Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-12-2011, n. 26301 Indennità o rendita ai superstiti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 18 gennaio 2007 la Corte d’Appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale di Catania del 6 maggio 2004 con la quale è stata rigettata la domanda proposta da C.G. in proprio ed in rappresentanze dei figli minori G.L., G.S. e G.F. ed intesa ad ottenere il riconoscimento della rendita ai superstiti per la morte di G. G. invalido al 100% in conseguenza di infortunio sul lavoro.

La Corte territoriale ha motivato tale decisione sulla base delle risultanze della CTU disposta nel giudizio di appello e che ha confermato le risultanze del giudizio di primo grado, secondo cui le patologie che hanno condotto alla morte del G. sono di origine extra – lavorativa.

La C., nella medesima qualità sopra indicata, propone ricorso per cassazione articolato su due motivi.

Resiste con controricorso l’I.N.A.I.L.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento alle risultanze della CTU recepite dalla Corte d’Appello e che sarebbero carenti e contraddittorie. In particolare si deduce che non sarebbe stato accertato se la siringomielia, causa della morte del G., sia stata determinata dall’infortunio sul lavoro patito, nè sarebbe stato accertato in che misura eventualmente l’infortunio abbia procurato l’aggravamento delle condizioni del G.. Viene inoltre rilevata la contraddittorietà fra l’asserito aggravamento della malattia in epoca successiva all’infortunio, e l’esclusione del nesso causale con l’infortunio stesso.

Con secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del T.U. approvato con D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 79 e 85, e violazione dell’art. 41 cod. pen.. In particolare si deduce che anche l’incidenza sull’aggravamento di una preesistente patologia costituisce contributo causale nella determinazione dell’evento.

Il primo motivo è infondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se, nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v., per tutte, Cass. S.U. 13045/1997). In particolare, nei giudizi per invalidità pensionabili o prestazioni assistenziali e previdenziali, in cui sia stata espletata una consulenza tecnica di ufficio di tipo medico-legale ed il giudice del merito abbia basato la decisione sulle conclusioni dell’ausiliario giudiziario affinchè i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti (v. fra tante: Cass. 25 agosto 2005 n. 17324, Cass. 20 agosto 2004 n. 163292)" (Cass. n. 15652 del 2006). Nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, la Corte d’Appello ha motivatamente affermato l’origine extralavorativa della patologia da cui è derivata la morte del ricorrente basandosi sulla consulenza tecnica d’ufficio in odo logico e compiuto non censurabile, come detto, in questa sede di legittimità.

E’ tuttavia fondato il secondo motivo di ricorso. E’ certamente applicabile il principio di cui all’art. 41 cod. pen., in materia di concorso di cause, per cui anche il semplice aggravamento di una preesistente patologia di origine extralavorativa non esclude il rapporto di causalità fra la causa dell’aggravamento stesso e l’evento morte. Nel caso in esame il CTU, come riferito dalla ricorrente, ha affermato che il trauma cervicale conseguente all’infortunio sul lavoro, ha accelerato ed aggravato le manifestazioni cliniche determinando un ben più grave quadro clinico. Si impone dunque un più attento esame da parte del giudice del merito, al fine di stabilire se tale aggravamento abbia causato una morte apprezzabilmente più rapida rispetto a quanto sarebbe stato senza il concorso causale dei postumi dell’infortunio sul lavoro subito.

La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione, che giudicherà anche sulle spese di tutti i gradi di giudizio.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso; Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta;

Rinvia alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 05-09-2011, n. 4990 Guardie particolari e istituti di vigilanza privata

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Attraverso l’atto di appello in esame (n. 8831/06, notificato il 3 ottobre 2006), la M. s.r.l. impugnava la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, Salerno, n. 208/06 del 22 febbraio 2006 – che non risulta notificata – con la quale veniva respinto il ricorso avverso il decreto prefettizio n. 1698 del 9 giugno 2004, di reiezione dell’istanza di autorizzazione di pubblica sicurezza per la gestione di un istituto di vigilanza privata nel territorio del Comune di Avellino.

Il diniego risultava giustificato con riferimento alla ravvisata sufficienza – per "numero ed importanza" – degli istituti di vigilanza privata già operanti sul territorio interessato, tenuto conto della diffusa presenza sul territorio stesso delle forze dell’ordine, nonché dell’"andamento demografico decrescente", della "situazione stagnante dell’economia" e della "riduzione del fenomeno delittuoso delle rapine", tanto da far ritenere che il rilascio di una ulteriore licenza avrebbe creato turbativa all’ordine e alla sicurezza pubblica.

Nella sentenza si rilevava la rispondenza delle ragioni sopra riportate alla normativa vigente, intesa a conciliare la libertà di iniziativa economica con l’interesse pubblico, a seguito di una valutazione che, nella fattispecie, avrebbe dovuto ritenersi "immune da vizi".

In sede di appello, la M. s.r.l. – interessata ad estendere nel comune di Avellino l’attività di vigilanza privata, già svolta nella provincia di Foggia – sottolineava viceversa di avere condotto "opportune ricerche sull’effettiva sussistenza di un interesse pubblico all’inserimento nel mercato di un nuovo operatore specializzato (…) a fronte dell’esistenza di domanda ancora inevasa" e ribadiva pertanto le proprie censure di violazione o falsa applicazione degli articoli 134 e 136 del T.U.L.P.S. ( r.d. 18 giugno 1931, n. 773), eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, sviamento e illogicità, nonché di violazione dell’art. 41 della Costituzione. La sentenza, inoltre, sarebbe frutto di valutazione superficiale, sintetizzata in poche righe di motivazione, senza alcuna possibilità di riscontro della fondatezza delle ragioni difensive prospettate, con riferimento al principio vigente della libera concorrenza, alla reale tipologia dei servizi offerti (resi solo da due istituti nel comune di Avellino) ed alla possibilità di creare nuovi posti di lavoro.

L’Amministrazione appellata – costituitasi anche nel presente grado di giudizio – resisteva formalmente all’accoglimento del gravame.

Il Collegio ritiene che l’appello meriti accoglimento.

La questione investe i parametri di corretto esercizio della potestà discrezionale dell’amministrazione, per il rilascio delle licenze abilitative allo svolgimento di attività di vigilanza privata, a norma dell’art. 136 r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza).

In base alla disposizione citata, detta licenza poteva essere ricusata a chi non dimostrasse di possedere la "capacità tecnica per i servizi che intende esercitare", ovvero (prima dell’abrogazione del secondo comma della norma citata, ai sensi dell’art. 4 d.l. 8 aprile 2008, n. 59, convertito dalla l. 6 giugno 2008, n. 101) "in considerazione del numero o della importanza degli istituti già esistenti", o ancora (disposizione, quest’ultima, contenuta nel quarto comma della norma stessa dell’art. 136 e non abrogata) "per ragioni di sicurezza o di ordine pubblico".

In presenza dei lati margini di discrezionalità esistenti alla data di emanazione del provvedimento impugnato (vale a dire, prima della ricordata parziale abrogazione), l’Amministrazione era tenuta ad effettuare un adeguato bilanciamento di interessi fra le strette esigenze di ordine pubblico, connesse ad attività che riguardano la protezione di persone e di beni, e gli interessi economici della singola impresa, attinenti alla libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 della ostituzione.

La questione appare in realtà legata a parametri variabili di volta in volta e comunque di non facile individuazione, cui poter ancorare il giudizio di legittimità, con inevitabile necessità di valutazioni "caso per caso".

Non va infatti ignorato – in conformità alla prevalente giurisprudenza – come l’affidamento a privati di compiti, di ordinaria competenza dei corpi di polizia, abbia di suo carattere eccezionale, con conseguente rigorosità dei criteri per il rilascio delle autorizzazioni, giacché è evidente la conseguenza negativa sul livello di efficienza di un tale importante servizio che può essere generata dall’eccesso di offerta privata (per tacere del rischio di condotte distorsive). I dinieghi tuttavia, in quanto incidono sulla libertà di iniziativa economica, necessariamente debbono giustificare in modo adeguato la restrizione di quella sfera di libertà costituzionalmente garantita: perciò debbono indicare, con sufficiente specificazione, le ragioni per le quali quell’interesse potrebbe risultare danneggiato dal rilascio dalla nuova licenza. Il che postula l’individuazione – territorio per territorio – di un concreto punto di equilibrio, al di là del quale l’aumento di concorrenza cesserebbe di alimentare migliori condizioni e più agevole fruibilità del servizio, per diventare fonte di quelle negatività, oltre che di eccessivo contenimento dei costi, di difficoltà di controllo e di rischio di violazione delle regole, con conseguente rischio per l’ordine e la sicurezza pubblica (cfr. in tal senso Cons. Stato, VI, 29 gennaio 2007, n. 336, 4 settembre 2007, n. 4624, 7 giugno 2006, n. 3433, 16 gennaio 2006, n. 74, 20 aprile 2006, n. 2197, 9 febbraio 2006, n. 508; IV, 28 ottobre 1999, n. 1643, 27 settembre 1991, n. 737, 4 maggio 1988, n. 369, 20 maggio 1987, n. 307).

Vanno anche considerati – come indica la più recente giurisprudenza, il numero degli istituti, delle guardie e dei sistemi di vigilanza esistenti, e va compiuta una valutazione riferita alla singola autorizzazione, sotto il profilo del concreto turbamento che potrebbe determinare per l’ordine pubblico, per l’effetto di eccesso di concorrenza (Cons. Stato, VI, 29 aprile 2008, n. 1916, 8 maggio 2008, n. 2118, 4 agosto 2008, n. 3875 e 11 novembre 2008, n. 5599). Si tratta di una valutazione prognostica necessaria per evitare che da scelte amministrative derivi una sostanziale chiusura del mercato e dunque un oligopolio, che di suo è non compatibile con l’ordinamento comunitario.

Nella situazione qui in esame le ragioni – in precedenza riportate – poste a base del diniego impugnato, pur espressive di ragionevoli preoccupazioni dell’Amministrazione, non forniscono un adeguato riscontro – alla luce degli indicati parametri – per il rigetto dell’istanza, perché determinano non solo limiti, ma una immotivata preclusione generalizzata all’esercizio ulteriore dell’attività di vigilanza privata.

Quanto al necessario rispetto di parametri di efficienza e sicurezza del servizio, l’Amministrazione avrebbe potuto prevedere criteri oggettivi e predeterminati, idonei ad assicurare un accurato quanto rigoroso riscontro di idoneità, dimensioni, strumentazione, capacità operativa, moralità ed affidabilità dei nuovi istituti di vigilanza, senza invece spingersi a determinare una assoluta chiusura a priori, indipendentemente dai requisiti e dal progetto operativo del singolo.

Si debbono dunque condividere le argomentazioni dell’appellante società, riferite ad "omesso scrutinio della tipologia di servizi offerti da M. (…) e dei vantaggi che la professionalità dell’odierna appellante avrebbe potuto assicurare nel territorio campano", con specifico riferimento al territorio di Avellino.

Pertanto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo e fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione. Le spese giudiziali, da porre a carico della parte soccombente, vengono liquidate nella misura di Euro. 3.000,00 (euro tremila/00).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello specificato in epigrafe e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla il decreto prefettizio n. 1698 del 9 giugno 2004. Condanna l’Ufficio Territoriale del Governo – Prefettura di Avellino – al pagamento delle spese processuali, nella misura di Euro. 3.000,00 (euro tremila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 30-09-2011, n. 760 Carenza di interesse sopravvenuta

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Svolgimento del processo

Con il presente ricorso si chiede l’annullamento del silenzio formatosi sull’istanza di emersione da lavoro irregolare presentata dal ricorrente in data 30 settembre 2009 con la domanda n. LT3301433061.

Nell’udienza camerale odierna il ricorso è trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

Il ricorso va dichiarato improcedibile. Avendo, infatti, l’Amministrazione, nelle more del giudizio, provveduto a convocare il ricorrente per la trattazione della pratica di emersione, (come risulta dagli atti di causa oltreché dalla dichiarazione resa a verbale dal difensore del ricorrente) è venuto a mancare l’interesse del ricorrente alla prosecuzione del giudizio.

Il ricorso va pertanto dichiarato improcedibile.

Le spese di lite sono poste a carico dell’Amministrazione e liquidate in Euro. 1.000.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite che liquida in E. 1.000.
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Cass. civ. Sez. I, Sent., 17-02-2012, n. 2333 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

La Corte:

che L.A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi avverso il provvedimento della Corte d’appello di Potenza, depositato il 10.11.09, con cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze veniva condannata ex lege n. 89 del 2001, al pagamento di un indennizzo di Euro 3000,00 per l’eccessivo protrarsi di un processo svoltosi innanzi alla Corte dei Conti Basilicata;

che il Ministero non ha resistito con controricorso;

che la Corte in camera di consiglio ha optato per la motivazione semplificata.

OSSERVA

Motivi della decisione

Con i quattro motivi di ricorso il ricorrente lamenta sotto diversi profili che la Corte d’appello, a fronte di una eccessiva durata del processo di anni 29 anni, abbia liquidato la somma complessiva di Euro 3000,00 discostandosi dai parametri Cedu.

I motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente e gli stessi sono fondati.

Invero questa Corte di Cassazione ha già precisato che l’interpretazione della CEDU è di competenza della Corte CEDU sicchè alla giurisprudenza da questa elaborata il giudice nazionale deve fare riferimento, potendosene discostare, solo in presenza di particolari circostanze (Cass. civ. 30.09.2004 n 19638; Cass. civ. SS.UU. 26.12.04 n 1339) quali, ad esempio, la modestia della cosiddetta posta in gioco o l’inerzia della parte che non abbia presentato istanze sollecitatorie del processo.

Nella specie la Corte d’appello, pur avendo accertato un ritardo irragionevole di 29 anni, ha poi liquidato per tale periodo,tenuto conto della mancata presentazione di istanze di prelievo solo Euro 3000,00 discostandosi notevolmente ed immotivatamente dai parametri della CEDU (Cass. 21597/05).

Le censure vanno, pertanto, accolte con conseguente condanna dell’Amministrazione al pagamento della somma di Euro 14.500,00 sulla base dei parametri Cedu (tenuto conto della mancata presentazione dell’istanza di prelievo) e di un periodo di eccessiva durata di anni ventinove.

Pertanto il ricorso va accolto per quanto di ragione con conseguente cassazione del decreto impugnato in relazione alla censura accolta e, sussistendo i presupposti di cui all’art. 384 c.p.c., la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Ministero al pagamento dell’equo indennizzo liquidato in Euro 14.500,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo nonchè al pagamento delle spese di giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato in ragione della censura accolta e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia al pagamento della somma di Euro 14.500,00 in favore del ricorrente oltre interessi legali dalla domanda al saldo nonchè al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 850,00 per onorari oltre Euro 100,00 per esborsi ed oltre spese generali ed accessori di legge nonchè al pagamento delle spese del giudizio di merito liquidate in Euro 800,00 per onorari, Euro 500,00 per diritti ed Euro 50,00 per spese con aggiunta sia per la fase di legittimità che di merito delle spese generali e degli accessori di legge.

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