Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-03-2012, n. 4614 Rovina e difetti dell’immobile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 9.3.96 G.D., P.N. e S.D., proprietari di altrettanti immobili realizzati da una cooperativa nel Comune di Dipignano e costruiti in appalto dall’impresa individuale di Sb.Lu., su progetto dell’ing. V.F.A. e sotto la direzione dei lavori dell’ing. L.C., citarono l’appaltatore ed i due professionisti al giudizio del Tribunale di Cosenza al fine di sentirli dichiarare responsabili dei gravi difetti, per dissesti statici manifestatisi nei fabbricati e già accertati in un precedente procedimento cautelare, e condannarli al risarcimento dei conseguenti danni. Si costituirono il V. ed il L., ciascuno contestando la domanda. All’esito dell’istruttoria documentale e della consulenza tecnica di ufficio, nella contumacia dello Sb., con sentenza n. 914 del 1999 l’adito Tribunale accolse la domanda, condannando i convenuti al risarcimento dei danni, in misura di L. 145.000.000, oltre alle spese. I due ingegneri proposero distinti appelli, cui resistettero il G. ed il P., riuniti i quali, con sentenza del 29.12.09-19.2.10, nella contumacia dello S., la Corte di Catanzaro respinse il gravame del V. ed accolse quello del L..

I giudici di appello, mentre ritenevano quest’ultimo esente da responsabilità per essere i dissesti attribuibili esclusivamente a vizi originari del progetto, non manifestatisi nel corso dei lavori diretti da tale appellante, confermavano invece, sulla scorta delle espletate consulenze tecniche, la sussistenza della negligenza professionale del progettista, ritenendo che i gravi inconvenienti in seguito manifestatisi negli immobili, conseguenti a cedimenti del suolo e non ad altre cause, fossero essenzialmente da ascrivere a carenze progettuali, segnatamente per inadeguatezza delle fondazioni e per non aver tenuto conto della particolare natura e consistenza del terreno, caratterizzato da particolare deformabilità. A tal riguardo veniva osservato che al progetto, risultava allegata, anzichè la prescritta relazione geologica, da ritenersi necessaria ai sensi del DM. 21 gennaio 1981 in considerazione della non modesta entità dell’intervento (prevedente dieci villette a schiera su tre piani e sottotetto, in cemento armato), una semplice relazione geotecnica, non contenente, tuttavia, alcuna indicazione delle concrete indagini eseguite e dei dati raccolti circa la natura del terreno e, peraltro, indicante un "profilo stratigrafico" smentito, così come quello indicato nella seconda relazione allegata al progetto di variante, dai dati successivamente acquisiti, nel corso delle indagini diagnostiche in sito eseguite nel 1996.

La Corte riteneva, poi, irrilevante la circostanza che il V. non avesse partecipato al giudizio cautelare, attesa l’autonomia di quello di merito, disattendeva l’eccezione di carenza di legittimazione del suddetto, essendo risultata dal medesimo firmata, quale progettista, tutta la documentazione riguardante sia il progetto originario, sia quello in variante, e riteneva la responsabilità del professionista, venuto meno all’obbligo di diligenza prescritto dall’art. 1176 c.c., non esclusa, ma concorrente con quella ex art. 1669 c.c. dell’appaltatore.

Avverso la suddetta sentenza il V. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Hanno resistito con comune controricorso il G. ed il P..

Gli altri intimati, L. e S., non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso vengono dedotti violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1669 e 2236 c.c. e vizi della motivazione, censurandosi l’affermazione da parte della corte di merito della responsabilità del progettista delle opere, in concorso con l’appaltatore, per inosservanza della diligenza prescritta dall’art. 1176 c.c., ravvisata nel non aver richiesto "a colui che gli ha conferito l’incarico (committente o appaltatore) una adeguata indagine sulla natura e consistenza del terreno". Tale affermazione, "illogica e viziata", sì porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’indagine sulla natura e consistenza del suolo edificatorio, in mancanza di diversa previsione contrattuale, rientrerebbe tra i compiti dell’appaltatore, implicando attività conoscitiva da svolgersi con l’uso di particolari mezzi tecnici, al medesimo competente, in quanto contrattualmente tenuto ad adottare tutte le misure e cautele necessarie ed idonee per l’esecuzione della prestazione, mettendo a disposizione la propria organizzazione di mezzi, perchè l’opera risulti immune da vizi e difformità. Nel caso di specie il contratto di appalto, successivo alla redazione del progetto, avrebbe espressamente previsto che le indagini geologiche fossero compiute dall’appaltatore, la cui responsabilità al riguardo avrebbe escluso quella del progettista, tanto più considerando divertendosi in ipotesi di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il parametro valutativo non sarebbe stato quello dell’ordinaria diligenza previsto dall’art. 1176, bensì quello del dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c.. Le censure sono infondate, richiamando principi giurisprudenziali che, nell’affermare in casi del genere di quello in esame la responsabilità ex art. 1669 c.c. dell’appaltatore, non ne hanno tuttavia anche ritenuta l’esclusività, nelle ipotesi in cui – come nel caso di specie risulta da accertamento di fatto incensurabile sorretto da più che esaustiva motivazione – i vizi di costruzione rinvengano la loro origine in carenze progettuali. In tali casi la costante giurisprudenza di questa Corte ha soltanto affermato che l’appaltatore, fatte salve le ipotesi contrattuali in cui abbia operato quale nudus minister, è tenuto a rilevare egli stesso le carenze del progetto ed a segnalarle al committente, il che tuttavia non comporta che l’omissione di tale sindacato elida la preesistente responsabilità del progettista, configurandosi al riguardo una ipotesi di concorso nell’illecito di cui all’art. 1669 c.c.; sicchè irrilevante è la circostanza (che peraltro non risulta essere stata dedotta anche in sede di merito) secondo cui nel contratto di appalto de qua sarebbero state espressamente previsti sondaggi geologici a carico dell’impresa, mentre la dedotta anteriorità cronologica del progetto rispetto al contratto di appalto non è di alcun apporto alla tesi sostenutala anzi milita in senso opposto. Quanto, infine, al parametro valutativo della colpa professionale, che andrebbe individuato nell’art. 2236 e non nell’art. 1176 c.c., la questione sollevata, per quanto consta, soltanto in questa sede, ancor prima che inammissibile, perchè involgente valutazioni di merito circa la dedotta "speciale difficoltà" (peraltro del tutto inconfigurabile nel contesto di un intervento edilizio, che come risulta dalla sentenza di merito, non risultava particolarmente impegnativo, richiedendo soltanto un’attenta valutazione della situazione dei luoghi, con particolare riferimento alla natura del suolo), è inconferente, atteso che i suddetti parametri attengono alla responsabilità contrattuale, mentre nella specie il progettista è stato chiamato a rispondere, nei confronti degli assegnatari degli immobili, con i quali non risulta aver contratto alcun diretto rapporto negoziale, ad esclusivo titolo di (concorsuale) responsabilità aquiliana, quale viene, per ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, considerata quella ex art. 1669 c.c., con riferimento ai gravi vizi di costruzione derivanti dall’inadeguatezza delle fondazioni, in conseguenza dell’omissione di adeguate preventive indagini sulla natura e consistenza del suolo, non eseguite nè richieste al committente prima della redazione del progetto (v. Cass. 31290/93, 8359/96, 11783/00, 12995/06).

Esclusa la sussistenza dei dedotti vizi di violazione di norme di diritto, e ritenuto che il richiamo anche all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non risulta concretamente correlato ad alcuna carenza o illogicità della motivazione, il motivo deve essere respinto.

Non miglior sorte merita quello successivo, con il quale si censura, per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 3 e 111 Cost. e per omessa motivazione su fatto decisivo, la mancata considerazione della circostanza che il progetto edilizio recasse anche una terza firma, quella di tale ing. R., tecnico incaricato dall’appaltatore, la cui sottoscrizione sarebbe stata apposta in corrispondenza della parola "calcoli", cosi evidenziando la diversa veste assunta dall’ing. V. nella progettazione, quale esclusivo responsabile del "progetto architettonico". La censura è palesemente inammissibile, risolvendosi nella deduzione di una circostanza di fatto, ancorchè di assunta natura documentacene non risultale si precisa, essere stata dedotta anche in sede di merito, sulla cui sussistenza non può indagarsi nella presente sede ed in ordine alla quale nessun addebito ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 può muoversi ai giudici di merito, non risultando che il relativo punto sia stato dedotto o abbia comunque formato oggetto di dibattito tra le parti.

Nè può tacersi che l’eventuale concorso di tale soggetto, quale preposto dell’appaltatore, non avrebbe comunque eliminato la preesistente e più radicale responsabilità dell’autore del progetto preliminare (sede nella quale avrebbero dovuto essere compiute le indagini geologiche), sulla base del quale fu conferito l’appalto dalla cooperativa committente, non a caso legalmente rappresentata dallo stesso V.. Il ricorso va conclusivamente respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 3.700,00 di cui 200 per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 01-12-2011, n. 9446

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con atto di costituzione in giudizio ex art. 10 del d.p.r. 24 novembre 1971, n. 1199, la ricorrente, dipendente, a seguito del superamento di concorso pubblico, del Ministero della giustizia, agisce avverso la rideterminazione delle piante organiche dell’amministrazione di appartenenza operata con l’impugnato d.p.c.m. 15 dicembre 2008, che ritiene pregiudizievole delle sue aspettative di progressione economica e di carriera mediante riqualificazione, nonché dei suoi diritti ad ottenere l’esecuzione dei trasferimenti già decretati e futuri.

L’impugnazione è estesa alla connessa proposta formulata dal Ministro della giustizia con nota n. 29872.U del 6 agosto 2008, nonché alla nota n.1453 del 1° ottobre 2008 a firma del Sottosegretario di Stato.

Al riguardo parte ricorrente espone che:

– in seguito all’entrata in vigore della l. 242/2000 il Ministero della giustizia ha assunto con contratto a tempo determinato e per un periodo massimo di 18 mesi personale privo di esperienza e professionalità specifica, attinto dalle graduatorie dei lavoratori socialmente utili, nell’attesa di provvedere alla rideterminazione organica prevista dall’art. 1 della legge stessa;

– nell’immediato seguito il Ministero ha interrotto i procedimenti di riqualificazione del personale di ruolo già banditi e si è avvalso della facoltà, prevista dall’art. 19 della l. 28 dicembre 2001, n. 448, di prorogare i predetti contratti a tempo determinato;

– leggi successive hanno previsto la possibilità di avvalersi di detto personale sino al 31 dicembre 2006 (289/2002; 350/2003; 311/2004; 266/2005);

– l’art. 1, comma 247, della l. 266/2005 ha consentito di avviare procedure concorsuali per titoli ed esami per reclutare personale a tempo indeterminato, al fine di assicurare la prosecuzione delle attività svolte dal personale a tempo determinato;

– la l. 27 dicembre 2006, n. 296, all’art. 1, comma 519 ha consentito alle amministrazioni indicate, tra cui il Ministero della giustizia, la facoltà di procedere, a domanda, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale a tempo determinato, presentante gli ivi previsti requisiti di anzianità, purchè assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norma di legge. Per la stabilizzazione del personale mediante procedure diverse, entro i limiti dei posti di organico disponibili, è stato previsto il rispetto dei principi generali e della normativa vigente in tema di reclutamento del personale pubblico.

Tanto premesso, sostiene parte ricorrente che per la categoria dei lavoratori socialmente utili non sono stati rispettati né i limiti di capacità degli organici né quelli delle procedure selettive, che non sono state svolte in senso proprio, con la conseguenza che l’operazione di stabilizzazione (definitivamente portata a compimento nel dicembre del 2008 con l’assunzione a tempo indeterminato di un rilevante numero di ex l.s.u.) non sfugge alla sanzione di nullità di cui all’art. 36, comma 2, del d. lgs. 165/2001 ed è comunque illegittima perché contra legem.

Ciò in quanto, in particolare, secondo parte ricorrente, non sono state effettivamente soddisfatte le operazioni logicamente prodromiche alla predetta assunzione, ovvero l’individuazione del fabbisogno di personale in base alle vacanze accertate ed ai corrispondenti profili professionali e la definizione delle procedure di mobilità del personale già inquadrato a tempo indeterminato, atteso che la prima operazione è intervenuta formalmente con il d.p.c.m. 27 ottobre 2005, ma, sostanzialmente, solo nel 2008, con l’atto oggetto di impugnativa, mentre l’obbligo di assestare il personale di ruolo mediante procedure di mobilità ad interpello – che pure erano state fatte salve dall’art. 74, comma 5, della l. 133/2008 – non è stato soddisfatto, con l’effetto di bloccare i dipendenti stessi nelle loro posizioni funzionali di partenza, anche per effetto delle sopravvenute disposizioni normative in tema di riduzione delle dotazioni organiche e della spesa complessiva delle pubbliche amministrazioni.

In altre parole afferma parte ricorrente che l’impugnato d.p.c.m., nel ridefinire la pianta organica, l’ha confezionata su misura per gli ex precari e per il personale in mobilità proveniente da altre amministrazioni, decurtando, al contempo, pesantemente le aree del personale, cui parte ricorrente appartiene, maggiormente funzionali al Dipartimento organizzazione della giustizia.

Tanto premesso, parte ricorrente deduce avverso gli atti impugnati:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del d. lgs. 30 luglio 1999, n. 300 e dell’art. 17bis, comma 4, della l. 400/88.

Parte ricorrente sostiene che la rideterminazione organica avrebbe dovuto essere adottata nella forma del decreto del Presidente della Repubblica (e non del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) ed all’esito del relativo procedimento;

2) violazione e falsa applicazione di legge e dei principi generali del diritto – carenza di potere in parte qua – eccesso di potere per falsità dei presupposti di fatto e di diritto – illegittimità derivata.

Parte ricorrente denunzia che prima di procedere alla stabilizzazione di cui trattasi, l’amministrazione avrebbe dovuto individuare il numero di vacanze presente negli organici, all’esito dell’esperimento delle procedure di mobilità del personale già inquadrato.

Tale processo sarebbe, invece, stato invertito, con l’effetto che la rideterminazione organica è stata la tappa finale di un processo di sanatoria volto esclusivamente a rimediare alla incancrenita situazione di illegittimità in cui versava il personale ex l.s.u., per la indebita proroga dei contratti e per la irregolarità degli atti prodromici alla stabilizzazione, violativi di norme imperative.

Nel descritto contesto, lamenta ancora parte ricorrente che l’amministrazione, entrato in vigore il d.l. 112/2008, convertito dalla l. 133/2008, che ha imposto la riduzione degli assetti organizzativi pubblici, ed in connessione con la stabilizzazione in discorso, ha sospeso, con l’impugnata nota 1° ottobre 2008, n. 1459, l’esecuzione dei 1308 provvedimenti di trasferimento del personale di ruolo già disposti, nonostante l’art. 74, comma 5, della legge in parola ne facesse espressamente salva l’efficacia, allo scopo di non occupare nella nuova adottanda pianta organica i posti corrispondenti alle figure professionali del personale in mobilità delle altre amministrazioni e dei candidati alla stabilizzazione. L’amministrazione ha poi proposto la nuova dotazione organica recepita nell’impugnato d.p.c.m., che, nominalmente, in apparente omaggio alla riduzione imposta per legge, riduce l’organico di 3.536 unità, ma, di fatto (per il preesistente scostamento tra l’organico effettivo e quello formale), lo aumenta, per effetto dell’assunzione delle 1588 unità ex l.s.u., con trasformazione/novazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato, nonché delle altre categorie di personale transitato da altre amministrazioni dello Stato.

Con ciò sanando rapporti giuridici sorti sulla base di atti violativi di disposizioni di norme di legge imperative;

3) eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica – eccesso di potere per erroneità e falsità dei presupposti di fatto e di diritto – difetto di istruttoria e di motivazione – contraddittorietà – illogicità manifesta – disparità di trattamento – ingiustizia manifesta.

Parte ricorrente indica tutti gli elementi rivelatori della circostanza che la rideterminazione della pianta organica, priva di motivazione, è stata effettuata non al fine del raggiungimento di una organizzazione strumentale al perseguimento del miglior interesse pubblico specifico affidato al Ministero della giustizia, bensì al solo fine di consentire la stabilizzazione in parola, con funzione di ammortizzatore sociale;

4) violazione e falsa applicazione della l. 133/2008 – eccesso di potere per sviamento –

contraddittorietà – carenza di istruttoria – carenza assoluta di motivazione – illogicità manifesta – perplessità – elusione di orme imperative – illegittimità derivata.

Parte ricorrente denunzia il contrasto tra l’apparente decurtazione di 3536 unità ed il reale ingresso del contingente speciale di 1588 lavoratori ex l.s.u. e di un numero imprecisato di dipendenti regionali di livello B3, C1, C2 e C3 transitati per effetto delle convenzioni con le Regioni.

Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico degli atti impugnati, parte ricorrente ne domanda l’annullamento.

2. Costituitasi in resistenza, l’intimata Amministrazione, eccepita l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili nonché la sua infondatezza, ne domanda il rigetto.

3. Analoghe conclusioni sono state rassegnate dagli intimati controinteressati, costituitisi in giudizio.

4. Parte ricorrente ha affidato a memoria lo sviluppo delle proprie argomentazioni difensive.

5. La controversia è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 9 novembre 2011.

6. In via pregiudiziale, il Collegio osserva che – come eccepito dalle parti resistenti nel novero delle eccezioni spiegate avverso il gravame – l’azione impugnatoria all’esame non sfugge a fondati sospetti di inammissibilità, atteso che, come già rilevato in altro gravame, sempre attinente all’impugnazione da parte di dipendenti del Ministero della giustizia di atti relativi alla stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato ai sensi della l. 242/200, "non è dato comprendere quale utilità potrebbe derivare ai ricorrenti dall’eventuale accoglimento dell’impugnativa, atteso che non sembra sussistere un rapporto diretto tra le posizioni dei ricorrenti e la stabilizzazione dei cc.dd. precari" (Tar Lazio, Roma, I, 27 ottobre 2010, n. 33040).

In altri termini, qui come nel sopra citato contenzioso, parte ricorrenti non dimostra in alcun modo come la procedura di stabilizzazione abbia effettivamente inciso – direttamente – sulle sue pretese al conseguimento di posizioni superiori nell’ambito della stessa o di diversa area funzionale.

Quanto, invece, alla sospensione dei trasferimenti, operata con la pure impugnata nota n.1459 del 1° ottobre 2008, l’amministrazione ha depositato la nota 15 maggio 2009, a firma del Sottosegretario di Stato, che ha sbloccato le relative procedure.

7. In ogni caso, poiché il ricorso si appalesa comunque infondato nel merito, può prescindersi dall’esame delle altre questioni pregiudiziali eccepite dalle parti resistenti.

8. Va, in primo luogo, premesso che il Collegio non ravvisa alcuna illegittimità nell’operato oggetto di scrutinio del Ministero della giustizia, che:

– ai sensi di quanto previsto dalla l. 242/2000 (Autorizzazione al Ministero della giustizia a stipulare contratti di lavoro a tempo determinato con soggetti impiegati in lavori socialmente utili, al fine di garantire l’attuazione della normativa sul giudice unico di primo grado), come pianamente riferito dall’amministrazione resistente, ha sottoscritto il 20 ottobre 2000 contratti individuali di lavoro subordinato a tempo determinato con gli ex l.s.u. già utilizzati presso gli uffici giudiziari nella realizzazione di tre distinti Progetti di lavori socialmente utili, promossi dall’Amministrazione giudiziaria ai sensi del d.l. 244/81, art. 1bis (convertito dalla l. 390/81), del d.l. n. 299/1994, convertito dalla l. 451/1994, del d. lgs n. 468/1997 e del d. lgs 81/2000;

– ha prorogato tali contratti, della durata iniziale di 18 mesi, giusta autorizzazione normativa (ll. ff. 2002, 2003, 2004, 2005 e 2006);

– ha dato seguito alla stabilizzazione dei suddetti, come previsto dalle ll. 296/2006 e 244/2007.

In particolare, in attuazione delle previsioni normative appena citate, con avviso del 7 gennaio 2008, l’amministrazione ha bandito una procedura per la progressiva assunzione a tempo indeterminato del personale sopra specificato, per le figure professionali e per i posti ivi indicati, da realizzarsi mediante il percorso selettivo previsto dalle norme di riferimento.

L’ulteriore requisito legale della disponibilità del posto è stato conseguito in occasione del taglio del 10% degli organici del personale non dirigente imposto dal d.l. 112/08.

In particolare, con il d.p.c.m. 15 dicembre 2008 impugnato, è stata rideterminata la dotazione complessiva del personale amministrativo dipendente dal Ministero della giustizia, con la conseguente riduzione di 3.536 unità rispetto alla consistenza organica precedente, individuate in tutti i posti allo stato scoperti nelle posizioni economiche C2 e C3.

Ciò ha consentito di creare la disponibilità in organico dei posti necessari sia per la stabilizzazione degli ex l.s.u., sia per l’immissione nei ruoli dei lavoratori postali e della Zecca dello Stato e sia per la trasformazione in full time del rapporto di lavoro degli operatori giudiziari – posizione economica B2, già assunti in regime di part time.

Infine, nel Bollettino Ufficiale n. 24 del 31 dicembre 2008 sono state pubblicate le graduatorie elaborate all’esito delle procedure di stabilizzazione appena citate, a cui ha fatto seguito la sottoscrizione dei relativi contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Può aggiungersi che non risulta neanche censurabile che, in previsione della riduzione della dotazione organica imposta dal d.l. 122/2008, e, segnatamente, al fine di analizzare gli effetti che la riduzione d’organico avrebbe avuto sui posti messi a concorso nell’ambito degli interpelli di mobilità interna banditi nella primavera del 2007, ai sensi dell’art. 2 dell’ Accordo sindacale sottoscritto in data 27 marzo 2007, l’amministrazione abbia ritenuto opportuno sospendere l’immissione in possesso dei dipendenti che erano stati trasferiti in esito agli interpelli stessi.

In ogni caso, come già sopra rilevato, acquisita la nuova dotazione organica del personale amministrativo per come definita dal d.p.c.m. 15 dicembre 2008, ed avviandosi alla conclusione la definizione delle piante organiche provvisorie dei singoli uffici giudiziari, l’amministrazione ha sbloccato i trasferimenti de quibus.

9. Tutto ciò posto, e passando all’esame delle singole censure di cui consta il ricorso, si osserva quanto segue.

9.1. E’ infondata la censura con la quale si denunzia che l’impugnato d.p.c.m., quale atto di normazione secondaria, avrebbe dovuto essere assunto nella forma e nella procedura prevista per i decreti del Presidente della Repubblica.

L’art. 17, comma 4bis (aggiunto, a decorrere dal l° aprile 1997, dall’art. 13, comma 1, l.15 marzo 1997, n. 59) della l. 400/1988 prevede che "L’organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2, su proposta del Ministro competente d’intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei principi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l’osservanza dei criteri che seguono: a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell’organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l’amministrazione; b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali; c) previsione di strumenti di verifica periodica dell’organizzazione e dei risultati; d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche; e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell’ambito degli uffici dirigenziali generali".

L’art. 6, comma 2 del d.lgs. 165/2001, nel prevedere che "Per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, si applica l’art. 17, comma 4bis della legge 23 agosto 1988, n. 400", precisa che "La distribuzione del personale dei diversi livelli o qualifiche previsti dalla dotazione organica può essere modificata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, ove comporti riduzioni di spesa o comunque non incrementi di spesa complessiva riferita al personale effettivamente in servizio al 31 dicembre dell’anno precedente".

Dalla lettura delle norme sopra riportate emerge che, ove la modifica della dotazione organica comporti una riduzione di spesa, trova applicazione la procedura semplificata di cui al secondo periodo del comma 2 dell’art. 6 del d. lgs 165/2001.

L’ipotesi si invera con l’impugnato d.p.c.m., che, come espone il relativo preambolo, rimanda all’art. 74 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, con il quale sono state stabilite norme in materia di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi le dotazioni organiche del personale non dirigenziale, da rideterminarsi apportando una riduzione non inferiore al 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti in organico previsti per ciascuna amministrazione.

9.2. Non è neanche fondata la censura con la quale si lamenta che nel processo di stabilizzazione di cui trattasi vi sarebbe stata una inversione dei sottostanti passaggi provvedimentali.

In particolare, secondo parte ricorrente, l’amministrazione – anziché procedere, in previsione della stabilizzazione, alla previa ricognizione del numero di vacanze organiche presenti, e solo dopo aver esperito le procedure di mobilità del personale già inquadrato – ha posto al centro della propria azione il processo di stabilizzazione, con l’effetto che la rideterminazione organica è stata la tappa finale, e non intermedia, del processo stesso.

La doglianza è priva di pregio.

Non è, infatti, innanzitutto condivisibile lo scenario sottostante alla censura, delineato sulla base di una lettura della complessa vicenda relativa agli ex l.s.u., imperniata su un assunto (sanatoria di una incancrenita situazione di contrarietà a norme, anche imperative, degli atti e dei provvedimenti relativi al personale ex l.s.u.) che si è già rivelato insussistente.

Né è condivisibile l’abnorme ruolo che, nella censura, la ricorrente assegna al già citato provvedimento di sospensione dei provvedimenti di trasferimento del personale di ruolo già disposti, che, come pure già sopra evidenziato, si è caratterizzato, com’è tipico di tutti gli atti di sospensione, per una ridotta efficacia temporale (1° ottobre 200815 maggio 2009).

Quanto al resto, va osservato, da un lato, e decisivamente, che alla stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato, previo espletamento di procedure selettive, il Ministero era espressamente facoltizzato dalla legge (ll. 296/2006 e 244/2007).

E non occorre spendere molte parole per osservare che non è seriamente contestabile che la previsione normativa poggi sull’interesse pubblico assunto dal legislatore a che l’amministrazione della giustizia potesse continuare ad avvalersi di personale già in possesso di specifica esperienza e professionalità.

Dall’altro, neppure è significativo, ai fini voluti in ricorso, la evidenziata circostanza che, precedentemente alla modifica apportata con il d.p.c.m. impugnato, sussistesse uno scostamento tra l’organico effettivo del Ministero e quello teorico, molto più capiente.

Ferma, infatti, l’affermazione dell’amministrazione di aver realizzato, mediante la rideterminazione dell’organico assunta con l’atto impugnato, una riduzione della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico del personale non dirigenziale pari al 10 % della spesa riferita alla pregressa dotazione, il rilievo risulta afferente a situazioni preesistenti al d.p.c.m. oggetto di scrutinio, ed è pertanto totalmente insuscettibile di ridondare in un vizio di legittimità del d.p.c.m. stesso.

Vieppiù, il precedente scostamento è stato dall’amministrazione considerato proprio in occasione della rideterminazione delle piante organiche qui in esame.

Chiarisce l’amministrazione resistente nelle proprie difese che "Nel contesto di un processo di riorganizzazione diretto ad attuare un recupero di efficienza e funzionalità dell’Amministrazione, si ritiene conforme all’ esigenza di assicurare il necessario sostegno all’attività giurisdizionale operare una rimodulazione delle dotazioni che rifletta l’effettiva disponibilità di risorse, garantendo altresì, per effetto delle disposizioni che autorizzano l’immissione in ruolo del personale non ancora stabilizzato, un incremento delle presenze effettive presso le singole strutture.

La discrasia tra l’organico di diritto e quello effettivamente assegnato, infatti, ha sin qui costituito uno dei principali motivi di doglianza da parte dei responsabili delle singole strutture giudiziarie, potendosi rilevare, nella generalità dei casi, una profonda divergenza tra la pianta organica teorica (cioè il contingente di posti assegnato) e il personale effettivamente in servizio ed ha costituito anche un ostacolo nella individuazione dell’ effettivo fabbisogno degli uffici" (pag. 28 memoria erariale).

9.3. Tenuto conto di quanto sin qui riferito, risultano infondate anche la terza e la quarta censura, con le quali la ricorrente denunzia, rispettivamente, che la rideterminazione della pianta organica è stata effettuata non al fine del raggiungimento di una organizzazione strumentale al perseguimento del miglior interesse pubblico specifico affidato al Ministero della giustizia, bensì al solo fine di consentire la stabilizzazione in parola, con funzione di ammortizzatore sociale, nonché il contrasto tra l’apparente decurtazione di 3536 unità ed il reale ingresso del contingente speciale di 1588 lavoratori ex l.s.u. e di un numero imprecisato di dipendenti regionali transitati per effetto delle convenzioni con le Regioni.

Può solo aggiungersi, sul punto, che ciò di cui si duole la ricorrente, non solo nella censura in esame ma nell’intero gravame, ridonda in una visione della problematica della stabilizzazione degli ex l.s.u. e delle complessive necessità del Ministero della giustizia palesemente difforme e contrastante da quella assunta dal legislatore nelle norme sin qui richiamate.

10. Nulla aggiungono alle questioni così come sin qui trattate le ulteriori considerazioni difensive formulate dalla ricorrente nella memoria depositata in corso di causa.

11. In definitiva, per tutto quanto precede, il gravame va respinto.

Sussistono nondimeno giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, lo respinge.

Compensa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 21-12-2011, n. 3341

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) In punto di fatto il Tribunale rileva che: 1) con decreto ingiuntivo n. 26381/09 emesso dal Tribunale di Milano il 20.07.2009, munito di formula esecutiva il 09.01.2010 e notificato in tale forma il 21.01.2010 e non oggetto di opposizione, il giudice ordinario ha ingiunto all’amministrazione resistente di pagare in favore della società ricorrente la somma di Euro 207.421,84 oltre gli accessori, come indicati nel decreto; 2) con sentenza n. 8264/10 emessa dal Tribunale di Milano il 23.06.2010, munita di formula esecutiva il 13.07.2010, il giudice ordinario ha condannato l’amministrazione resistente a pagare in favore della società ricorrente la somma di Euro 36.197,09 oltre gli accessori, come indicati in sentenza.

La società ricorrente lamenta che i titoli di cui si tratta, non sono stati eseguiti integralmente dall’amministrazione, neppure costituitasi nel presente giudizio.

2) Preliminarmente il Tribunale ritiene di dovere affrontare il problema della attuale possibilità giuridica di portare ad ottemperanza i titoli indicati in epigrafe.

L’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, dispone che "Per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore del presente decretolegge, al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi dei medesimi Piani di rientro nella loro unitarietà, anche mediante il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti accertati in attuazione dei medesimi piani, i Commissari ad acta procedono, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del presente decretolegge, alla conclusione della procedura di ricognizione di tali debiti, predisponendo un piano che individui modalità e tempi di pagamento. Al fine di agevolare quanto previsto dal presente comma ed in attuazione di quanto disposto nell’Intesa sancita dalla Conferenza StatoRegioni nella seduta del 3 dicembre 2009, all’art. 13, comma 15, fino al 31 dicembre 2010 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime".

L’art. 11, comma 51 della legge 2010, n. 220 – recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011) – dispone che "al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all’articolo 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2011. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decretolegge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, non producono effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo.

Le norme ora citate si collocano nel quadro della disciplina introdotta dall’art. 1, commi da 164 in avanti, della legge 2004 n. 311, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005).

In particolare, il comma 164 dell’art. 1 prevede, tra l’altro, che lo Stato concorra al ripiano dei disavanzi del servizio sanitario nazionale mediante un finanziamento integrativo, strumentalmente teso a garantire che l’obiettivo del raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario da parte delle regioni sia conseguito nel rispetto della garanzia della tutela della salute (comma 169).

L’accesso al finanziamento integrativo a carico dello Stato, derivante da quanto disposto al comma 164, viene subordinato alla stipula di una specifica intesa tra Stato e regioni, che ai fini del contenimento della dinamica dei costi deve contemplare una serie di parametri individuati dal comma 173 del medesimo articolo 1.

Il successivo comma 174 impone alle regioni, in caso di sussistenza di una situazione di squilibrio e proprio al fine del rispetto dell’equilibrio economicofinanziario, di adottare i provvedimenti necessari, con la precisazione che, qualora la regione non provveda, si procede al commissariamento secondo la procedura di cui all’articolo 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 e previa diffida del presidente del consiglio dei ministri. In tale caso spetta al presidente della regione, in qualità di commissario ad acta, di approvare il bilancio di esercizio consolidato del servizio sanitario regionale al fine di determinare il disavanzo di gestione e di adottare i necessari provvedimenti per il suo ripianamento.

Al verificarsi di queste condizioni, la regione interessata procede ad una ricognizione delle cause dello squilibrio ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento del servizio sanitario regionale, di durata non superiore al triennio. I ministri della salute e dell’economia e delle finanze e la singola regione stipulano apposito accordo che individui gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza e degli adempimenti di cui alla intesa prevista dal comma 173. La sottoscrizione dell’accordo è condizione necessaria per la riattribuzione alla regione interessata del maggiore finanziamento anche in maniera parziale e graduale, subordinatamente alla verifica della effettiva attuazione del programma (cfr. comma 180).

Dal quadro normativo ora richiamato emerge che il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere presuppone: a) che esse operino in regioni commissariate secondo la procedura di cui all’articolo 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131; b) che siano stati predisposti piani di rientro dai disavanzi sanitari, ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 finalizzati alla riorganizzazione, riqualificazione o al potenziamento del servizio sanitario regionale; c) che sia stata effettuata la ricognizione dei debiti di cui all’articolo 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78.

Sotto altro profilo va osservato che la disciplina di cui si tratta introduce un limite alla possibilità per i creditori di conseguire coattivamente una pretesa patrimoniale nei confronti delle A.S.L., ponendo così un problema di coordinamento e di compatibilità con la disciplina comunitaria in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Il riferimento va alla Direttiva 29 giugno 2000, n. 2000/35/CE, pubblicata nella G.U.C.E. 8 agosto 2000, n. L 200, entrata in vigore in data 8 agosto 2000 e recepita dallo Stato italiano con la legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001) e con D.Lvo. 9 ottobre 2002, n. 231; direttiva poi abrogata dall’articolo 13 della direttiva 2011/7/UE, a sua volta relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ma entrata in vigore in data 15 marzo 2011 e, pertanto, non riferibile alla fattispecie in esame, che resta sottoposta alla precedente direttiva 2000 n. 35.

In particolare, vale evidenziare che la direttiva n. 35 è rivolta a realizzare "l’obiettivo della lotta contro i ritardi di pagamento nel mercato interno", obiettivo che non può essere sufficientemente realizzato dagli Stati membri separatamente e può, pertanto, essere meglio realizzato a livello comunitario (cfr. considerando n. 12), con la precisazione che "i periodi di pagamento eccessivi e i ritardi di pagamento impongono pesanti oneri amministrativi e finanziari alle imprese, ed in particolare a quelle di piccole e medie dimensioni. Inoltre tali problemi costituiscono una tra le principali cause d’insolvenza e determinano la perdita di numerosi posti di lavoro" (cfr considerando n. 7).

In relazione all’ambito applicativo, va osservato che la normativa comunitaria disciplina tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche, "tenendo conto del fatto che a queste ultime fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese" (cfr. considerando n. 20 e art. 2).

Inoltre, sul piano della correlazione tra lotta contro i ritardi nei pagamenti e disciplina delle procedure di recupero del credito, la direttiva evidenzia che: a) i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli Stati membri per i bassi livelli dei tassi degli interessi di mora e/o dalla lentezza delle procedure di recupero (cfr. considerando n. 16); b) le conseguenze del pagamento tardivo possono risultare dissuasive soltanto se accompagnate da procedure di recupero rapide ed efficaci per il creditore (cfr. considerando n. 20); c) l’articolo 5 della direttiva prevede che la procedura di recupero dei crediti non contestati sia conclusa a breve termine, in conformità delle disposizioni legislative nazionali (cfr. considerando n. 23).

Quanto poi alle situazioni sottratte all’ambito di applicazione della normativa comunitaria, viene specificato che la "direttiva si limita a definire l’espressione "titolo esecutivo", ma non disciplina le varie procedure per l’esecuzione forzata di un siffatto titolo, né le condizioni in presenza delle quali può essere disposta la sospensione dell’esecuzione ovvero può essere dichiarata l’estinzione del relativo procedimento", così precisando che solo l’esecuzione forzata e le relative ipotesi di sospensione restano estranee a tale regolamentazione.

Sempre in relazione ai limiti di applicazione, l’art. 6 della direttiva consente agli Stati membri di escludere da tale disciplina: a) i debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore; b) i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002; c) le richieste di interessi inferiori a 5 euro.

In sede di recepimento, lo Stato italiano ha esercitato tale potere di esclusione, ma limitatamente ai contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002, che restano sottratti alla normativa in esame, ai sensi dell’art. 11, comma 1, del d.l.vo 2002, n. 231.

3) Il quadro normativo ora ricostruito non consente di comprendere l’ottemperanza ad un decreto ingiuntivo tra le azioni esecutive che non possono essere intraprese o proseguite nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni commissariate e sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari.

3.1) In primo luogo occorre portare l’attenzione sulla ratio della disciplina nazionale preclusiva delle azioni esecutive; ratio emergente dai presupposti di applicazione della normativa nazionale di cui si tratta.

Il blocco delle azioni esecutive mira a consentire la realizzazione dei piani di rientro dai disavanzi sanitari predisposti dalle regioni commissariate e diretti, non solo a ripristinare l’equilibrio finanziario del settore sanitario, ma anche ad assicurare l’attuazione di un processo di riorganizzazione e risanamento del servizio sanitario, nel quale si colloca la previsione di un finanziamento integrativo a carico dello Stato (cfr. in particolare art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78, nonché art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e art. 1, commi 164, 169, 174, 180 della legge 2004, n. 311).

I piani di rientro e la loro attuazione devono assicurare che l’equilibrio economico e finanziario venga conseguito garantendo la tutela della salute, nonché il mantenimento di modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie uniformi sul territorio nazionale e coerenti, sul piano qualitativo e quantitativo, con i livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria (cfr. in particolare art. 1, comma 169, della legge 2004, n. 311).

L’obiettivo dell’attuazione dei piani di rientro e del contemporaneo mantenimento dei livelli di assistenza, a tutela del fondamentale diritto alla salute, presuppone che l’amministrazione conservi integri e nel loro complesso i beni strumentali e funzionali all’erogazione delle prestazioni sanitarie, nonostante sia gravata da una situazione debitoria tale da pregiudicarne l’equilibrio economico e finanziario e da giustificare un finanziamento integrativo a carico dello Stato.

Tale esigenza si soddisfa escludendo che nei confronti delle aziende sanitarie, versanti nelle condizioni economiche e finanziarie suindicate, possano essere attivate o completate procedure esecutive che, al fine di soddisfare il creditore, consentano di aggredire i beni, mobili ed immobili, di cui l’amministrazione si avvale per l’erogazione delle prestazioni del servizio sanitario, sottraendoli alla loro destinazione funzionale.

Il riferimento attiene, pertanto, al processo di esecuzione in senso stretto, caratterizzato dal pignoramento, che, da un lato, produce l’effetto giuridico di vincolare determinati beni del debitore al soddisfacimento del creditore, dall’altro, è prodromico alla soddisfazione coattiva del credito mediante l’assegnazione o la vendita, secondo la disciplina posta dagli artt. 491 e seg. del c.p.c..

Insomma, il compimento di simili atti nei confronti delle A.S.L. versanti nelle condizioni suindicate avrebbe l’effetto di sottrarre alla loro destinazione determinati beni funzionali all’erogazione del servizio sanitario, con pregiudizio sia dell’obbiettivo del risanamento economico e finanziario, nonché delle esigenze di riorganizzazione e di risanamento del servizio sanitario, sia dell’esigenza di mantenere inalterati i livelli essenziali di assistenza.

Ecco, allora, che tanto l’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, quanto l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, nella parte in cui escludono la possibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni commissariate e già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, vanno interpretati come preclusivi delle azioni esecutive in senso stretto, ossia delle procedure di esecuzione forzata per espropriazione, che consentono al creditore di soddisfarsi coattivamente sui beni del debitore mediante la vendita o l’assegnazione dei beni medesimi, in quanto simili procedure ostacolano l’attuazione dei complessivi obiettivi, di risanamento finanziario e di riorganizzazione, che connotano i piani di rientro e pregiudicano il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario.

Il dato letterale conforta tale interpretazione, atteso che, proprio l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, dopo avere precluso l’attivazione e la prosecuzione delle "azioni esecutive" nei confronti delle A.S.L., disciplina le azioni esecutive già intraprese, prevedendo che non producono effetti i "pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni" alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2010.

Certo, l’inciso da ultimo considerato riguarda solo i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie effettuate dalla regione e non gli atti di esecuzione forzata per espropriazione compiuti su altri beni strumentali all’erogazione del servizio sanitario, ma resta fermo che, nel contesto complessivo della disposizione, la preclusione è riferita solo ad atti tipici del processo di esecuzione forzata (il pignoramento, in particolare), mentre la formula impiegata si spiega con l’esigenza, espressa dalla norma, di conservare al servizio sanitario le somme versate dalla regione per l’erogazione del servizio medesimo, in modo che gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri possano continuare a "disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo".

In altre parole, con l’inciso in esame il legislatore ha dettato il regime di un particolare bene, qual é il denaro versato dalla regione e destinato all’erogazione del servizio, al fine di evitare che i pignoramenti e le prenotazioni a debito già effettuati ne ostacolino l’utilizzo per lo scopo prestabilito.

Nondimeno, resta fermo che la norma, riferendosi espressamente solo al pignoramento e alla prenotazione a debito, ha limitato la preclusione ai soli atti della procedura esecutiva in senso stretto e sul piano sistematico ciò induce a riferire l’espressione "azioni esecutive" proprio a questo tipo di procedura, atteso che, anche per i beni diversi dal denaro, ma comunque strumentali allo svolgimento del servizio sanitario, sussiste l’esigenza di preservarne la destinazione, sottraendoli alla soddisfazione coattiva del creditore, destinazione compromessa dagli atti della procedura esecutiva per espropriazione.

Analoga esigenza non sorge rispetto al giudizio di ottemperanza, che, pertanto, non è riconducibile alle "azioni esecutive" paralizzate dall’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 e dall’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220.

Invero, mediante l’azione di ottemperanza esperita a tutela di una situazione creditoria ed, in particolare, per la soddisfazione di una pretesa pecuniaria risultante da una sentenza passata in giudicato del giudice ordinario o da un provvedimento giurisdizionale ad essa equiparato, come il decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, il creditore non aggredisce esecutivamente singoli beni sottraendoli alla loro destinazione funzionale e vincolandoli alla soddisfazione della propria pretesa, ma ottiene che il giudice si sostituisca all’amministrazione, direttamente o indirettamente per il tramite di un commissario ad acta, nel compimento degli atti necessari per l’adempimento del debito.

Atti che consistono nel reperimento delle somme necessarie per la soddisfazione del credito, eventualmente anche mediante il ricorso a finanziamenti, nei limiti consentiti dalla legge, ma non nel pignoramento e nella successiva assegnazione o vendita di beni determinati, che sono atti diretti a realizzare la conversione in denaro di beni determinati a soddisfazione del creditore.

In altre parole, tale procedura non incide sui beni, mobili o immobili, che l’A.S.L. utilizza per l’erogazione del servizio sanitario, né sulle somme che in base alla legge sono destinate all’erogazione di tale servizio, sicché in relazione ad essa non viene in rilevo la necessità di evitare che la tutela dei creditori dell’amministrazione possa pregiudicare l’attuazione degli obiettivi di risanamento finanziario, di riorganizzazione e di mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario che connotano i piani di rientro dai disavanzi sanitari, alla cui attuazione è funzionale il blocco delle azioni esecutive.

In simili casi spetta all’organo giurisdizionale, o al commissario ad acta nominato dal primo, il compimento degli atti necessari per la soddisfazione del credito azionato, senza intaccare necessariamente beni strumentali al servizio sanitario nei termini suesposti.

Resta fermo che, in relazione alle peculiarità del caso concreto, possono verificarsi delle fattispecie in cui l’ottemperanza risulta oggettivamente impossibile e ciò dipende dal fatto che ogni giudizio di ottemperanza incontra il limite dell’oggettiva impossibilità, da apprezzare caso per caso (cfr. in argomento a mero titolo esemplificativo Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), ma tale circostanza non incide sull’ammissibilità della relativa azione.

3.2) L’esclusione del giudizio di ottemperanza dal blocco delle azioni esecutive è coerente con la già richiamata disciplina comunitaria in materia di lotta ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali.

In effetti, la direttiva 2000 n. 35 (in particolare considerando n. 15) specifica di limitarsi "a definire l’espressione titolo esecutivo", senza disciplinare le "procedure per l’esecuzione forzata di un siffatto titolo, né le condizioni in presenza delle quali può essere disposta la sospensione dell’esecuzione ovvero può essere dichiarata l’estinzione del relativo procedimento".

Il riferimento alla sola "esecuzione forzata" e non alla generalità delle procedure utilizzabili per la realizzazione di una pretesa pecuniaria induce a ritenere che restino estranee alla disciplina comunitaria solo le procedure di soddisfazione del credito caratterizzate dall’agire esecutivamente sui beni del debitore, vincolandoli alla soddisfazione del credito e così sottraendoli alla loro destinazione, mentre ne restano assoggettate quelle che, come il giudizio di ottemperanza, tendono alla realizzazione della pretesa pecuniaria senza espropriare forzatamente beni determinati dell’amministrazione.

Difatti, escludere qualsiasi forma di esecuzione dall’ambito di applicazione della direttiva equivarrebbe a vanificarne la finalità e l’esigenza di omogeneizzazione della disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali cui tende la normativa comunitaria.

Diversamente opinando, ciascuno Stato potrebbe, a proprio arbitrio, decidere di paralizzare ogni forma di esecuzione nel settore cui si riferisce la direttiva, impedendo al creditore di soddisfarsi concretamente e così precludendo la realizzazione degli obiettivi comunitari.

Ciò è ancora più evidente se si considera – come già evidenziato in sede di ricostruzione del quadro normativo – che proprio la direttiva stigmatizza la lentezza delle procedure di recupero e precisa che "le conseguenze del pagamento tardivo possono risultare dissuasive soltanto se accompagnate da procedure di recupero rapide ed efficaci per il creditore", aggiungendo che tale situazione si verifica, tra l’altro, nei rapporti tra imprese e autorità pubbliche, in quanto "a queste ultime fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese" (cfr. considerando n. 16 e n. 20, nonché artt. 2 e 5 dell’articolato).

Il richiamo a procedure di recupero del credito rapide ed efficaci sottende la necessità di assicurare la realizzazione concreta della pretesa patrimoniale e si pone come un passaggio indefettibile per l’attuazione degli obiettivi propri della direttiva 2000 n. 35, sicché è del tutto coerente interpretare in modo restrittivo l’esclusione della "esecuzione forzata" dall’ambito della disciplina comunitaria in questione, limitandola alla sola esecuzione per espropriazione e non alle altre procedure che, come il giudizio di ottemperanza, sono rivolte a consentire la soddisfazione del creditore senza agire per espropriazione su beni determinati.

Ne deriva che lo Stato, intervenendo normativamente in materia di soddisfazione dei crediti derivanti da transazioni commerciali tra imprese ed amministrazioni, non può paralizzare procedure esecutive diverse dall’esecuzione forzata in senso stretto, in quanto così facendo si porrebbe in contrasto con la direttiva comunitaria 2000 n. 35, che non gli attribuisce tale potere in sede di recepimento della direttiva medesima.

In altre parole, l’interpretazione prospettata dall’amministrazione resistente volta a comprendere nel blocco delle azioni esecutive anche il giudizio di ottemperanza non è condivisibile, in quanto rende la normativa nazionale in esame incompatibile con i contenuti della direttiva 2000 n. 35.

3.3) Una volta precisato che il giudizio di ottemperanza non integra una forma di esecuzione forzata ai sensi della direttiva 2000 n. 35 e, pertanto, non si sottrae alla disciplina comunitaria in esame, vale rilevare, a fini di completezza sistematica, un profilo di incompatibilità tra la disciplina posta dall’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 e dall’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e la direttiva 2000 n. 35, qualora si riferisse il blocco delle esecuzioni anche al giudizio di ottemperanza, secondo la prospettazione dell’amministrazione resistente, con conseguente necessità di procedere, nel caso concreto, alla disapplicazione delle norme interne ora citate.

La direttiva consente a ciascuno Stato di introdurre deroghe alla disciplina comunitaria solo per i debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, nonché per i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002 e per le richieste di interessi inferiori a 5 euro.

Il legislatore nazionale, con l’art. 11, comma 1, del d.l.vo 2002, n. 231, ha esercitato tale potere di esclusione, sottraendo i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002 alla disciplina in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Nondimeno, è evidente che anche il blocco delle azioni esecutive integra un limite all’operatività della disciplina ora citata, in quanto preclude l’efficacia delle procedure di recupero del credito, valorizzate dalla direttiva come strumento dissuasivo indefettibile contro i pagamenti tardivi.

Inoltre, l’art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78 e l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 assumono a presupposto del blocco la circostanza che la regione, cui appartiene l’A.S.L. debitrice, sia commissariata e sottoposta a piani di rientro dai disavanzi economici.

Occorre allora verificare se – una volta chiarito che l’ottemperanza rientra nell’ambito di riferimento della direttiva 2000 n 35 e assumendo, secondo la tesi dell’amministrazione resistente, che il blocco delle azioni esecutive comprende anche il giudizio di ottemperanza – tale normativa nazionale riflette i presupposti in presenza dei quali la direttiva consente agli Stati di introdurre deroghe alla disciplina da essa dettata.

In particolare, alla luce delle già indicate ipotesi di deroga fatte salve dalla direttiva, occorre esaminare se la sottoposizione al commissariamento e ai piani di rientro dai disavanzi economici sia equiparabile alla sottoposizione del debitore ad una procedura, ossia all’ipotesi di derogabilità della normativa comunitaria prevista dall’art. 6, comma 3, della direttiva.

Tale equiparazione non è sostenibile.

Invero, le procedure concorsuali sono dirette a garantire la par condicio creditorum, ossia, in estrema sintesi, la possibilità per tutti i creditori, che siano tali al momento dell’apertura della procedura, di soddisfarsi in uguale misura percentuale sui beni del debitore, che vengono sottoposti a liquidazione.

Tale situazione non è ravvisabile nelle fattispecie cui si riferisce il blocco delle azioni esecutive.

In primo luogo, va osservato che il commissariamento non riguarda l’A.S.L. debitrice ma la Regione cui l’A.S.L. appartiene, sicché la fattispecie non è riconducibile ad una procedura concorsuale aperta a carico del debitore.

Inoltre, il commissariamento, unitamente all’esecuzione dei piani di rientro dal disavanzo finanziario, non sottende l’esigenza di garantire la soddisfazione almeno pro quota di tutti i creditori, ma risponde, in primo luogo e come già evidenziato, alla necessità di consentire la riorganizzazione e la riqualificazione del servizio sanitario regionale nel mantenimento dei livelli essenziali di assistenza e correlando a tale processo riorganizzativo anche il pagamento dei debiti oggetto di specifica ricognizione.

Va, pertanto, ribadito che, qualora il blocco delle esecuzioni fosse riferito anche al giudizio di ottemperanza, che non è escluso dall’ambito della direttiva 2000 n. 35 in quanto non integra una "esecuzione forzata" ai sensi della direttiva, la normativa nazionale dovrebbe essere disapplicata per contrasto con la direttiva citata, poiché introdurrebbe una deroga alla disciplina europea al di fuori dei casi da essa consentiti.

3.4) Le conclusioni raggiunte non sono superabili valorizzando il carattere più di esecuzione che di cognizione assunto dal giudizio di ottemperanza quando ha ad oggetto le sentenze, o atti equiparati, del giudice ordinario, che recano la condanna dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro.

Tale circostanza è stata valorizzata da una parte della giurisprudenza per sostenere che anche il giudizio di ottemperanza rientra nel blocco delle procedure esecutive.

In particolare, si è considerato che "sia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 30 giugno 1999, n. 376) che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 marzo 1989 n. 7) hanno ritenuto che il giudice dell’ottemperanza, in caso di sentenze del giudice amministrativo – diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine – ha il potere di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (e idonei a giustificare anche l’emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell’adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso (cfr. anche Consiglio di stato, sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409). Per quanto poi concerne, in particolare, il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di un decreto ingiuntivo non opposto, secondo condivisibile giurisprudenza "il giudice amministrativo, accertato il mancato pagamento delle somme ingiunte, è investito solo della funzione di garantire gli adempimenti materiali per soddisfare tale precetto, senza poter valutare le ragioni della situazione debitoria e dell’imputabilità dell’inerzia riscontrata" (T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 17 novembre 2008, n. 10251). Per tali rilievi la procedura in esame, qualificabile come "azione esecutiva" in senso proprio, peraltro alternativa all’esecuzione di cui al codice di rito, resta assoggettata al termine di sospensione previsto dalla legge 220/2010" (cfr. Tar Calabria Catanzaro, sez. I, 13 aprile 2011, n. 516).

Le considerazioni svolte dalla giurisprudenza indicata sono condivisibili nella parte in cui mettono in evidenza il carattere più di esecuzione che di cognizione del giudizio di ottemperanza avente ad oggetto un decreto ingiuntivo, mentre non lo sono nella parte in cui correlano a tale carattere dell’ottemperanza l’applicabilità del blocco delle esecuzioni.

In particolare, la natura esecutiva che il giudizio di ottemperanza assume in tali ipotesi – giudizio peraltro cumulabile con l’esecuzione forzata civilistica salva l’impossibilità di conseguire due volte quanto spettante (cfr. tra le altre, Tar Campania Napoli, sez. V, 13 novembre 2009, n. 7373) e comunque connotato da profili di cognizione anche in relazione all’interpretazione del giudicato ordinario (cfr. Cass. Civ., SS.UU., ordinanza 2 dicembre 2009 n. 25344) – evidenzia solo che il giudice amministrativo deve limitarsi ad accertare la permanenza dell’inadempimento e la presenza di un titolo esecutivo, interpretandone il contenuto, senza potere sviluppare altri profili di cognizione, ma non vale a trasformare il giudizio di ottemperanza in una procedura di esecuzione in senso stretto, atteso che non è diretto ad aggredire beni determinati, ma a sostituire l’amministrazione inadempiente nel compimento degli atti necessari a garantire la soddisfazione del credito.

Ne deriva che la prevalenza di profili esecutivi su quelli cognitori, nel giudizio di ottemperanza riferibile ai casi in esame, nulla dice in ordine alla estendibilità a tale giudizio del blocco delle esecuzioni.

3.5) Vale evidenziare, infine, un ulteriore profilo proprio della fattispecie in esame comunque ostativo all’applicazione del blocco delle esecuzioni stabilito dagli artt. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78 e 11, comma 51, della legge 2010, n. 220.

Si è già chiarito che l’operatività della disciplina dettata dalle norme citate presuppone che l’amministrazione regionale abbia proceduto alla ricognizione dei debiti prevista proprio dall’art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78.

Tale circostanza, siccome integra, nella prospettiva dedotta dall’amministrazione resistente, un fatto diretto ad applicare una normativa tesa a paralizzare la pretesa del ricorrente, deve essere dimostrata proprio dall’amministrazione resistente, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c..

Nondimeno, tale circostanza non è stata né allegata, né provata dall’Azienda resistente, neppure costituitasi nel presente giudizio.

4) In definitiva, al Tribunale non resta che prendere atto della mancata esecuzione dei titoli indicati in epigrafe ed adottare le conseguenti misure ai sensi dell’art. 114 c.p.a..

In particolare, il Tribunale ritiene opportuno procedere alla nomina di un Commissario ad acta, individuandolo nel Prefetto di Napoli, affinché provveda all’esecuzione del decreto ingiuntivo e della sentenza secondo i termini e le modalità stabiliti in dispositivo e nei limiti degli importi che risulteranno non ancora versati alla società ricorrente.

A garanzia dell’effettività dell’adempimento, il Tribunale ritiene necessario disporre che il Commissario ad acta produca una dettagliata relazione sullo stato dell’esecuzione dei titoli suindicati almeno 10 giorni prima della camera di Consiglio fissata in dispositivo per il prosieguo della trattazione, con l’avviso che immotivati ritardi comporteranno l’adozione delle misure di legge.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza)

non definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto:

1) Nomina Commissario ad acta il Prefetto di Napoli, con facoltà di delega ad altri funzionari a lui gerarchicamente subordinati, affinché, previo accertamento della perdurante inottemperanza dell’amministrazione ingiunta, provveda entro 120 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, o dalla notificazione se anteriore, all’esecuzione dei titoli indicati in epigrafe, disponendo il pagamento delle somme in essi determinate, in favore della società ricorrente e previa decurtazione degli importi già corrisposti;

2) Il Commissario ad acta produrrà una dettagliata relazione sullo stato dell’esecuzione dei titoli indicati in epigrafe almeno 10 giorni prima della Camera di Consiglio fissata per il prosieguo della trattazione.

3) Rinvia per il prosieguo alla Camera di Consiglio del 24 maggio 2012, ad ore di rito;

Spese al definitivo.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 28-06-2012, n. 10923 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

rilevato che, con ricorso alla Corte d’appello di Venezia, S. G. proponeva domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001 per violazione dell’arto della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata di un giudizio in materia pensionistica dinanzi alla Corte dei Conti;

che con il decreto indicato in epigrafe la Corte d’appello, ritenuta la durata ragionevole di tre anni, ha liquidato il danno non patrimoniale per la residua durata irragionevole di tre anni e tre mesi in Euro 1.670,00 (pari a Euro 500,00 circa per anno) oltre interessi legali e metà delle spese, trattandosi di ricorso proposto unitamente a numerose altre persone, con presumibile notevole affievolimento della partecipazione emotiva del ricorrente;

che avverso tale decreto S.G. ricorre per cassazione formulando tre motivi, illustrati anche da memoria;

che il Ministero dell’Economia e Finanze resiste con controricorso;

considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;

rilevato che il ricorrente denuncia, con il primo motivo, il vizio di motivazione in ordine agli elementi sui quali è fondata la liquidazione dell’indennizzo, in subordine con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, p.1 C.E.D.U.) per essersi la Corte di merito, nel liquidare l’indennizzo, discostata irragionevolmente dai parametri applicati comunemente dalla Corte Europea e da questa Corte; con il terzo motivo censura, sotto il profilo del vizio di motivazione, la statuizione sulle spese;

ritenuto che i primi due motivi di ricorso da esaminare congiuntamente, attesa la stretta connessione – sono fondati, atteso che la determinazione, operata dalla Corte di merito, di una somma pari a circa 500 Euro per ogni anno di ritardo, peraltro motivata dalla inapprezzabile presunzione di una sofferenza fortemente affievolita dalla partecipazione al giudizio insieme con un gran numero di altri ricorrenti, non rispetti l’obiettivo di assicurare un serio ristoro, al quale la Corte Europea ha fatto costante riferimento;

che il collegio considera che uno scostamento rispetto al parametro base Europeo di mille Euro per anno di non ragionevole durata del processo, ma non al di sotto della soglia di settecento cinquanta Euro per anno, sia giustificato, anche alla stregua dei più recenti orientamenti della Corte Europea (cfr.Volta et autres c. Italia, 16 marzo 2010; Falco et autres c. Italia, 6 aprile 2010), quando ricorrano circostanze quali quelle qui evidenziate ed una durata del processo che non abbia superato di oltre tre anni quella ordinaria, mentre per il periodo ulteriore uno scostamento da quel parametro di mille Euro non si giustifichi (cfr. in tal senso, ex multis, Cass. n. 22869/2009; n. 1893/2010; 19054/2010);

che pertanto si impone la cassazione del decreto impugnato, restando assorbito in tale pronuncia il terzo motivo di ricorso;

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa può essere decisa nel merito alla stregua dei criteri indicati:

considerato che il giudizio si è protratto per ulteriori tre anni e tre mesi circa oltre quello di ragionevole durata, deve liquidarsi in favore del ricorrente un’equa riparazione pari a Euro 2.500,00 alla quale devono aggiungersi gli interessi legali a decorrere dalla data della domanda di indennizzo;

che, quanto alle spese del giudizio di merito, la compensazione in misura pari alla metà quota che si liquida come in dispositivo si giustifica tenendo presente il sensibile ridimensionamento della pretesa; le spese di questo giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e Finanze al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 2.500,00 oltre interessi legali su detta somma dalla domanda; condanna inoltre il Ministero al rimborso in favore del ricorrente della metà delle spese del giudizio di merito, compensata tra le parti la residua quota, spese liquidate per l’intero in complessivi Euro 806,00 di cui Euro 445,00 per onorari e Euro 311,00 per diritti, e delle spese di questo giudizio di legittimità liquidate in complessivi Euro 595,00 di cui Euro 100,00 per spese, oltre per entrambi i gradi spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore degli avv.ti Salvatore e Umberto Coronas che se ne sono dichiarati antistatari.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.