Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 21-12-2010) 19-01-2011, n. 1333 Giudizio d’appello rinnovazione del dibattimento; Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 26 febbraio 2008 il gup del Tribunale di Ferrara, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava:

– P.M., P.N. colpevoli dei delitti di rapina continuata pluriaggravata continuata in pregiudizio di "Bsk Securmark", B.R., P.P., S. D., tentato omicidio plurimo, detenzione e porto illegale di armi e, ritenuta sussistente la contestata recidiva specifica, ravvisata l’unicità del disegno criminoso, applicata la riduzione per il rito, li condannava alla pena di undici anni e quattro mesi di reclusione ed Euro 2.600 di multa, oltre alle pene accessorie;

– S.O. responsabile dei delitti di rapina continuata pluriaggravata continuata in pregiudizio di "Bsk Securmark", B. R., P.P., S.D. e di ricettazione dei furgoni e, operata la riduzione per il rito, lo condannava alla pena di quattro anni, due mesi e venti giorni di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa, oltre alle pene accessorie.

– G.F. colpevole dei delitti di rapina continuata pluriaggravata continuata in pregiudizio di "Bsk Securmark", B. R., P.P., S.D. e, ritenuta integrata la contestata recidiva reiterata specifica, ravvisata la continuazione tra i reati, applicata la diminuente per il rito, lo condannava alla pena di quattro anni e quattro mesi di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa.

2. Il 4 febbraio 2009 la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma della decisione di primo grado, assolveva M. e P.N. dal reato di tentato omicidio in danno di B.R., P.P. e S.D., perchè il fatto non costituisce reato, e, ritenuta l’esistenza della diminuente dell’art. 116 c.p. con riferimento al tentato omicidio in danno di P.E. e C.A., riduceva la pena loro rispettivamente inflitta a dieci anni, quattro mesi di reclusione ed Euro 2.430,00 di multa ciascuno.

Revocava l’interdizione legale e la misura della sospensione della potestà genitoriale applicata a F.G. e S. O..

3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che il (OMISSIS) sei uomini armati, viaggianti a bordo di due mezzi rubati, su cui erano state apposte targhe rubate, avevano tentato di impossessarsi, del denaro trasportato da un furgone portavalori della ditta "BSK Securmarc", esplodendo numerosi colpi di fucile kalasnikov all’indirizzo della cabina di guida del portavalori e minacciando il conducente, posizionando dell’esplosivo al plastico sulla porta del caveau all’interno del furgone portavalori e facendolo parzialmente esplodere. In tale contesto si erano impossessati, con le modalità sopra descritte, di armi, caricatori, munizioni, di un cellulare, di un portafoglio, di somme di denaro, sottraendoli alle guardie giurate P.P. e S.D., nonchè di un plico contenente mille/00 Euro in monete da 2. L’azione non conseguiva pienamente il suo obiettivo a causa della mancata completa esplosione e conseguente non apertura del vano ove il denaro era custodito. Durante l’azione venivano esplosi alcuni colpi di kalasnikov all’indirizzo di una volante della Polizia, condotta da P.E. e C. A., nel frattempo intervenuta.

I giudici fondavano l’affermazione di penale responsabilità degli imputati sulla base dei seguenti elementi: a) dichiarazione auto ed etero accusatori e rese da G.S.; b) deposizioni delle guardie giurate B.R., P.P., S. D., che riferivano concordemente in ordine alle varie fasi dell’agguato a mano armata posta in essere in loro danno all’atto del prelievo dell’incasso del supermercato "Metro"; c) testimonianza di P.R., incaricata della consegna degli incassi del centro commerciale "Metro" alle guardie giurate; d) rinvenimento e riconoscimento delle armi, del lampeggiatore, del "mulinello" (rocchetto di legno a cui era avvolto filo elettrico rosso e nero) usati per la consumazione della rapina, oggetti tutti fatti ritrovare da G.S.; e) risultanze della consulenza balistica; f) sequestro e riconoscimento delle armi rapinate alle guardie giurate, fatte ritrovare da G.S.; g) accertamenti svolti in merito ai mezzi rubati per la consumazione della rapina e alle loro modalità e circostanze di tempo e di luogo di rinvenimento; h) esito dei rilievi svolti sul furgone blindato portavalori, evidenzianti i fori d’ingresso dei colpi esplosi, il tentativo di forzatura del portellone posteriore, la presenza di circa 380 grammi di esplosivo e la realizzazione, nella parte posteriore, di una blindatura, circostanze fattuali tutte coincidenti con il racconto fatto da G.S.; l) rinvenimento e sequestro di un bidone di chiodi a quattro punte, usati dai rapinatori durante la fuga per ostacolare qualsiasi forma di inseguimento e garantirsi la fuga; m) contenuto delle intercettazioni ambientali ritualmente svolte a bordo dell’auto Audi S8, rubata, utilizzata per effettuare i sopralluoghi propedeutici alla rapina e pere provare l’esplosivo e poi ritrovata nel corso della perquisizione a carico di S.O., nonchè risultanze dello "stub" effettuato a bordo del mezzo che consentiva il rinvenimento di cinque particelle di piombo-bario-antimonio, univocamente indicative (ad avviso dei giudici) dello sparo; n) risultanze di altri procedimenti penali (proc. pen. n. 7028/01 e 3932/02), i cui atti sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 238 c.p.p., comprovanti i rapporti tra gli imputati, l’esito dei servizi di osservazione svolti dalla p.g.; o) esito delle indagini esperite in merito alle auto prese a noleggio, nel lasso di tempo comprendente la consumazione della rapina, da parte di Sa.Fr., dipendente di G.F.; p) dichiarazioni rese da M.R. che ammetteva di avere ceduto un chilo di esplosivo a G.S., secondo quanto del resto riferito da quest’ultimo; p) risultanze degli accertamenti effettuati in merito ai mezzi presenti presso la carrozzeria "Crivellaro" di C. P. (indicata da G.S. come luogo di occultamento delle armi), evidenzianti, tra l’altro, la presenza di un’Audi S 3 turbo, intestata a O.J., moglie di P.N..

4. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione G.F. personalmente e, tramite i rispettivi difensori di fiducia, P.N., P.M., S. O..

G.F. ha omesso di presentare i motivi a sostegno dell’impugnazione.

P.N. denuncia violazione dell’art. 603 c.p.p. con riferimento all’omessa riapertura dell’istruttoria in appello finalizzata all’assunzione della testimonianza di B.E., rilevante per provare la presenza di P.M. in (OMISSIS) in un orario incompatibile con la consumazione della rapina.

Con un secondo motivo lamenta la violazione dei canoni di valutazione probatoria, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’apprezzamento della chiamata in correità operata da G.S.. La stessa non appare credibile sia da un punto di vista soggettivo, avuto riguardo alla inattendibilità delle dichiarazioni da lui rese in merito ai proventi delle rapine commesse e alla mancata consegna degli stessi, che da un punto di vista oggettivo, tenuto conto della riferita causale del reclutamento, dell’assenza di riscontri estrinseci individualizzanti in merito alla presenza di P. sul luogo del fatto e alla sua partecipazione ai reati. La sentenza impugnata ha applicato erroneamente la legge processuale, laddove ha ritenuto che elementi di riscontro estrinseco individualizzante siano costituiti: a) dalle dichiarazioni rese da M., tenuto conto della sua successiva ritrattazione e della riferita ragione delle originarie accuse; b) dal contenuto delle intercettazioni del (OMISSIS) (in cui il ricorrente parla genericamente dell’opportunità di simulare un accento napoletano per depistare eventuali indagini) del (OMISSIS) (in cui P.N. e G. S. mostrerebbero preoccupazioni per eventuali scelte collaborative altrui) in assenza di qualsiasi obiettivo collegamento con la rapina di (OMISSIS); c) dal controllo effettuato il (OMISSIS) nei confronti di N. e P. M. in territorio di Campolongo, considerata l’inconciliabilità, da un punto di vista cronologico, delle suddette presenze rispetto ai tempi di percorrenza, all’orario di consumazione della rapina e agli spostamenti riferiti da G.S. nel corso di plurimi interrogatori, caratterizzati da assenza di univocità e ispirati all’evidente intento di adeguare le proprie propalazioni alle risultanze investigative progressivamente acquisite.

Si duole, inoltre, dell’erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta configurabilità degli elementi costitutivi del tentato omicidio in danno degli agenti di Polizia sopraggiunti, tenuto conto delle dichiarazioni della guardia giurata P. P., evidenzianti l’esplosione contro la Polizia di soli due colpi d’arma da fuoco e, comunque, di un limitato numero di proiettili, peraltro non diretti contro parti vitali del corpo degli poliziotti, viaggianti a bordo di un mezzo blindato e del breve lasso di tempo di svolgimento dell’azione, secondo quanto documentato nell’annotazione di polizia giudiziaria del 10 dicembre 2002.

Lamenta, poi, erronea applicazione della legge penale, mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla dosimetria della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto dell’assenza di plurimi e significativi precedenti penali, della giovane età, dello svolgimento di attività lavorativa.

P.M. denuncia, a sua volta, violazione dell’art. 603 c.p.p. con riferimento all’omessa riapertura dell’istruttoria in appello finalizzata all’assunzione della testimonianza di B. E., rilevante per provare la presenza di P. M. in (OMISSIS) in un orario incompatibile con la consumazione della rapina.

Lamenta, poi, la violazione dei canoni di valutazione probatoria, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’apprezzamento della chiamata in correità operata da G.S., tenuto conto dell’inverosimiglianza delle sue dichiarazioni in ordine al coinvolgimento nella rapina del ricorrente, la cui presenza era obiettivamente superflua considerati:

a) l’assenza di specifica esperienza, la precedente consumazione di altre rapine da parte di cinque e non sei individui;

b) la genericità del dato costituito dal rinvenimento di una pistola presso la sua abitazione;

c) le caratteristiche fisiche dei rapinatori riferite dalla teste P.R., inconciliabili con quelle dell’imputato;

d) il carattere non significativo, nella prospettiva di cui all’art. 192 c.p.p., del riferimento all’accento veneto;

e) l’inconciliabilità, da un punto di vista cronologico, della presenza di P. rispetto agli orari del controllo documentati dalle forze dell’ordine, ai tempi di percorrenza, all’orario di consumazione della rapina e agli spostamenti riferiti da G. S. nel corso di plurimi interrogatori, caratterizzati da assenza di univocità e ispirati all’evidente intento di adeguare le proprie propalazioni alle risultanze investigative progressivamente acquisite.

Si duole, inoltre, dell’erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta configurabilità degli elementi costitutivi del tentato omicidio in danno degli agenti di Polizia sopraggiunti, tenuto conto delle dichiarazioni della guardia giurata P. P., evidenzianti l’esplosione contro la Polizia soltanto di un paio di colpi d’arma da fuoco e, comunque, di un limitato numero di proiettili, peraltro non diretti contro parti vitali del corpo degli poliziotti, viaggianti a bordo di un mezzo blindato e del breve lasso di tempo di svolgimento dell’azione, secondo quanto documentato nell’annotazione di polizia giudiziaria del 10 dicembre 2002.

Denuncia, infine, erronea applicazione della legge penale, mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla dosimetria della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto dell’assenza di plurimi e significativi precedenti penali, della giovane età, dello svolgimento di attività lavorativa.

S.O. lamenta, a sua volta, la violazione dei canoni di valutazione probatoria, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione per assenza di credibilità soggettiva di G.S., mosso da motivi di rancore nei confronti del ricorrente, atteso che questi, all’atto della perquisizione presso la sua abitazione, aveva immediatamente riferito che le auto rinvenute nel suo garage appartenevano a G.S., e per mancanza di elementi di riscontri estrinseci individualizzanti alle contraddittorie propalazioni del dichiarante, non potendosi ritenere tale il controllo effettuato dai Carabinieri nei confronti dei fratelli P. il (OMISSIS) su una strada compatibile.

Con un secondo motivo si duole dell’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta configurabilità del concorso nella rapina delle armi in danno delle guardie giurate che, al più, avrebbe potuto essergli addebitata ai sensi dell’art. 116 c.p..

Con un ultimo motivo lamenta la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla dosimetria della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della complessiva condotta di vita.

Motivi della decisione

1. Il ricorso di Gherardo Filiberto è inammissibile, ai sensi del combinato disposto dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. b) e art. 581 c.p.p., lett. e), per omessa presentazione dei motivi.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di cinquecento/00 Euro alla cassa delle ammende.

2. Il primo motivo di ricorso, presentato da N. e da P.M. con coincidenza di prospettazione non è fondato.

In tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello, l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio. Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti; nel secondo, deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa.

Con riguardo alla prima ipotesi, in considerazione del principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, la rinnovazione del dibattimento in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti. Pertanto, in caso di rigetto della richiesta avanzata dalla parte, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla struttura argomentativa della sentenza d’appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione o alla negazione di responsabilità dell’imputato (Sez. 5^, 1 febbraio 2000, n. 01075; Sez. 2^, 7 luglio 2000, n. 08106; Sez. 5^, 8 agosto 2000, n. 08891).

Considerato, quindi, che nel giudizio di appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, postulando una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, ritiene il Collegio che, da un lato, il giudice di merito ha dimostrato in positivo, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, la sufficiente consistenza e l’assorbente concludenza delle prove già acquisite e, dall’altro, i ricorrenti non hanno dimostrato l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora si fosse provveduto all’assunzione delle richieste prove in sede di appello, idonee a svalutare il peso del materiale probatorio raccolto e valutato.

3. Parimenti infondati sono i secondo motivi di ricorso formulati da M. e P.N. e la prima censura dedotta da S.O. che possono essere esaminati congiuntamente, considerata la sostanziale coincidenza delle argomentazioni difensive.

I giudici di merito hanno particolarmente valorizzato, ai fini della motivazione della sentenza impugnata, le dichiarazioni auto ed etero accusatorie del collaboratore di giustizia G.S., esecutore materiale di molti delitti e, perciò, a conoscenza diretta delle vicende narrate e delle persone coinvolte.

Sotto i profili della credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto del dichiarante, la sentenza impugnata non merita censura, essendo supportata da adeguato e logico apparato argomentativo, immune da vizi sindacabili in sede di legittimità, avuto riguardo alla personalità di colui che ha reso le dichiarazioni, alle sue condizioni socio – economiche e personali, al suo passato, ai suoi rapporti con gli accusati, alla genesi remota e prossima della scelta processuale compiuta, alle caratteristiche di precisione, coerenza, costanza, spontaneità, mancanza di un movente calunniatorio delle dichiarazioni accusatorie.

Considerazioni analoghe valgono per l’affidabilità dei riscontri esterni di carattere generico, poichè la sentenza impugnata ha puntualmente indicato le coerenze, con altre significative risultanze processuali, di quanto narrato, in relazione alle modalità e alle circostanze di tempo e di luogo di commissione dei delitti.

E però, la presenza di riscontri esterni dimostrativi della sicura conoscenza da parte del chiamante delle modalità obiettive dei fatti dedotti nelle imputazioni non giustifica ancora l’affermazione giudiziale di responsabilità e la pronuncia di condanna in assenza di riscontri "individualizzanti", attinenti cioè anche alla partecipazione del singolo imputato a ciascuno degli episodi criminosi a lui addebitati. Risulta, invero, ormai compiutamente delineata nella giurisprudenza di legittimità, in tema d’interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 l’indicazione dell’operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata in correità, secondo cui essa, perchè possa assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato e possa essere posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità, abbisogna, oltre che di un positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri estrinseci, i quali debbono avere carattere "individualizzante", cioè riferirsi a elementi di qualsiasi tipo e natura, anche di ordine puramente logico, ma che riguardano direttamente la persona dell’incolpato, in relazione a tutti gli specifici reati a lui addebitati.

E, per il principio di frazionabilità della chiamata in correità, si aggiunge che, quando essa contenga più accuse in confronto di più persone per il medesimo episodio o per una pluralità di episodi, l’affermazione di responsabilità postula che a carico di ciascuno dei chiamati sia ravvisabile un elemento esterno di riscontro individualizzante, non potendo l’affidabilità delle dichiarazioni del chiamante, che pure trovino conferme oggettive negli accertati elementi del fatto criminoso e soggettivi nei confronti di uno dei chiamati, estendersi congetturalmente nei confronti di un altro chiamato sulla base di non consentite, reciproche, inferenze totalizzanti.

Nel caso di specie la sentenza impugnata è conforme ai principi giuridici in precedenza illustrati, in quanto, con motivazione compiuta ed esente da vizi logici e giuridici, ha puntualmente analizzato, in relazione alle posizioni dei singoli ricorrenti i motivi per i quali le dichiarazioni acquisite sono da ritenere intrinsecamente attendibili e sono confortate da elementi di riscontro esterno "individualizzante". Essi sono costituiti dalle deposizioni testimoniali dei soggetti presenti in occasione della commissione e, in particolare, da P.R., dalle dichiarazioni rese da M.R., imputato di reato connesso, dalle deposizioni delle parti offese ( B.R., P. P., S.D., P.R.), dai rilievi tecnici svolti sul furgone blindato portavalori e dalla consulenza balistica espletata, dal sequestro e dal riconoscimento delle armi rapinate alle guardie giurate, dagli accertamenti svolti in merito ai mezzi rubati per la consumazione della rapina e alle loro modalità e circostanze di tempo e di luogo di rinvenimento, dalle risultanze delle perquisizioni e dei sequestri operati, dal contenuto delle intercettazioni ambientali ritualmente svolte a bordo dell’auto "Audi S 8" rubata, nonchè dalle risultanze del controllo effettuato nei confronti di M. e P.N. il (OMISSIS), muovendo dall’abitazione di S.O. e dagli atti dei procedimenti penali acquisiti ai sensi dell’art. 238 cod. proc. pen. 4. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d)non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6^, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6^, 15 marzo 2006, n. 10951).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha illustrato in maniera analitica gli elementi di fatto, indicati al paragrafo che precede – insindacabili in sede di legittimità, ove sorretti, come nel caso di specie, da congruo apparato motivazionale – su cui ha fondato l’affermazione di penale responsabilità degli imputati e ha spiegato come le censure difensive sono prive di pregio, essendo volte in realtà ad una non consentita ricostruzione alternativa dell’accaduto.

5. Non fondato è anche il terzo motivo di ricorso concordemente prospettato, con identità di argomentazioni, da M. e P.N..

La valutazione circa l’esistenza o meno dell’animus necandi – che rifiuta ogni presunzione che, oltre a contrastare con al personalità della responsabilità penale, non si concilierebbe con l’essenza del dolo – costituisce il risultato di un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, a base della quale può essere posto qualsiasi dato probatorio acquisito al processo, che appaia rilevante per tale profilo. In mancanza di attendibile confessione, la prova del dolo omicida è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonchè tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, sottolineando la pluralità dei colpi esplosi contro la parte centrale del finestrino, lato guidatore e, quindi, ad altezza d’uomo, contro l’autovettura a bordo della quale si trovavano i poliziotti, la loro direzione, il tramite dei colpi, la posizione reciproca tra aggressori e parti offese, la breve distanza da cui furono esplosi i colpi stessi, le caratteristiche micidiali delle armi utilizzate.

6. Parimenti infondata è la violazione dell’art. 116 cod. pen. dedotta dalla difesa di S.O..

Elementi costitutivi della fattispecie descritta dall’art. 116 cod. pen. sono l’esistenza di un accordo al fine di commettere un reato concordemente voluto, la concreta commissione di un reato diverso e più grave di quello concordato, il nesso di causalità materiale fra la condotta attiva o omissiva del reato voluto e l’evento del diverso tipo di reato realizzato, il rapporto di causalità psicologica fra le azioni degli autori di entrambi i reati. Secondo l’orientamento ormai dominante nella giurisprudenza di legittimità l’art. 116 c.p. non configurerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva, inconciliabile con il principio di colpevolezza come interpretato dalla Corte costituzionale alla luce della regola della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost., comma 1 (C. cost, sent. n. 42 del 1965; e n. 364 del 1988.), bensì un’ipotesi di responsabilità a titolo di dolo rispetto alla condotta del reato – base voluto e meno grave ed a titolo di colpa rispetto all’evento non voluto diverso e più grave, consistente nella violazione delle regole di prudenza, per essersi il compartecipe imprudentemente affidato per l’esecuzione di condotta criminosa al comportamento di altro soggetto che sfugge al suo controllo finalistico. La responsabilità per concorso anomalo sarebbe ravvisabile solo quando l’evento diverso e più grave di quello voluto dal compartecipe costituisca uno sviluppo logicamente prevedibile da un soggetto di normale intelligenza e di cultura media, quale possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, non spezzata da fattori accidentali e imprevedibili. L’applicabilità della norma soggiace quindi a due limiti negativi: che l’evento diverso non sia stato voluto neanche sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale, perchè in tal caso sussisterebbe la tipica responsabilità concorsuale ai sensi dell’art. 110 c.p. (Sez. 1^, 7 marzo 2003, n. 12610); che l’evento più grave concretamente realizzato non sia conseguenza di fattori eccezionali sopravvenuti, imprevedibili dall’agente e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base, e non si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di causalità.

Nel caso in esame il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione di questi principi, escludendo la configurabilità dell’ipotesi di cui all’art. 116 c.p. alla luce del dolo diretto che ha sorretto la condotta di S.O., il quale metteva coscientemente e volontariamente la sua abitazione a disposizione degli altri imputati quale base logistica nell’ambito della consumazione della rapina anche in vista dell’occultamento delle armi funzionali alla sua realizzazione.

7. Infondata, infine, sono anche le censure formulate dai ricorrenti N. e P.M. e S.O. in tema di dosimetria della pena.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di dosimetri della pena, mettendo in luce, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche e del complessivo trattamento sanzionatorio, la particolare gravità dei fatti, contraddistinti da un’accurata preparazione, le loro modalità, caratterizzate dal ricorso all’uso di mezzi micidiali e da connotati di particolare violenza, la negativa personalità degli imputati N. e P.M., gravati da precedenti penali, l’apporto causalmente rilevante fornito da S.O. alla consumazione degli illeciti.

Per tutte queste ragioni s’impone il rigetto dei ricorsi di N. e P.M. e di S.O. con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di G.F..

Rigetta i ricorsi di P.N., P.M., S.O..

Condanna tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè il solo G.F. al versamento della somma di cinquecento/00 Euro alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 14-01-2011) 04-02-2011, n. 4398 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A.G. ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 12 giugno 2008 della Corte di appello di Napoli, la quale, in parziale riforma della sentenza 14 febbraio 2007 del Tribunale di Avellino, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti ha ridotto la pena ad anni 2 e mesi 8 di reclusione ed Euro 8 mila di multa per il reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 4 e art. 80, comma 1, lett. a).

La responsabilità dell’ A. è stata ritenuta dai giudici di merito sulla scorta delle dichiarazioni di P.S., D.M.F. e R.M., nonchè delle conformi risultanze processuali.
Motivi della decisione

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge,con riferimento all’art. 350 c.p.p., comma 7, artt. 500, 513 e 64 c.p.p. e L. n. 63 del 2005, art. 26.

In sostanza si lamenta che la decisione di condanna sia stata basata sulle dichiarazioni rese da R.M. alla Polizia giudiziaria in violazione dell’art. 191 c.p.p., trattandosi di prove illegittimamente acquisite in sede di indagini preliminari, senza gli avvisi prescritti dall’art. 64, comma 3, lett. a) e b), nonchè in violazione dell’art. 500 c.p.p., commi 4 e 5.

Il motivo, per quanto attiene alla violazione dell’art. 500 c.p.p., e come evidenziato dallo stesso Procuratore generale, manca di specificità e non tiene conto della concreta diffusa e corretta motivazione della Corte di appello.

Per ciò che concerne la prospettata violazione dell’art. 64 c.p.p. essa palesemente non sussiste in quanto il P.M. esercitò l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio prima dell’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione sulla affermazione di responsabilità che non ha per nulla considerato la possibilità di una diversa e più favorevole lettura dei fatti, in relazione alla provata realtà di un pacifico uso di gruppo in assenza di indicazioni circa cessioni diverse.

Il motivo è inammissibile.

Le critiche che lo sostanziano sono infatti finalizzate ad ottenere una non consentita rivalutazione degli esiti probatori, nei termini quali pesati ed analiticamente argomentati dai giudici di merito, e si risolvono nella sostanziale ed inaccettabile richiesta di rivisitazione degli elementi di fatto, posti a base della ragionevole decisione della Corte distrettuale, la quale, proprio perchè logicamente sostenuta e adeguatamente correlata ai dati probatori, non può essere censurata sotto il profilo della possibile prospettazione di una diversa e, per il ricorrente, più favorevole valutazione delle emergenze processuali (cfr. in termini: Cass. Penale sez. 2, 15077/2007, Toffolo).

Con un terzo motivo si prospetta difetto logico di motivazione in ordine al negato riconoscimento della attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Anche questa doglianza è palesemente infondata.

La corte distrettuale ha escluso l’attenuante avuto riguardo alle modalità dello spaccio connotato da attività continuativa, supportata da un’organizzazione collaudata e rafforzata dall’impiego, nelle cessioni, di persone legate da sperimentata amicizia con il R. e l’ A..

Trattasi di giustificazione più che idonea ad escludere la levità offensiva richiesta dalla norma invocata e non censurabile in sede di legittimità, attesa la sua logicità e correttezza.

Il ricorso pertanto, nella palese verificata coerenza logico- giuridica ed adeguatezza della motivazione, quale proposta nella decisione impugnata, va dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-04-2011, n. 7861 Revocazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A.R., R.P. e R.Z. propongono ricorso per revocazione, affidato a cinque motivi ed illustrato da successiva memoria, della sentenza n. 22291/09 di questa Corte che ha rigettato il loro ricorso contro sentenza della Corte di appello di Venezia.

Dal Col. M., in qualità di procuratore speciale di D.R. C., d.r.G. e D.R.L., D.R.G., D.R.M. e De.Ro.Gi. resistono con controricorso.

De.Ro.Gi., + ALTRI OMESSI non si sono costituiti.

All’adunanza in camera di consiglio del 25/11/2010 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza.
Motivi della decisione

1.- La vicenda processuale trae origine da un sinistro verificatosi la notte dell'(OMISSIS), nel quale persero la vita un motociclista ed un pedone, che attraversava la strada.

I figli ed i fratelli del pedone convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Treviso gli eredi del motociclista e la Gan Assicurazioni chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.

In via riconvenzionale, la madre e i due fratelli del motociclista deceduto chiesero il risarcimento dei danni agli attori.

Il Tribunale di Treviso, con sentenza del 17/10/02, dichiarava estinto il giudizio tra gli attori e la Gan Assicurazioni per rinuncia alla domanda e rigettava la domanda riconvenzionale perchè estinta per prescrizione, condannando i convenuti alle spese.

Sull’appello dei convenuti, la Corte di appello di Venezia dichiarava la cessazione della materia del contendere (in luogo dell’estinzione) tra gli attori e la Gan, confermava per il resto la sentenza di primo grado e, ritenuta la soccombenza virtuale dei convenuti, li condannava al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso detta sentenza gli eredi del motociclista proposero ricorso per cassazione, assumendo, per quanto qui interessa, con il secondo motivo, che il decorso del termine prescrizionale biennale dovesse ritenersi sospeso durante il tempo per l’accettazione dell’eredità e censurando, con il terzo motivo, il vizio di motivazione quanto alla dinamica dell’incidente. Entrambi i motivi furono respinti.

2.- Deducono con il primo motivo di revocazione i ricorrenti che la Corte avrebbe travisato il secondo motivo di ricorso ed il relativo quesito, interpretandolo come se la sospensione invocata fosse quella relativa al periodo tra la morte del loro dante causa e la loro accettazione invece che quella tra la morte del pedone e la accettazione dei suoi eredi, convenuti in riconvenzionale.

2.1- Il mezzo è inammissibile.

Anche a prescindere dal fatto che la lettura della sentenza non conforta l’assunto dei ricorrenti circa l’errore in cui la Corte sarebbe incorsa, è assorbente il rilevo che l’istanza di revocazione di una sentenza della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. civ., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emergi dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (Cass. 22171/10).

Nel caso di specie, viceversa, i ricorrenti in revocazione non lamentano un errore su un fatto decisivo, bensì l’erronea interpretazione del loro ricorso, per la quale non è consentita la revocazione (Cass. ord. 24369/09).

3.- Del pari inammissibile, per le medesime ragioni, è il secondo motivo, con il quale ci si duole di un errore nella valutazione del terzo motivo di ricorso per cassazione.

4.- Con il terzo motivo i ricorrenti, ancora con riferimento al rigetto del terzo motivo del loro ricorso per cassazione, denunciano l’errata lettura delle carte processuali di secondo grado "nell’affermata colpa esclusiva del motociclista siccome riferita alla statuizione dei giudici del merito".

Si dolgono, più in particolare, dell’affermazione secondo cui "nella specie i giudici del merito hanno invece valutato in modo coerente e completo le risultanze degli atti, pervenendo al convincimento, adeguatamente e compiutamente motivato, della responsabilità esclusiva del conducente della moto", assumendo che tale affermazione non corrisponderebbe alle carte processuali, essendo invece affermata nella sentenza di secondo grado la possibilità di una, pur minoritaria, responsabilità del pedone.

4.1.- Anche il terzo motivo è inammissibile.

Premesso, nel merito, che la pretesa risarcitoria dei ricorrenti era stata ritenuta prescritta, e che pertanto l’accertamento della responsabilità rileva ai soli fini della soccombenza virtuale, in relazione al regolamento delle spese di primo e di secondo grado, è evidente che i ricorrenti difettano di interesse all’accertamento che, dalla sentenza di appello, risulterebbe che la responsabilità del conducente della moto non è esclusiva ma prevalente, in quanto – come correttamente si legge nella sentenza di appello – tale accertamento era comunque idoneo a fondare la loro condanna alle spese.

5.- Con il quarto motivo i ricorrenti in revocazione si dolgono della omessa pronuncia sul denunciato vizio di violazione della legge con riferimento al mancato esame anche della condotta del pedone alla luce dell’art. 1227 c.c., comma 1, e art. 2043 cod. civ., artt. 190 e 140 C.d.S. e art. 41 cod. pen. 5.1.- Il quarto motivo è palesemente inammissibile, risolvendosi non nella denuncia di un errore revocato rio, ma nella censura di una violazione di legge.

6.- Con il quinto motivo, i ricorrenti denunciano l’omessa decisione sulla questione di legittimità costituzionale della norma che dispone un termine prescrizionale di appena due anni nel caso di omicidio colposo con violazione delle norme circolatorie e di morte del reo.

6.1.- Anche il quinto motivo è inammissibile.

Premesso che, in sede di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, non può sollecitarsi un inammissibile riesame del precedente giudizio (Cass. 9396/06), è palese che non integra un errore revocatorio la mera circostanza che la sentenza non si sia espressamente pronunciata su una eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 2947 cod. civ., avendo tuttavia puntualmente esaminato, escludendola, la denunziata violazione della norma.

7.- Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Appare equo disporre, così come nella sentenza impugnata, la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.

LA CORTE dichiara il ricorso inammissibile e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-05-2011, n. 10008 Riduzione di donazioni e di disposizioni testamentarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.1. – Con citazione del 13 febbraio 2002, C.A., L. e S.G. – rispettivamente, moglie e figli di S.A. – convennero dinanzi al Tribunale di Venezia Gi. e S.T. – fratelli di S.A. – esponendo, tra l’altro, che: 1) i nonni paterni degli attori ( L. e S.G.), S.G. – deceduto il (OMISSIS) – e M.Z. – deceduta il (OMISSIS) – avevano disposto per testamenti olografi pubblicati rispettivamente il 30 giugno 1993 ed il 9 settembre 1994, recanti però la stessa data di redazione del 13 ottobre 1979; 2) tali testamenti – che avevano totalmente pretermesso di disporre per il figlio A. – contenevano, oltre la stessa data (probabilmente non veritiera), anche altri elementi che inducevano a dubitare della loro validità;

3) conseguentemente, ove fosse stata accertata la loro nullità, si sarebbe aperta la successione legittima; 4) gli attori L. e S.G. – ai sensi degli artt. 467 e 468 cod. civ. – dichiaravano di agire in rappresentazione del loro padre S. A., del quale erano stati dichiarati il fallimento con sentenza del Tribunale di Padova in data 18 luglio 1984, la scomparsa (a seguito di incidente in mare avvenuto il (OMISSIS)) con sentenza dello stesso Tribunale in data 25 giugno 2001, e successivamente la morte presunta a far data dal giorno del predetto incidente.

Tanto esposto, gli attori chiesero, tra l’altro, che il Tribunale adito: in via principale, dichiarasse la nullità del testamento olografo di M.Z. per mancanza od incompletezza della autografia; in subordine, annullati i testamenti olografi di S.G. e di M.Z. – in quanto entrambi inficiati da gravi e determinanti errori di fatto e di diritto -, dichiarasse aperta la successione legittima dei loro eredi, con conseguente determinazione delle rispettive quote di partecipazione alle comunioni ereditarie; in ulteriore subordine, accogliesse la domanda di riduzione ereditaria proposta da S.L. e G., ai sensi dell’art. 554 cod. civ.; in ogni caso, accertasse e determinasse l’entità dei due assi ereditari e le quote spettanti a ciascun erede, procedendo poi alla divisione ereditaria.

Costituitisi, i convenuti Gi. e S.T. resistettero alle domande e, in subordine, spiegarono alcune domande riconvenzionali.

1.2. – Con distinto atto di citazione del 24 luglio 2002, L. e S.G. convennero nuovamente dinanzi allo stesso Tribunale Gi. e S.T., formulando le medesime domande proposte nel precedente giudizio.

I convenuti, costituitisi, resistettero alle domande formulando le medesime eccezioni e spiegando le medesime domande riconvenzionali di cui al precedente giudizio.

In tale giudizio intervenne volontariamente il Fallimento di S.A., chiedendo preliminarmente la reiezione delle domande di L. e S.G., sul principale rilievo che gli attori erano privi di legittimazione attiva, in quanto la successione di S.G. e di M.Z. si era aperta in pendenza del fallimento del figlio S.A., con la conseguenza che i beni ereditari appartenevano al Fallimento ai sensi della L. Fall., art. 42, con le ulteriori conseguenze che la legittimazione apparteneva al curatore fallimentare e che gli attori non potevano agire in rappresentazione del loro padre A..

Concluse, pertanto, formulando domande analoghe a quelle formulate dagli attori.

Riunite le due cause all’udienza del 15 novembre 2002, il Tribunale adito, con la sentenza n. 1720/03 del 1 agosto 2003, dichiarò la nullità della citazione del 13 febbraio 2002 e, con separata ordinanza, rimise la causa sul ruolo, assegnando alle parti termini perentori per il deposito di memorie istruttorie.

Con atto del 7 novembre 2003, C.A. intervenne volontariamente nel giudizio, aderendo a tutte le domande proposte da L. e S.G..

Con la sentenza non definitiva n. 1152/05 del 20 maggio 2005, il Tribunale di Venezia dichiarò il difetto di legittimazione attiva di L. e S.G. e la legittimazione attiva del Fallimento di S.A. e, con separata ordinanza, rimise la causa sul ruolo per l’ulteriore istruzione.

2. – Avverso tale sentenza interposero appello, con distinti atti, L. e S.G., convenendo dinanzi alla Corte d’Appello di Venezia Gi. e S.T. nonchè il Fallimento di S.A.. S.G. chiese tra l’altro, per quanto in questa sede rileva: "Nei confronti di entrambi i convenuti e l’intervenuto Fallimento: a) Dichiararsi la nullità dell’intero procedimento per mancato esperimento dell’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c.; e rimettersi l’intero procedimento alla fase anteriore di cui all’art. 180 c.p.c.; b) Rilevata la violazione dell’art. 187 c.p.c., comma 2 e quindi la nullità dell’ordinanza in data 05.12.2003 che ha rinviato per la precisazione delle conclusioni non disponendo la prosecuzione dell’istruzione, rimettersi la causa in istruttoria per lo svolgimento di tale incombente … . Nei confronti del Fallimento S.A.: 1) In principalità dichiararsi inammissibile l’intervento del Fallimento S. per carenza di legittimazione attiva, sia in ordine all’azione di riduzione, sia alla partecipazione alla successione legittima in luogo dello scomparso fallito; 2) In subordine dichiararsi l’inammissibilità dell’intervento del Fallimento S. per mancanza di accettazione beneficiata; 3) Rigettarsi in ogni caso le domande formulate dal Fallimento nei confronti dei convenuti Gi. e S.T. i quali debbono ritenersi legittimati passivi solo nei confronti degli attori L. e S.G.".

Si costituirono, resistendo all’appello, Si.Gi. e T. ed il Fallimento di S.A..

La Corte adita, con la sentenza n. 1654/08 del 17 dicembre 2008, respinse entrambi gli appelli.

In particolare, la Corte di Venezia, per quanto in questa sede ancora rileva:

A) quanto al motivo d’impugnazione – con il quale gli appellanti avevano denunciato la nullità dell’intero procedimento di primo grado, in quanto nella causa promossa con la citazione del 24 luglio 2002, riunita alla precedente promossa con la citazione del 13 febbraio 2002, era stata violata la norma di cui all’art. 183 cod. proc. civ. (nel testo vigente anteriormente alle riforme del 2005- 2006), essendo stata tenuta soltanto l’udienza di prima comparizione immediatamente seguita da rinvio per gli incombenti di cui al successivo art. 184 cod. proc. civ., con conseguente omissione del tentativo di conciliazione, incombente obbligatorio per il cui esperimento il giudice è tenuto a fissare anche d’ufficio l’udienza, assegnando al convenuto termine per la proposizione delle eccezioni in senso stretto, tenuto conto che la scansione delle udienze di cui agli artt. 180 e 183 cod. proc. civ., è stabilita a tutela del diritto di difesa ed è inderogabile – ha ritenuto tale motivo infondato, affermando: che – seppure la sequenza delle udienze è regolata da norme di natura tendenzialmente inderogabile – il giudice, al di fuori del caso del processo contumaciale, può disporre altrimenti su accordo tra le parti; che in tale prospettiva l’elemento essenziale della sequenza temporale delle udienze è ravvisabile non già nell’esperimento del tentativo di conciliazione, bensì nella concessione al convenuto del termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio – termine al quale i convenuti avevano nella specie rinunciato; e che l’omissione del tentativo di conciliazione non determina la nullità del procedimento nè ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., comma 1, in quanto la legge processuale non prevede tale tipo di nullità, nè ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, in quanto detta omissione non impedisce al processo di raggiungere lo scopo;

B) quanto al motivo d’impugnazione – con il quale gli appellanti avevano dedotto che il Tribunale aveva erroneamente rimesso la causa al collegio ai sensi dell’art. 187 cod. proc. civ., comma 2, ritenendo altrettanto erroneamente che la questione circa la titolarità della legittimazione ad agire in riduzione era idonea a definire il giudizio – ha ritenuto anche tale motivo infondato, affermando la legittimità sia della rimessione al collegio sia della pronuncia non definitiva effettuate dal Tribunale di Venezia, in quanto la questione se spettasse agli attori S.L. e G. agire in rappresentazione del padre A. – fallito – con riguardo alla successione dei nonni S.G. e M.Z. è questione "già documentalmente istruita, senza bisogno di assumere le ulteriori prove dedotte dalle parti" e quindi idonea a definire, seppur parzialmente, il giudizio;

C) quanto al motivo d’impugnazione – con il quale gli appellanti avevano dedotto che il Tribunale, nell’affermare che se il rappresentato muore prima di aver manifestato la sua volontà e quando è ancora in grado di esprimerla, il diritto di accettare entra a far parte dell’eredità e si trasmette, ai sensi dell’art. 479 cod. civ., ai suoi eredi, aveva travisato la fattispecie concreta, in cui non vi era stata alcuna chiamata di S. A., a fronte dell’espressa volontà di diseredazione manifestata da entrambi i genitori – ha ritenuto tale motivo infondato, affermando: C1) "Dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata si evince … che il Tribunale aveva, al contrario, tenuto presente la situazione di esclusione testamentaria di S. A. dalla successione dei genitori"; C2) "Il vittorioso esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario pretermesso comporta, del resto, l’acquisto da parte sua della qualità di chiamato, con la conseguente possibilità di partecipare alla comunione ereditaria ed ottenere la divisione dei beni relitti. Ne consegue che, effettivamente, il diritto di rappresentazione opera, alle condizioni di cui all’art. 467 c.c., anche a favore del discendente del legittimario pretermesso, nel caso non voglia o non possa accettare l’eredità nell’unico modo che gli è consentito, ossia attraverso il preliminare esercizio dell’azione di riduzione.

Se così non fosse, a maggior ragione si sarebbe dovuto escludere, infatti, il diritto di G. e S.L. di agire in riduzione, essendo la relativa domanda espressamente fondata sul diritto di rappresentazione"; C3) "Il fatto storicamente accertato è, però, che, alla data di apertura delle due successioni (rispettivamente 28.3.1993 per S.G. e 23.8.1994 per M.Z.), A. era ancora vivo, sebbene dichiarato fallito fin dal (OMISSIS), e neppure se ne ignorava l’esistenza in vita, posto che la stessa dichiarazione di assenza (comunque non opponibile al fallimento) era stata pronunciata con riferimento alla mancanza di notizie successive alla data del (OMISSIS) in cui era scomparso in mare. A tale data era poi stata fatta risalire la dichiarazione di morte presunta"; C4) "Si deve, pertanto, rettamente ritenere che il Tribunale abbia escluso, jure, in capo ai discendenti di S.A. il subingresso nel luogo e nel grado del loro ascendente, non ricorrendo l’ipotesi di premorienza, nè risultando che, prima della data alla quale era stata fatta risalire la sua morte, egli avesse manifestato una qualche volontà abdicativa in relazione alle azioni esperibili avverso le disposizioni testamentarie lesive della sua quota di legittima. Si è, invece, realizzata nella specie … la trasmissione del diritto di accettazione dell’eredità che sarebbe spettato al loro ascendente, e di ogni connesso diritto successorio, con particolare riguardo all’esercizio dell’azione di riduzione, ai sensi dell’art. 479 c.c..

Corretta, pertanto, deve ritenersi la conseguenza tratta dalla sentenza impugnata, con riguardo all’azione proposta da G. e S.L.. Poichè, infatti, costoro avevano dichiarato di agire in veste di rappresentanti jure proprio, e non quali eredi di S.A., non poteva che essere affermata in capo a loro la carenza di legittimazione ad esperire l’azione di riduzione, per difetto del presupposto sul quale gli stessi avevano fondato il loro agire"; C5) "Nè potrebbe concludersi diversamente, con riferimento al principio, recepito pure in giurisprudenza, secondo cui la diseredazione ha effetti nei soli confronti del soggetto contro cui è stata effettuata e, pertanto, non esclude che il discendente che sia stato diseredato dal testatole possa succedere a quest’ultimo per rappresentazione. Tale principio richiede, infatti, di essere interpretato alla luce della circostanza che il legittimario pretermesso è pur sempre titolare dell’azione di riduzione, il cui vittorioso esercizio … comporta l’adizione dell’eredità e la partecipazione alla comunione ereditaria. Pertanto, non può certo dirsi che egli non possa accettare l’eredità per il solo fatto di non essere chiamato, pur rimanendo vero che, in ogni altro caso in cui egli non possa o non voglia accettare, anche mediante l’esercizio dell’azione di riduzione, è applicabile l’istituto della rappresentazione";

D) quanto, infine, al motivo di impugnazione – con il quale gli appellanti avevano contestato la affermata legittimazione del curatore del Fallimento di S.A. a promuovere l’azione di riduzione in rappresentazione dell’imprenditore fallito e, quindi, ad accettare l’eredità, sostenendo che tale legittimazione sussiste solo nel caso di successioni aperte prima della dichiarazione di fallimento – ha ritenuto anche tale motivo infondato, affermando: D1) "Del resto, anche ritenendo in astratto sussistenti i presupposti di cui all’art. 467 c.c., per il subentro di S.G. e L. nel luogo e grado del padre A., relativamente alla successione dei nonni, la legittimazione degli stessi dovrebbe essere ugualmente esclusa, essendo in concreto legittimato, in loro vece, per effetto dell’accettazione dell’eredità e dell’esercizio dell’azione di riduzione, soltanto il Curatore del fallimento … .

Risulta … decisivo … quanto dispone la L. Fall., art. 42, comma 2, che consente di recuperare alla massa fallimentare, sottraendoli alla disponibilità del fallito, i beni indistintamente pervenuti dopo la dichiarazione di fallimento, per tali dovendosi intendere … non solo quelli suscettibili di utilizzazione o trasformazione economica immediata, ma anche i poteri, le azioni e le facoltà che costituiscono il necessario mezzo per l’acquisto e la conservazione dei beni stessi. A non diversa conclusione deve giungersi quando, come nella fattispecie, il fallito non sia chiamato come erede, ma abbia la sola qualità di legittimario pretermesso, in quanto il diritto di accettare l’eredità è in tal caso surrogato da quello di agire in riduzione, quale condizione necessaria per ottenere l’eredità ed esercitare i relativi poteri. Ne consegue che la possibilità, data dalla legge al curatore del fallimento, di accettare l’eredità devoluta al fallito, implica necessariamente la sua legittimazione a promuovere l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie, lesive della legittima. Infatti, una diversa soluzione porterebbe a sottrarre alla curatela cespiti attivi, in contrasto con le regole tassativamente dettate dalla L. Fall., art. 42 – a tutela degli interessi dei creditori"; D2) "Nè può essere di ostacolo all’azione esercitata dal Curatore il fatto che, nella specie, fosse stata successivamente dichiarata la morte presunta di S.A., cioè in data posteriore alle due successioni per cui è causa. Occorre considerare, infatti, da un lato, che gli effetti dell’accettazione retroagiscono, ope legis, alla data di apertura della successione e, dall’altro, che la procedura fallimentare è insensibile alla morte del fallito, in relazione al disposto di cui alla L. Fall., art. 12". 3. – Avverso tale sentenza S.G. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo cinque motivi di censura, illustrati con memoria.

Resiste, con controricorso, il Fallimento di S.A..

Gi. e S.T., benchè ritualmente intimati, non si sono costituiti, nè hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (con cui deduce: "Violazione della norma di cui all’art. 183 c.p.c.: nullità dell’intero procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3"), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 2, lettera A), sostenendo che il tentativo di conciliazione è incombente obbligatorio e non meramente facoltativo o da svolgersi secondo valutazioni di opportunità, con la conseguenza che la sua omissione viola i diritti di difesa ed il principio del contraddittorio, tenuto anche conto del fatto che la mancata comparizione della parte all’udienza fissata per esperire detto tentativo di conciliazione è comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., comma 2.

Con il secondo motivo (con cui deduce: "Violazione della norma di cui all’art. 187 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inidoneità della decisione sulla legittimazione a definire il giudizio"), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 2, lettera B) , sostenendo che la questione se spettasse agli attori S.L. e G. agire in rappresentazione del padre A. con riguardo alla successione dei nonni S.G. e M.Z. è questione di merito, la cui risoluzione comportava la previa istruzione probatoria della causa.

Con il terzo motivo (con cui deduce: "Violazione dell’art. 180 c.p.c. – ante riforma – da parte del Tribunale in 1^ grado e dell’art. 350 c.p.c., da parte della Corte d’Appello di Venezia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Difetto di legittimazione ad causam dei Fallimento di S.A."), il ricorrente critica la sentenza impugnata, deducendo che nè il Tribunale nè la Corte di Venezia hanno verificato la regolare costituzione in giudizio del Fallimento di S.A., il quale ha si accettato l’eredità di S.A. con beneficio di inventario, ma non ha provato che l’inventario sia stato concretamente confezionato e concluso entro il termine di tre mesi di cui all’art. 487 cod. civ., comma 2, con la conseguenza che, in mancanza di tale prova, il Fallimento sarebbe da considerare erede puro e semplice in palese violazione di norme imperative.

Con il quarto (con cui deduce: "Violazione o falsa applicazione della L. Fall., artt. 12, 35, 42, 44, nonchè delle norme in tema di successione per rappresentazione ex art. 467 c.c., e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3") e con il quinto motivo (con cui deduce: "Violazione o falsa applicazione degli artt. 461 e 479, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3") – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione – il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 2, lettere C e D), sostenendo che: a) distinguendo tra le successioni aperte prima e quelle aperte dopo la dichiarazione di fallimento, solo nelle prime – diversamente da quanto accade nelle seconde, quale quella di specie – il diritto di accettare l’eredità fa parte dei rapporti di diritto patrimoniale del fallito e, quindi, può essere esercitato dal curatore fallimentare; b) l’azione di riduzione – che è quella da promuovere nella specie, a seguito della diseredazione di S. A., avendo natura di diritto personalissimo, non è esercitabile dal curatore fallimentare, il quale inoltre non può esercitarla in rappresentazione del fallito, ciò essendo impedito sia dalla L. Fall., art. 12 sia dall’art. 467 cod. civ., che prevede in modo tassativo i soggetti investiti da tale potere.

2. – Il controricorrente Fallimento di S.A. eccepisce, preliminarmente, l’improcedibilià del ricorso ai sensi dell’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2, in quanto la sentenza impugnata depositata unitamente al ricorso, ancorchè recante in calce la relazione di notificazione, è costituita non già da copia autentica ma da mera copia fotostatica.

L’eccezione è fondata.

Dall’esame degli atti risulta – come, del resto, è incontestato tra le parti – che la copia della sentenza impugnata, depositata unitamente al ricorso, non è autentica. Tale copia reca, in calce, la relazione di notificazione dell’ufficiale giudiziario presso la Corte d’Appello di Venezia, il quale certifica di aver notificato, ad istanza dell’Avv. Sergio Camerino difensore del Fallimento di S.A., "copia conforme all’originale della sentenza n. 1654/08 della Corte d’Appello di Venezia", tra gli altri, anche all’odierno ricorrente S.G.. E’ dunque evidente che quest’ultimo ha depositato, unitamente al ricorso, proprio la copia della sentenza impugnata che gli è stata notificata ad istanza del predetto difensore.

Posto che l’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2, dispone che "Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità: … 2) copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta …" secondo costante orientamento di questa Corte, nel giudizio di cassazione, la copia della sentenza impugnata, che deve essere depositata unitamente al ricorso a pena di improcedibilità del ricorso, può essere dichiarata conforme all’originale solo dal cancelliere presso il giudice a quo quale unico depositario dell’originale autorizzato a spedirne copia autentica in forza del combinato disposto dell’art. 2714 cod. civ., comma 1 e art. 743 cod. proc. civ. (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 1914 del 2009). Applicando tale principio – in una fattispecie identica a quella in esame -, questa Corte, con l’ordinanza n. 102 del 2003, ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso per omesso deposito di copia autentica della sentenza impugnata, ed ha escluso che l’adempimento dell’onere posto a carico del ricorrente dall’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2, possa ritenersi realizzato mediante il deposito di copia della sentenza notificata dalla controparte, recante la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario di consegna di copia conforme a quella recante la relazione di notificazione, risultando detta copia priva dell’attestazione del cancelliere di conformità all’originale.

Nulla in contrario può argomentarsi dalla sentenza n. 12559 del 2009 – evocata dal ricorrente -, perchè nel caso esaminato in tale decisione si controverteva sulla conformità all’originale del ricorso per cassazione, il quale – come ad esempio la citazione – è atto di parte (e non del giudice) che, consegnato in originale per la notificazione all’ufficiale giudiziario ( art. 163 cod. proc. civ., comma 4), viene da quest’ultimo notificato "mediante consegna al destinatario di copia conforme all’originale dell’atto da notificarsi" ( art. 137 cod. proc. civ., comma 2).

Del resto, che l’ufficiale giudiziario non sia competente a certificare la conformità all’originale delle sentenze e degli altri provvedimenti ed atti giudiziari, si desume chiaramente dal D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 111, commi 1 e 2 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari), i quali, rispettivamente, dispongono: "L’ufficiale giudiziario, quando deve provvedere alla notificazione di atti pubblici rilasciati in copia dal notaio o da altro pubblico ufficiale, competente, è autorizzato a fare le altre copie che deve consegnare alle parti comma 1"; "Egli è anche autorizzato a rilasciare le copie degli atti da lui redatti, nonchè degli atti privati di cui le parti chiedono la notificazione comma 2". Al riguardo, questa Corte, con la sentenza n. 12516 del 1993, ha affermato che tali disposizioni, pur non conferendo all’ufficiale giudiziario nè una generale competenza in materia di rilascio di copie autentiche di atti pubblici – che resta riservata, ai sensi della L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 14 (oggi, ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 18, commi 1 e 2, recante "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa"), al pubblico ufficiale emittente o depositario o destinatario, nonchè al notaio, al cancelliere, al segretario comunale o ad altro funzionario incaricato dal sindaco -r nè una competenza specifica al rilascio di copia conforme all’originale degli atti giudiziari – spettante al cancelliere -, gli attribuiscono la particolare competenza – chiaramente strumentale rispetto all’attività di notificazione e concorrente con quella analoga del cancelliere – di "fare le altre copie che deve consegnare alle parti", cioè a rilasciare, ai fini della notificazione appunto, ulteriori copie di atti, quali le sentenze, senza limitazioni od eccezioni di sorta.

3. – Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara improcedibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in complessivi Euro 1.700,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

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