè la terrazza in questione ben poteva qualificarsi come luogo aperto alla generalità dei condomini.

4. Il ricorso proposta da D.V.M. va pertanto respinto, con sua condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 03-05-2011, n. 3826 Sanità e igiene

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società ricorrente, premessa l’esposizione dell’evoluzione legislativa che ha caratterizzato il sistema del finanziamento e delle remunerazioni delle prestazioni erogate dai soggetti accreditati, impugnava, con riferimento al settore di interesse relativo alle prestazioni di riabilitazione, la delibera sopra evidenziata, deducendo i seguenti motivi di gravame:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 13, l. reg. Lazio n. 4 del 2003 e dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 502 del 30.12.1992 e s.m.i., eccesso di potere, illogicità manifesta, carenza di motivazione, difetto di istruttoria;

2 – violazione del principio di irretroattività degli effetti dell’atto amministrativo, dei principi generali di affidamento e buona fede;

3 – illegittima attribuzione di un budget massimo di fatturato, violazione del principio di irretroattività dell’efficacia dell’atto amministrativo, violazione dei principi generali di affidamento e buona fede, violazione dell’art. 8, d.lgs. n. 502 del 1992 e della l. reg. Lazio n. 4 del 2003, eccesso di potere, carenza assoluta di motivazione e di istruttoria, irragionevolezza ed illogicità manifeste;

4 – violazione degli artt. 32 e 41 Cost. e carenza assoluta di motivazione;

5 – violazione e falsa applicazione degli artt. 8 quinquies e sexies, d.lgs. n. 502 del 1992 e degli artt. 13 e 19, l.reg. Lazio n. 4 del 2003, eccesso di potere ed indebito arricchimento.

Pertanto, la ricorrente chiedeva l’annullamento della delibera n. 436 cit. e delle successive determina e nota che precisavano la decorrenza delle tariffe determinate con la delibera 436 e l’attribuzione della produzione effettuata nei budget assegnati con la delibera n. 436.

Si costituiva la Regione chiedendo la reiezione della domanda.

Con memoria depositata per l’udienza di discussione, l’istante precisava l’illegittima riduzione delle tariffe in forza del collocamento della medesima in fascia B.

All’udienza del 9 marzo 2011, la causa era trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1 – Svolte le premesse in fatto, il Collegio ritiene porre in evidenza che la fattispecie in esame riguarda una struttura privata accreditata provvisoriamente, con riferimento alle prestazioni relative alla riabilitazione.

La ricorrente censura per vari motivi di illegittimità la delibera GR Lazio 19.6.2007 n. 436 (definizione sistema remunerazione delle prestazioni ospedaliere e di assistenza specialistico ambulatoriale dei soggetti erogatori per l’anno 2007, allegati 2 e 2 bis), anche con riguardo ai profili di illegittimità derivanti dal richiamo al Decreto del Ministero della Salute in data 12.9.2006.

Al riguardo il Collegio preliminarmente deve rilevare, come ampiamente già esposto in fattispecie analoghe (cfr. sent. n. 39066 del 2010 e da ultimo sent. n. 1197 del 2011), che, nelle more del giudizio, la situazione della disciplina della remunerazione delle prestazioni sanitarie si è evoluta in modo sostanziale: infatti con sentenza TAR Lazio n. 12623/2007 (passata in giudicato) è stato annullato il D. Min. Salute 12.9.2006 nella parte relativa alle tariffe massime per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale a carico del SSN, nonché la delibera GR n. 436/2007, allegato 3 (nella parte in cui recepisce le tariffe ministeriali per la remunerazione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali), così come con sentenza Consiglio di Stato 2.3.2010 n. 1205 (confermando la sentenza 12982/2007 TAR Lazio, 3° quater) il suddetto D. Min. Salute è stato annullato con riferimento alle tariffe riabilitative.

Inoltre, con sentenze 10 agosto 2010 n. 30575 e n. 33374 dell’11 novembre 2010, questa Sezione ha già annullato la citata GR n. 436/2007 (sempre per difetto istruttorio e violazione dell’art. 7 legge n. 241/1990) anche con riferimento alle tariffe massime indicate per acuti (alleg. 1 e 1bis).

Pertanto l’impugnata delibera di GR n. 436/2007, allo stato, risulta già annullata nelle varie disposizioni generali e specifiche sulle tariffe di interesse della ricorrente. Per questa parte, deve dunque, ritenersi sopraggiunto il difetto di interesse al ricorso.

Per economia di mezzi il Collegio assorbe l’esame delle altre censure da cui la ricorrente non trarrebbe ulteriore vantaggio, atteso che il D. Min. Salute 12.9.2006 è stato già annullato con le citate sentenze passate in giudicato.

Per quanto concerne, peraltro, la lamentata riduzione delle tariffe in ragione del collocamento in fascia B della ricorrente, va precisato che non risulta che l’istante abbia censurato il provvedimento che la inseriva in tale classe, risultando, pertanto, cristallizzata la situazione derivante da tale atto presupposto.

2. Dall’intervenuto annullamento della delibera impugnata con riferimento alla disposizioni generali e specifiche consegue, necessariamente – per i medesimi profili di illegittimità derivanti dal difetto istruttorio – l’annullamento in via derivata anche dei vari budget erroneamente assegnati (nei 2 allegati della delibera 436) alla ricorrente medesima in applicazione di tariffe regionali illegittime, dovendo, dunque, procedere la Regione alla rideterminazione dei relativi limiti di budget.

2. Concludendo, quindi, il ricorso va in parte dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse nei sensi e limiti sopraesposti con riferimento all’annullamento della DGR n. 436/2007, mentre va accolto con riferimento agli ulteriori due provvedimenti in parte qua, per illegittimità derivata e con riferimento ai budget relativi alle varie tipologie di prestazioni sanitarie, assegnati alla ricorrente in applicazione delle tariffe regionali annullate.

3. Considerate le caratteristiche dell’iter procedimentale della delibera regionale impugnata e la esigenza di urgenti interventi di contenimento del disavanzo finanziario prodottosi nella gestione del Servizio Sanitario Regione Lazio, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti costituite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo dichiara improcedibile ed in parte lo accoglie, come specificato in motivazione, e, per l’effetto, annulla i budget assegnati alla ricorrente e la nota e la determina impugnate in parte qua. Compensa le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.