Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-12-2011, n. 27419

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con gli artt. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate. La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr, per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Il caso in esame deve quindi essere deciso in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Ciò comporta che il ricorso deve essere accolto perchè la violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, la quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio. Il collegio ha deliberato che la presente sentenza venisse redatta con motivazione semplificata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-05-2011) 11-08-2011, n. 31887 Esecuzione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 28/9/10 il Tribunale di Novara, sezione distaccata di Borgomanero, giudice dell’esecuzione, rigettava i ricorsi proposti nell’interesse di M.G. volti alla declaratoria di non esecutività di sei sentenze definitivamente emesse nei confronti della M. senza che l’imputata avesse mai avuto notizia delle stesse e dei relativi procedimenti e alla conseguente rimessione in termini per impugnare. Il giudice osservava che in ognuno dei procedimenti l’imputata aveva dichiarato il proprio domicilio e, non essendovi stata ritrovata, le notifiche erano state ritualmente eseguite presso il difensore ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4.

Ricorreva per cassazione la difesa della M., deducendo violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione:

sotto il primo profilo il giudice si era appagato della regolarità formale delle notificazioni al difensore, senza valutare (ai sensi e per gli effetti dell’art. 175 c.p.p.,comma 2) se l’imputata avesse avuto effettiva conoscenza dei procedimenti e del loro esito; sotto il secondo profilo aveva omesso ogni valutazione sul punto.

Nel suo parere scritto il PG presso la S.C., condividendo le ragioni giuridiche del ricorrente, chiedeva l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Il ricorso, infondato, va rigettato. Nel caso in esame, invero, il difensore presso il quale sono state eseguite le notifiche ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, era quello di fiducia dell’imputata ed è pertanto legittimo ritenere, in assenza di contrarie segnalazioni da parte del legale, che il rapporto professionale fosse tale da assicurare alla cliente ogni utile notizia riguardante il processo.

In tal senso la condivisa giurisprudenza di questa Corte (v. per tutte Cass., sez. 1^, sent. n. 19127 del 16/5/06, rv. 233920, Gdoura:

"La L. 22 aprile 2005 n. 60, oltre ad avere modificato la disciplina della restituzione in termini prevista dall’art. 175 c.p.p., ha anche introdotto, con la previsione di cui all’art. 157 c.p.p., comma 8 bis, la piena equiparazione tra la notifica eseguita presso l’imputato e quella eseguita presso il difensore di fiducia. Ne consegue che, una volta acquisita agli atti la prova della conoscenza dell’esistenza del procedimento, se l’imputato effettua la scelta di nominare un difensore di fiducia, presso il quale elegge domicilio, si assume anche l’obbligo di tenere i contatti col difensore che lo rappresenta e l’eventuale interruzione di tali contatti deve essere interpretata come volontaria rinuncia a partecipare al processo ed a proporre impugnazione"). Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del processo ( art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-01-2012, n. 1268 Categoria, qualifica, mansioni

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Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1413 del 2008, accoglieva gli appelli proposti dalle società Banca Carime spa e Intesa Sanpaolo spa, avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza, giudice del lavoro, n. 50035/2006 del 10 – 23 novembre 2006, e in riforma dell’appellata sentenza rigettava la domanda avanzata da G.P. con ricorso in data 8 marzo 2004.

Quest’ultimo aveva adito il giudice di primo grado per il riconoscimento del diritto, come dipendente già della Banca Carime spa e poi della Intesa Sanpaolo spa dal 30 marzo 2001, ad essere inquadrato nel grado di quadro, con decorrenza dal 30 marzo 1998, e di QDL3 dalla data di entrata in vigore del CCNL 1999, con condanna al pagamento delle differenze retributive dovute rispetto alla qualifica di impiegato, 3 area professionale, 3^ (rectius 4^) livello retributivo.

2. Per la cassazione della suddetta sentenza d’appello ricorre il G., prospettando due motivi di ricorso.

3. Resistono con autonomi controricorsi la società Intesa Sanpaolo e la società Banca Carime.

4. Il G. ha depositato documenti.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., anche in relazione all’art. 1362 c.c., nonchè vizio di motivazione.

La sentenza, ad avviso del ricorrente, avrebbe dato rilievo alla responsabilità funzionale, escludendone la riferibilità al ricorrente, in quanto le attività dell’ufficio contenzioso venivano svolte sotto le direttive della direzione centrale di Cosenza, a firma del direttore della filiale di Vibo.

Nel fare ciò, il giudice dell’appello non avrebbe spiegato le ragioni del proprio convincimento e avrebbe violato i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di promozione automatica ex art. 2103 c.c..

Ed infatti la Corte d’Appello non riterrebbe sufficiente l’assegnazione a determinate mansioni, ma richiederebbe una sorta di atto cosciente che conferisca una responsabilità formale.

La sentenza violerebbe anche i canoni dell’ermeneutica contrattuale, in quanto nell’interpretare erroneamente l’art. 6 del contratto integrativo del 1995, esclude il configurarsi di mansioni superiori in presenza di direttive.

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se ai fini della promozione automatica per lo svolgimento di mansioni superiori e per gli effetti di cui all’art. 2103 c.c., l’adibizione del lavoratore per un periodo superiore a tre mesi su posizione lavorativa dalla quale può derivare il diritto alla promozione, può essere esclusa dalla mancata attribuzione formale ad opera del datore di lavoro della responsabilità funzionale, ovvero questa attribuzione formale – come anche il potere di firma – rimane irrilevante dinanzi alla concreta e materiale adibizione di fatto alle mansioni proprie di quella posizione lavorativa.

1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto non sono rispettati i requisiti di cui all’art. 366 bis c.p.c., applicabile, nella specie, ratione temporis ( D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2) trattandosi di impugnazione per cassazione di sentenza pubblicata successivamente al 2 marzo 2006.

Nell’interpretazione della norma di cui al citato art. 366 bis c.p.c., questa Corte (ex plurimis: Cass., S.U., n. 20360/07) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che tale requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ma è, invece, indispensabile che il ricorso rechi per ciascun motivo la chiara indicazione di un quesito di diritto.

Orbene, nella fattispecie, il quesito di diritto non corrisponde a tali requisiti in quanto inconferente per genericità ed incompletezza, e non tiene conto del decisum.

Ed infatti, la Corte d’Appello, lungi dal richiedere un atto di assegnazione formale, ha ritenuto che l’art. 6 della normativa pattizia in questione indica come specifico della categoria di quadro lo svolgimento di mansioni che, nell’ambito delle direttive ricevute, comportino: a) particolare responsabilità gerarchica e/o funzionale;

b) elevata capacità professionale.

Quindi, non ha escluso la possibile compresenza di mansioni di quadro e direttive, ritenendo, tuttavia, in concreto, non indicate la ragioni per cui le mansioni del G. dovessero essere ascritte alla superiore area di inquadramento e la rilevanza delle mansioni svolte del ricorrente ai fini di quanto previsto dal citato art. 6. 2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia.

La motivazione della sentenza sarebbe viziata laddove sintetizza le risultanze istruttorie in quanto omette di focalizzare e porre ad oggetto della propria valutazione fatti decisivi per il giudizio presenti nella decisione di primo grado.

2.1. Anche detto motivo è inammissibile. Secondo l’art. 366 bis c.p.c., nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (ex multis, Cass., S.U. 20306 del 2007). Nella specie, il ricorrente, da un lato non formula il prescritto quesito nei termini indicati; dall’altro, nel ripercorrere la motivazione della sentenza della Corte d’Appello, e nel richiamare le testimonianze rese nel corso del giudizio, propone una non ammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3. Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate per ciascun controricorrente in Euro duemila per onorario, Euro 30,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 23 novembre 2011.

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Cons. Stato Sez. III, Sent., 04-11-2011, n. 5864 Armi da fuoco e da sparo Detenzione abusiva e omessa denuncia Porto abusivo di armi

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.Il signor G. A. impugnava i decreti del Prefetto e del Questore di Genova recanti rispettivamente il divieto di detenzione armi e la revoca di licenza di porto di fucile, adottati sulla base delle risultanze di due procedimenti penali da cui emergeva un’aggressività ed una mancanza di controllo del ricorrente tali da comportare una valutazione di inaffidabilità nell’uso delle armi.

Avverso tali atti venivano dedotti motivi riconducibili alla violazione degli artt. 11, 39 e 43 del R.D. 18 giugno 1931 n.773 T.U. delle leggi di pubblica sicurezza e al difetto di istruttoria e motivazione, travisamento e illogicità in ordine ai fatti che avevano portato ai provvedimenti impugnati, atteso anche l’esito favorevole dei processi a carico del ricorrente stesso.

Il Tar Liguria respingeva il ricorso con ampia motivazione.

Avverso la sentenza del Tar viene proposto l’odierno appello affidato a plurimi motivi di censura.

Le amministrazioni intimate non hanno presentato memorie.

Alla camera di consiglio del 16 settembre 2011, fissata per l’esame della istanza cautelare, la causa è stata trattenuta dal Collegio per una decisione in forma semplificata.

2. L’appellante sottolinea la erroneità della sentenza rilevando che il primo giudice avrebbe fondato la sua decisione sulla base di una presunta inaffidabilità all’uso o detenzione delle armi in quanto lo stesso risultava più volte segnalato all’Autorità Giudiziaria; tuttavia, la semplice esistenza di denunzie o segnalazioni o la esistenza di indagini da parte della Magistratura non potrebbero indurre a far ritenere, da sole, che un soggetto sia capace di abusare delle armi.

In particolare la pendenza di procedimenti penali in ordine a reati perseguibili soltanto a querela di parte o di procedimenti che non riguardano in alcun modo l’abuso di armi non potrebbe giustificare un divieto di detenzione di armi tanto più essendosi i procedimenti tutti conclusi con la assoluzione dell’imputato.

Da qui la carenza di motivazione del decreti impugnati che non sarebbero stati preceduti da adeguata istruttoria intesa a accertare la personalità complessiva dell’appellante e risulterebbero basati su un inaccettabile automatismo tra le segnalazioni alla Magistratura, rilevatesi destituite di fondamento, e la inaffidabilità del deducente.

3. L’appello non merita accoglimento.

La Sezione richiama le considerazioni del primo giudice che, in maniera condivisibile, ha rilevato che la finalità che è alla base delle norme del T.U. delle leggi di P.S. è quella di prevenire la commissione di reati (e anche i sinistri dovuti non tanto ad attitudini dolose ed aggressive quanto ad incapacità ovvero a mancanza di autocontrollo in situazioni di tensioni emotive) nonché di assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica.

Pertanto, per l’adozione di un divieto, non è richiesto che vi sia un oggettivo ed accertato abuso delle armi, essendo sufficiente un’erosione anche minima dell’affidabilità del soggetto nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale, sindacabile nei soli limiti dell’irragionevolezza o arbitrarietà.

La legislazione affida all’Autorità di pubblica sicurezza il compito di valutare con il massimo rigore qualsiasi circostanza che consigli l’adozione del provvedimento di rigetto della domanda di porto d’arma in quanto persegue la finalità di prevenire la commissione di reati e, in genere, di fatti lesivi della pubblica sicurezza.

In base al quadro normativo di riferimento, il titolare della licenza di fucile e dell’autorizzazione a detenere armi, oltre a dover essere persona esente da mende o da indizi negativi, deve anche assicurare sicura e personale affidabilità circa il buon uso delle stesse.

Conseguentemente, ai fini dell’applicazione della misura interdittiva, non occorre che vi sia stato un oggettivo e accertato abuso delle armi, essendo sufficiente che il soggetto abbia dato prova di non essere del tutto affidabile, quanto al loro uso.

Siffatta valutazione amministrativa, che cautela l’interesse pubblico mediante un giudizio prognostico, ex ante, tale da portare ad escludere la possibilità di un abuso, è per sua natura di lata discrezionalità, e il suo sindacato deve limitarsi all’esame della sussistenza dei presupposti idonei a far ritenere che le valutazioni effettuate non siano irrazionali o arbitrarie.

4. Nel caso di specie, i decreti impugnati si fondano su di una congerie di episodi e risultanze di fatto, sentenze di condanna in materia ambientale, procedimenti penali pendenti e denunzie varie tra cui assumono rilievo preminente i pregressi procedimenti e le denuncie concernenti i comportamenti minacciosi del ricorrente.

Da tali elementi di fatto l’Autorità ha tratto il convincimento di una tendenza dell’appellante a violare le disposizioni di legge venendone incrinata la affidabilità.

Né alcuna rilevanza assume, ai fini che interessano, l’estinzione dei reati di ingiurie e percosse in quanto basata sulla remissione di querela e non già sull’accertamento dell’infondatezza delle accuse di atteggiamenti minacciosi.

La circostanza che tali denuncie siano state successivamente ritirate, non è ostativa alla oggettiva valutazione dei fatti nelle stesse evidenziati ai fini della configurazione di un quadro prognostico che, come correttamente ritenuto dalla competente autorità di pubblica sicurezza, depone per il ritiro nei confronti dell’appellante del titolo di polizia utile alla detenzione delle armi.

5. Per le ragioni che precedono l’appello deve essere respinto e la impugnata sentenza deve essere confermata.

6. Le spese di lite seguono la soccombenza, non ravvisandosi le ragioni per disporre diversamente visto che le doglianze del ricorrente avevano già ricevuto un’adeguata risposta in primo grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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