T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 21-11-2011, n. 9127

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Società I.E. S.r.l., incaricata dalla W.T. S.p.A., in data 20.5.2005 ha presentato al Comune di San Polo dei Cavalieri la denuncia di inizio attività prot. n. 3268, per l’installazione di una stazione radio base a servizio della rete di telefonia mobile di potenza non superiore a 20 w, su terreno di proprietà privata, il cui possesso è stato conseguito mediante contratto di locazione del 20.5.2005, poi registrato a Forlì in data 7.7.2005, ubicato in via Maremmana inferiore Km. 23,400, identificato in catasto al foglio 14, mappali 302413.

In relazione a detta D.I.A. sono stati depositati la relazione tecnica, e successivamente il parere favorevole dell’A.R.P.A. del 4.10.2005 e l’autorizzazione sismica datata 13.1.2006.

In data 13.2.2006 è stato comunicato all’Amministrazione comunale l’inizio dei lavori dal 16.2.2006, con durata presunta di 90 giorni.

Con diffida 17.2.2006, prot. n. 1066, il Comune di San Polo dei Cavalieri ha intimato alla ricorrente a non iniziare i lavori, per assunto mancato "rispetto dei distacchi dai confini".

Tale diffida è stata riscontrata e contestata dalla Società ricorrente con nota del 3.5.2006.

Successivamente, in data 12.5.2006, è stata presentata la variante alla predetta D.I.A., assunta al n. 2959 di prot., con "spostamento del sito di un metro rispetto a quanto previsto".

Con ulteriore diffida del 27.7.2006, il Comune in parola ha intimato alla ricorrente a non iniziare i lavori, per asserito mancato "rispetto dei distacchi dai confini e dai fabbricati" e per mancata comunicazione di inizio dei lavori in relazione alla variante.

A fronte di tale ultima diffida la Società attuale ricorrente in data 21.8.2006 ha inviato una nota, ricevuta il 30.8.2006, prot. n. 5040.

Con ordinanza 29.9.2006, n. 27/06, notificata alla Società ricorrente il 4.10.2006, è stata ordinata l’immediata sospensione dei lavori.

Avverso quest’ultimo provvedimento è stato proposto il presente ricorso introduttivo, nel quale sono stati dedotti i seguenti motivi di censura:

1) violazione e falsa applicazione del d.lgs. 1.8.2003, n. 259 e s.m.i. – nullità del provvedimento per mancata indicazione del suddetto d.lgs. n. 259/2003 e della legge quadro 22.2.2001, n. 36 – difetto di motivazione – eccesso di potere per carenza dei presupposti: la materia de qua sarebbe disciplinata, sotto i profili sostanziale e procedurale, dal d.lgs. n. 259/2003 e dalla legge quadro n. 36/2001, nella specie ignorati;

2) violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 259/2003 e s.m.i. – eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti – violazione e falsa applicazione dei principi di autotutela: il d.lgs. n. 259/2003 dispone che le infrastrutture, come quella in questione, sarebbero assimilate ad ogni effetto di legge alle opere di urbanizzazione ed, in quanto tali, sarebbero soggette alla normativa stabilita per queste, perciò sarebbero realizzabili in qualsiasi parte del territorio comunale; in particolare, poi, l’art. 87 del citato decreto prevede che per tale tipo di infrastruttura sia richiesta la denunzia di inizio attività, da intendersi accolta ove non sia comunicato un provvedimento di diniego entro 90 giorni, per cui nel caso in esame l’iter procedimentale suindicato sarebbe stato disatteso, non essendo stato adottato alcun formale atto di diniego, non essendo stati rispettati i termini perentori fissati, inoltre non essendo stato indicato il responsabile del procedimento, non essendo stata convocata alcuna conferenza di servizi a fronte del manifestato dissenso e non essendo stata data tempestiva comunicazione al Ministero, mentre, essendo stato superato il termine di 90 giorni, l’Amministrazione avrebbe dovuto dapprima revocare il provvedimento autorizzatorio e successivamente ordinare la sospensione e/o la demolizione;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 11.2.2005, n. 15 – difetto di motivazione – eccesso di potere per difetto di istruttoria – illogicità: nel motivare il provvedimento qui impugnato, l’Amministrazione non indicherebbe le norme ostative all’esecuzione del progetto presentato, ma si riporterebbe solo alle N.T.A. del P.R.G.;

4) violazione e falsa applicazione del d.P.R. 6.6.2001, n. 380 e s.m.i. – eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti – contraddittorietà: l’ordinanza in parola si sarebbe potuta adottare solo in presenza di lavori in corso e non già di lavori ultimati.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, la quale ha depositato una memoria defensionale, recante controdeduzioni alle censure avversarie, nonché documentazione.

Con ordinanza 4.12.2006, n. 6654, è stata respinta la domanda di sospensiva proposta in via incidentale, in considerazione dell’intervenuta cessazione dell’efficacia dell’ordinanza gravata, nonché dell’avvenuta conclusione dei lavori.

Successivamente, in data 27.12.2006, il Comune di San Polo dei Cavalieri ha adottato l’ordinanza n. 37/06, notificata l’11.1.2007, con la quale ha ingiunto, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, la demolizione delle opere in questione.

Detto provvedimento è stato impugnato con ricorso per motivi aggiunti, nel quale sono stati riproposti i vizi già dedotti col ricorso introduttivo ed è stato altresì denunciato:

5) violazione e falsa applicazione del d.P.R. 6.6.2001, n. 380 e s.m.i. e per violazione della legge 2.2.1974, n. 64 – eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti – contraddittorietà: l’ordinanza in parola sarebbe illegittima laddove afferma che la zona interessata dall’intervento "è soggetta al vincolo di cui alla L 64/74", in quanto al riguardo la Società ricorrente ha depositato l’autorizzazione sismica regionale del 13.1.2006.

Il Comune resistente ha prodotto un’ulteriore memoria difensiva.

Con ordinanza 24.4.2007, n. 1918, è stata accolta la domanda cautelare, proposta in via incidentale, in ragione della specialità e della prevalenza della disciplina contenuta nell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003.

Infine, nella pubblica udienza del 20.10.2011 il ricorso è stato introitato per la decisione.

Motivi della decisione

1 – Il ricorso in esame, che consta di un gravame introduttivo e di motivi aggiunti, ha per oggetto, rispettivamente, l’ordinanza di immediata sospensione dei lavori 29.9.2006, n. 27/06, notificata il 4.10.2006, ed il provvedimento 27.12.2006, n. 37/06, notificato l’11.1.2007, recante ingiunzione di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, riferiti all’installazione di un’antenna per la telefonia mobile in via Maremmana inferiore Km. 23,400, in terreno identificato in catasto al foglio 14, mappali 302413, unitamente a tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali.

2 – Cominciando la presente disamina dal ricorso introduttivo, va rilevato che esso è improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse.

Come si è appena illustrato, con lo stesso, che è stato notificato il 26.10.2006, si è impugnata l’ordinanza di sospensione dei lavori, adottata in data 29.9.2006, ai sensi dell’art. 27, comma 3, del citato d.P.R. n. 380/2001.

In base a quest’ultima disposizione normativa, la sospensione dei lavori ha effetto fino all’adozione ed alla notifica dei provvedimenti definitivi sanzionatori, che deve avvenire "entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori".

Ciò comporta che, una volta trascorsi 45 giorni dalla sua adozione, il provvedimento di sospensione dei lavori non produce più effetti.

Rispetto al gravame introduttivo, per il quale, al momento della sua proposizione, sussisteva l’interesse a ricorrere, non essendo ancora scaduto il suddetto termine di 45 giorni e non essendo, perciò, venuta meno l’efficacia del provvedimento, si registra, tuttavia, il venir meno, nelle more, di tale condizione dell’azione.

Segnatamente, al cessare dell’efficacia dell’ordinanza di sospensione dei lavori gravata, coincidente con il perfezionarsi del termine di 45 giorni dalla sua emanazione, il che è intervenuto medio tempore, la ricorrente non poteva e non può più subire alcun nocumento da quest’ultima e trarre alcun vantaggio dall’eventuale accoglimento della relativa impugnativa, il che comporta che il ricorso proposto avverso detto provvedimento, non essendo più munito dell’interesse a ricorrere, deve essere dichiarato improcedibile.

3 – Il ricorso per motivi aggiunti è, invece, fornito di fondamento, per le ragioni che si esporranno di seguito.

4 – Preliminarmente deve rilevarsi che la disciplina conferente è contenuta nel d.lgs. 1.8.2003, n. 259, recante "Codice delle comunicazioni elettroniche", che, prima ancora di stabilire l’iter procedimentale ed il regime autorizzatorio ai quali è sottoposta, tra gli altri, l’installazione di antenne di telefonia, ne dà una precipua definizione e qualificazione. Evidentemente detta disciplina presenta carattere speciale e prevale su quella di carattere generale prevista in materia di titoli edilizi.

Inoltre deve considerarsi la legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici 22.2.2001, n. 36, la quale, all’art. 8, individua le competenze in materia in capo alle Regioni, alle Province ed ai Comuni.

5 – Fatta questa doverosa premessa, va subito rimarcato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 86 e 87 del menzionato d.lgs. n. 259/2003, "le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione", qual è quella di specie, essendo la sua realizzazione disciplinata dall’art. 87 del medesimo decreto, al quale si fa rinvio, "sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria (…) e ad esse si applica la normativa vigente in materia".

Ciò comporta che l’opera in questione, proprio in quanto assimilata ad ogni effetto a quelle di urbanizzazione primaria, conosce uno speciale regime autorizzatorio, improntato alla massima accelerazione, enucleato dal menzionato art. 87 del d.lgs. n. 259/2003 (esso si giustifica appunto in ragione della funzione svolta da tale tipologia di opere), e non può essere considerata e sottoposta alle stesse regole stabilite per le opere edilizie, come edifici ed altre costruzioni.

In particolare, per quanto qui interessa, non soggiace alle regole sulle distanze dai confini e dagli edifici fissate per la realizzazione di nuove costruzioni.

6 – Tale affermazione non è affatto contraddetta dalla previsione, nel citato art. 8 della legge quadro n. 36/2001, di un potere regolamentare in materia in capo ai Comuni.

Il comma 6 di detta disposizione conferisce, infatti, ai Comuni la possibilità di adottare un precipuo un regolamento, riferito specificamente a tali impianti, per assicurarne "il corretto insediamento urbanistico e territoriale (…) e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici".

Si tratta, tuttavia, non già dell’applicazione concreta delle generali N.T.A. del P.R.G., così come è avvenuto nella specie, bensì di un regolamento "dedicato", che non obbedisce ai criteri generali in materia di distanze, altezze, volumetrie, ma teso ad una migliore distribuzione nel territorio delle antenne ed alla minore esposizione possibile ai campi elettromagnetici della popolazione.

7 – È evidente, perciò, che qui si assiste ad un’evidente violazione della normativa contenuta nel d.lgs. n. 259/2003 e nella legge quadro n. 36/2001.

8 – Stante detto quadro normativo, non sussistevano i presupposti per fare applicazione all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, il quale si riferisce alle ipotesi, del tutto differenti, di interventi richiedenti il permesso di costruire realizzati in sua assenza o in totale difformità dallo stesso o con variazioni essenziali.

9 – Quanto, poi, al rilievo della sussistenza del vincolo sismico sull’area interessata dall’intervento, va considerato che la Società era ben conscia di ciò, tant’è che aveva acquisito e depositato presso il Comune intimato l’autorizzazione sismica rilasciata dal competente Ufficio regionale il 13.1.2006, riferita all’opera oggetto della prima denuncia di inizio attività. Va in proposito tenuto conto che la variante apportata ed oggetto della seconda D.I.A. è davvero minimale e consiste nel mero spostamento di un solo metro dell’opera stessa, per il resto rimasta identica, per cui detta autorizzazione può ritenersi valida e sufficiente.

10 – Pertanto il ricorso per motivi aggiunti è fondato e deve essere accolto, potendo assorbirsi le doglianze che non hanno costituito precipuo oggetto della presente disamina, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.

11 – In conclusione il ricorso è, quanto al gravame introduttivo, improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, e, quanto, invece, ai motivi aggiunti, fondato e da accogliere.

12 – Con riguardo alle spese, ai diritti ed agli onorari, gli stessi vanno posti a carico del Comune resistente e quantificati come in dispositivo.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – sezione I quater, definitivamente pronunciando, dichiara improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, il ricorso introduttivo in epigrafe ed accoglie i motivi aggiunti, per l’effetto, annullando il provvedimento con gli stessi impugnato.

Condanna il Comune resistente alle spese di giudizio, forfetariamente quantificate in Euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre I.V.A. e C.P.A., in favore della Società ricorrente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-10-2011) 09-11-2011, n. 40658

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 17 novembre 2010 il Tribunale di sorveglianza di Genova ha respinto l’istanza di detenzione domiciliare avanzata da T.A. con riferimento al provvedimento di cumulo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Alessandria del 24 settembre 2009. 1.1. A ragione della decisione, il Tribunale richiamava la propria precedente ordinanza dell’11 marzo 2010, reiettiva di analoga istanza, riportandone l’intero contenuto, e rilevava che alla luce del quadro istruttorie rappresentato dalle informazioni di polizia, dal parere della Direzione Nazionale Antimafia e dalla relazione del Gruppo di osservazione, pur rilevandosi il positivo percorso penitenziario del detenuto e la correttezza del medesimo nella fruizione del beneficio dei permessi premio, appariva insufficiente l’ulteriore periodo di osservazione seguito alla predetta recente ordinanza, le cui ragioni confermava, come sottolineato dal significativo parere negativo della D.N.A..

2. Avverso detta ordinanza ricorre personalmente T.A., che ne chiede l’annullamento sulla base di unico motivo, con il quale denuncia manifesta illogicità della motivazione e travisamento del fatto ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Secondo il ricorrente, le argomentazioni del Tribunale di Sorveglianza sono palesemente prive di fondamento logico-giuridico, perchè, riferendosi a precedenti ordinanze, a risalenti precedenti penali e a datate relazioni di polizia, e svilendo l’evoluzione positiva della sua personalità e il già concessogli accesso ai benefici penitenziari, con la concessione dei permessi premio a partire dall’11 novembre 2009, non ha tenuto conto del "periodo prodromico" costantemente osservato dagli operatori penitenziari e della successiva valutazione positiva espressa dalla Direzione dell’Istituto penitenziario.

3. Il Procuratore Generale in sede ha depositato requisitoria scritta, chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso, sul rilievo che i motivi a sostegno dello stesso si risolvono in censure di fatto del provvedimento, che, in modo congruo e adeguato, ha ribadito quanto già rappresentato in precedenti ordinanze e la necessità di protrarre il periodo di osservazione intramuraria per verificare la sussistenza, la portata e la durevolezza degli effettivi progressi sul piano del recupero del rispetto della legge.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non è fondato.

2. Il provvedimento impugnato, che ha dato atto degli esiti della svolta istruttoria, senza limitarsi al mero richiamo al contenuto dell’ordinanza resa in data 11 marzo 2010 e ai riferimenti dalla stessa operati alle ordinanze precedenti del 2 ottobre 2008 e del 25 marzo 2009, e ha rappresentato il contenuto delle informative di polizia (quanto alla mancanza di segnalazioni negative o di situazioni di incompatibilità ambientale, rispetto alla dimora indicata, e all’assenza di vincoli attuali con la criminalità organizzata) e degli esiti dell’osservazione svolta dal competente Gruppo (quanto al regolare comportamento del ricorrente, alla consolidata e positiva riuscita dei permessi premio e alla nuova prospettiva lavorativa), ha ritenuto tuttora prematuro il beneficio, avuto riguardo alla necessaria verifica, attraverso un ulteriore congruo periodo di osservazione della personalità del predetto in ambiente penitenziario, della sussistenza, della portata e della durevolezza degli "effettivi progressi sul piano del recupero del rispetto delle leggi e dei valori ad esse sottesi", come segnalato nel richiamato parere del 15 novembre 2010 della D.N.A., successivo all’ultima ordinanza dell’11 marzo 2010. 3. Le valutazioni di merito, espresse dal Tribunale, sono esenti da vizi logici e giuridici, essendo stata valorizzata la necessità, nonostante il già avvenuto godimento di permessi premio, della ulteriore più prolungata verifica della consistenza del percorso rieducativo intrapreso dal ricorrente, attraverso la dimostrazione dell’affidabilità della evoluzione positiva della personalità del medesimo, già dimostrata durante il periodo di fruizione dei benefici più limitati previsti dall’ordinamento penitenziario.

Tali valutazioni, adeguatamente giustificate sulla base dei dati fattuali acquisiti, rappresentati anche nell’indicato parere, e correttamente improntate al principio della gradualità del trattamento e dell’osservazione nella concessione di benefici penitenziari, ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo Sez. 1, n. 39299 del 14/10/2010, dep. 05/11/2010, Dolci), resistono alle censure del ricorrente che ne propongono una rilettura nel merito non consentita in questa sede.

4. Il ricorso va pertanto rigettato.

Al rigetto del ricorso segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 02-01-2012, n. 9 Occupazione abusiva o illegittima

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Svolgimento del processo

1) Con ricorso n. 2316/2006, i signori Ca.Ma.Ro., Ca.Ga. e Ca.Em., adivano il T.A.R. della Sicilia, sede di Palermo, chiedendo l’annullamento del provvedimento del 6 giugno 2006 con il quale il Dirigente del Settore "Edilizia privata e condono" del Comune di Gela aveva respinto l’istanza di condono edilizio per il fabbricato sito in via Generale Cascino.

In seguito, con il ricorso n. 1554/2009, i signori Ca.Ma.Ro., Be.Sc.Os.An.Ma., Ca.Ga., Ca.Lu. e Be.Le.Al.Ma. impugnavano: a) la delibera di G.M. n. 245 del 28 maggio 2009 con la quale la Giunta municipale di Gela aveva disposto, ai sensi dell’art. 43, comma 1 e 2, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’Ente di un’area urbana, quantificando il valore venale e risarcitorio degli immobili appartenenti ai ricorrenti in complessivi Euro 262.137,89 e gli interessi moratori in complessivi Euro 39.356,46; b) tutti gli allegati alla delibera di G.M. n. 245/2009; c) la determinazione dirigenziale n. 99930 del 30.6.2009 a firma del Settore urbanistico del Comune di Gela avente a oggetto "accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 1029 del 5 ottobre 1981 – art. 31 del D.P.R. n. 380/01"; d) l’ordinanza n. 2249 del 18 settembre 2009, a firma del Vice Sindaco, con la quale è stato ordinato lo sgombero immediato del fabbricato abusivamente realizzato in Gela, via Generale Cascino n. 363.

Infine, con il ricorso n. 1585/2009, il sig. Em.Ca. impugnava: l’ordinanza di sgombero n. 2249 del 18.8.2009; l’ordinanza del 21.8.2009; la determinazione dirigenziale n. 99930 del 30.6.2009; la delibera di G.M. n. 245 del 28.5.2009.

2) Con sentenza n. 2649 del 10 marzo 2010, il giudice adito, previa riunione dei summenzionati ricorsi, accoglieva il primo ricorso e, nei limiti di cui in motivazione gli altri due ricorsi, condannando il Comune al risarcimento dei danni in favore dei ricorrenti.

In particolare, detto giudice accoglieva, in relazione al primo ricorso, il quarto motivo di censura con il quale si deduceva la mancata emanazione del preavviso di rigetto che l’Amministrazione avrebbe dovuto comunicare ai proprietari dell’area.

La caducazione del summenzionato provvedimento comportava "a cascata", come osservato dal T.A.R. l’annullamento dei provvedimenti con i quali erano state eseguite le misure sanzionatorie già sospese per effetto della presentazione dell’istanza di sanatoria culminata nel predetto provvedimento di rigetto (determinazione n. 999930/09 e ordinanza n. 2249/09 e conseguente demolizione).

Quanto a questi ultimi provvedimenti, con i quali erano state disposte l’immissione in possesso e la conseguente demolizione del fabbricato di via Generale Cascino n. 363, andavano condivise, ad avviso del T.A.R., le censure dei ricorrenti circa il difetto di competenza del Vice Sindaco del Comune di Gela.

Il T.A.R. passava, poi, all’esame congiunto dei residui motivi di censura dedotti con i ricorsi n. 1554/09 e n. 1585/09 avverso il nuovo provvedimento di acquisizione sanante che seguiva quello annullato dalla decisione di questo C.G.A. n. 2999/09, nonché, successivamente, all’esame delle domande risarcitorie proposte.

Ad avviso del T.A.R., le censure in questione erano fondate solo in parte.

In particolare, in relazione alla richiesta risarcitoria relativa al fabbricato, la domanda con cui parte dei ricorrenti chiedeva la fedele ricostruzione del fabbricato non poteva essere accolta per la considerazione che una misura del genere assumeva in sé il carattere della eccessiva onerosità per l’Amministrazione cosicché, ai sensi dell’art. 2058 c.c., poteva disporsene solo il risarcimento dei danni per equivalente.

Diverse considerazioni andavano operate in relazione all’area di sedime del fabbricato per la quale poteva disporsi la restituzione, non avendo il Comune fatto richiesta di esclusione dalla restituzione del bene occupato.

Il T.A.R. accoglieva, infine, la domanda di risarcimento del danno per lo spossessamento ai sensi dell’art. 2043 c.c., e ciò sulla base di un criterio di raffronto con il valore reale del bene al momento dell’occupazione, in ragione di tutto il tempo della durata dell’occupazione fino all’effettiva restituzione, e individuato nel saggio legale d’interessi sulla somma che esprime il valore venale dell’immobile al momento iniziale dell’occupazione stessa.

3) Il Comune di Gela ha proposto appello contro la summenzionata sentenza.

4) Resistono al ricorso gli appellati, i quali, ad eccezione di Ca.Em., hanno proposto appello incidentale.

5) Alla pubblica udienza del 9 giugno 2011, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo di appello si sostiene l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui, in accoglimento del ricorso n. 12316/2006, è stato annullato il provvedimento n. 715 del 2006 di diniego del condono edilizio per mancata comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della L. n. 241/1990.

Ad avviso dell’appellante, il diniego di concessione edilizia in sanatoria si configura come un atto vincolato, essendo palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

In particolare, il provvedimento di condono non avrebbe potuto essere rilasciato, posto che, come chiarito nella motivazione del provvedimento stesso, "il manufatto arreca turbativa all’assetto territoriale ricadendo lo stesso in area individuata e vincolata per la realizzazione del nuovo Palazzo di Giustizia".

La censura è infondata.

Il vincolo gravante sull’area in questione era scaduto, essendo decorso il termine quinquennale previsto dall’art. 9 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sicché il contenuto dell’atto conclusivo del procedimento di condono avrebbe potuto essere diverso

2) La reiezione del primo motivo di appello consente di respingere il secondo motivo con cui è stata dedotta l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha annullato "a cascata" i provvedimenti concernenti la determinazione n. 930/09, l’ordinanza n. 2249/09, nonché ha disposto la restituzione dell’area di sedime su cui insisteva il manufatto abusivo demolito.

3) Con il terzo motivo di appello si assume l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui è stato dichiarato il difetto di competenza del Vice Sindaco ad adottare l’ordinanza di sgombero n. 2249/2009.

Al riguardo si osserva che il provvedimento di sgombero si è reso necessario e improcrastinabile al fine di portare avanti e, quindi, concludere i lavori per la realizzazione del Palazzo di Giustizia, bloccati da diversi anni proprio a causa dell’inottemperanza all’ordine di demolizione del fabbricato abusivo in questione.

La censura è infondata.

Come rettamente osservato dal giudice di prime cure, che ha richiamato le disposizioni legislative che regolano l’assetto delle competenze degli organi degli enti locali della Regione siciliana, la disposizione dell’art 2 della L.R. n. 23/1998 ha recepito l’art. 6 della legge n. 127/2007 a norma della quale la competenza all’adozione degli atti gestionali appartiene ai dirigenti dell’Ente locale.

In particolare, sono attribuiti ai dirigenti "tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previste dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale".

4) Con il quarto motivo di appello si sostiene che nessuna censura poteva essere legittimamente sollevata nei confronti della quantificazione delle somme da corrispondere a titolo di risarcimento, essendo stata essa determinata in applicazione delle vigenti disposizioni di legge. In proposito rileverebbe la circostanza che nell’area in questione, a seguito della variante approvata con decreto dell’Assessore al territorio e ambiente n. 584 del 27.6.1996, è stata attribuita la destinazione urbanistica (zona F) con vincolo di tipo conformativo.

La censura è infondata.

Come rettamente rilevato dal giudice di prime cure, ai fini del risarcimento del danno da liquidarsi per effetto del provvedimento di acquisizione ex art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001, l’importo da liquidarsi non avrebbe potuto prescindere dalla destinazione urbanistica del sito al momento dell’approvazione del progetto in variante, rivalutato alla luce dell’effettivo valore del bene al momento dell’acquisizione in argomento, risultando irrilevante a tali fini anche la sopravvenuta classificazione quale "zona di rischio rilevante".

Va soggiunto che, secondo il rilievo contenuto nella sentenza di questo Consiglio n. 299 del 22 aprile 2009, relativa all’acquisizione nel 2007 al patrimonio indisponibile del Comune dell’area in questione, decisione richiamata dal T.A.R., "rispetto alla valutazione dei beni operata nel 2002 e richiamata dalla deliberazione della Giunta municipale n. 39 del 2007, ai fini della determinazione del risarcimento del danno correlato all’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare, specificamente, il contesto ampiamente urbanizzato in cui è ubicato l’immobile, nonché l’eventuale presenza di fabbricati".

5) Col quinto e ultimo motivo di appello si contesta l’accoglimento della domanda risarcitoria inerente al danno patito per l’avvenuta demolizione del fabbricato realizzato dagli appellanti e alla acquisizione della relativa area di sedime.

Al riguardo si sostiene che, alla data della demolizione, nessuna sanatoria era intervenuta nei confronti del manufatto de quo, il quale, quindi, non poteva che considerarsi abusivo.

La censura è infondata.

Una volta annullato il provvedimento di diniego del condono, diventa irrilevante, ai fini della qualificazione del danno, sostenere che il fabbricato sarebbe ancora abusivo.

Correttamente, quindi, la vicenda è stata inquadrata dal primo giudice nello schema dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c.

6) In conclusione, l’appello principale va respinto.

7) Può, quindi, procedersi all’esame dell’appello incidentale che si palesa fondato nei sensi e limiti che qui di seguito si espongono.

Nelle more dello svolgimento del contenzioso in esame è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 293 dell’8 ottobre 2010, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2011.

Così inquadrato il tema della vicenda, osserva questo Consiglio che, la parte della sentenza che fa riferimento al citato art. 43 al fine di dettare prescrizioni all’Amministrazione comunale deve ritenersi non più corretta (cfr., in fattispecie analoga, C.d.S., Sez. IV, 1 giugno 2011, n. 3331).

Non potendo più essere azionato tale meccanismo procedimentale accelerato, deve ritenersi che il Comune abbia unicamente la possibilità di ottenere il consenso della controparte per la stipula di un contratto di vendita, anche con funzione transattiva, oppure agisca con un nuovo procedimento espropriativo.

Il Collegio deve, quindi, unicamente pronunciarsi sulle modalità cui dovrà attenersi l’Amministrazione per la quantificazione del danno risarcibile, fermo rimanendo che, perpetuandosi l’illegittima detenzione fino al momento dell’acquisizione della proprietà, fino a quel momento permarrà anche l’obbligo di tenere indenne il privato dalle conseguenze illegittime dell’azione amministrativa.

Acclarato che non può essere risarcito il danno alla proprietà, in quanto il diritto dominicale permane in capo al privato non legittimamente espropriato, il risarcimento del danno deve operare in relazione alla illegittima occupazione del bene, che costituisce illecito permanente, e deve, pertanto, coprire le voci di danno da questa azione derivanti, dal momento del suo perfezionamento fino alla giuridica regolarizzazione della fattispecie.

Ciò impone, quindi, che siano individuati il momento iniziale e quello finale del comportamento lesivo.

Alla stregua del citato precedente giurisprudenziale di cui alla Sezione IV del Consiglio di Stato si impongono le seguenti considerazioni.

In relazione al termine iniziale, "questo deve essere identificato nel momento in cui l’occupazione dell’area privata è divenuta illegittima, il che significa che decorre dalla prima apprensione del bene, ossia dalla sua occupazione, qualora l’intera procedura espropriativa sia stata annullata, oppure dallo scadere del termine massimo di occupazione legittima, qualora invece questa prima fase sia rimasta integra".

In relazione al termine finale, "questo deve essere individuato nel momento in cui la pubblica Amministrazione acquisterà legittimamente la proprietà dell’area, essendo stata eliminata ogni possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e quello autoritativo del procedimento espropriativo".

Venendo ai profili quantificatori del risarcimento del danno, "in reazione al valore da corrispondere al privato, dovrà tenersi conto di quello di mercato dell’immobile, individuato non già alla data di trasformazione dello stesso (non potendo a tale data, una volta venuto meno l’istituto della c.d. accessione invertita, il trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione), e nemmeno a quella di pro-posizione del ricorso introduttivo, bensì alla data in cui sarà adottato il citato atto transattivo, di qualsiasi tipo, al quale consegua l’effetto traslativo de quo".

In relazione poi al danno intervenuto medio tempore, e quindi a quello conseguente dall’illegittima occupazione, intercorrente tra i termini iniziali e finali sopra precisati, "i danni da risarcire corrisponderanno agli interessi moratori sul valore del bene, assumendo quale capitale di riferimento il relativo valore di mercato in ciascun anno del periodo di occupazione considerato; le somme così calcolate saranno poi incrementate per interessi e rivalutazione monetaria dovuti dalla data di proposizione del ricorso di primo grado fino alla data di deposito della presente sentenza".

8) In conclusione, per le suesposte considerazioni, assorbita ogni censura o eccezione non esaminata, in quanto irrilevante e ininfluente ai fini della decisione, l’appello principale va respinto, mentre quello incidentale va accolto nei sensi e limiti sopra indicati con conseguente riforma della sentenza impugnata.

Le spese, le competenze e gli onorari dei due gradi di giudizio sono posti a carico del Comune di Gela e sono liquidati a favore degli appellati nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdzizionale, decidendo sul ricorso in appello indicato in epigrafe, così statuisce:

1) respinge l’appello principale;

2) accoglie, nel sensi e limiti indicati in motivazione, l’appello incidentale con conseguente riforma della sentenza appellata.

Condanna il Comune di Gela al pagamento in favore degli appellati delle spese, competenze e onorari dei due gradi di giudizio che liquida complessivamente in Euro 5.000 (euro cinquemila).

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo, nella Camera di Consiglio del 9 giugno 2011, dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Antonino Anastasi, Guido Salemi, estensore, Pietro Ciani, Giuseppe Mineo, componenti.

Depositata in Segreteria il 2 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 11-07-2012, n. 11736 Testamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

G. e G.C., con atto di citazione del 21 maggio 2004, impugnavano la sentenza con la quale il Tribunale di Milano respingeva la loro domanda di risoluzione della disposizione testamentaria, con la quale B.G. deceduta il (OMISSIS) aveva istituito erede universale L’Almo Collegio Borromeo, per l’inadempimento dell’onere apposto all’istituzione. Secondo G. e G.C. l’Almo Collegio Borromeo aveva accettato l’eredità di B.G. con beneficio di inventario, dopo aver ottenuto autorizzazione governativa, ma non aveva dato esecuzione agli obblighi e oneri imposti dalla testatrice poichè aveva svuotato le case relitte di (OMISSIS), aveva stipulato un compromesso di vendita delle stesse con terzi soggetti, aveva venduto terreni siti nel Comune di (OMISSIS) a prezzi non di mercato, ma non aveva istituito le borse di studio annuali e premi di poesia previsti dalla testatrice. Gli appellanti, avevano chiesto al Tribunale che venissero dichiarati eredi legittimi, che venisse dichiarato l’Almo Collegio Borromeo decaduto dall’istituzione di erede per non aver dato esecuzione agli oneri e obblighi imposti dalla testatrice e venisse ordinato, allo stesso Almo Collegio, l’immediato rilascio a favore degli attori, di tutti i beni ereditali, i irutti percepiti dei beni suddetti e il corrispettivo al valore di mercato dei beni alienati e di quelli non più rinvenibili nell’asse ereditario.

L’Almo Collegio Borromeo aveva eccepito l’inammissibilità della domanda di declaratoria di decadenza dalla istituzione di erede, il difetto d legittimazione attiva degli attori, l’estinzione del diritto degli attori di accettare l’eredità relitta da B. G., oltre l’infondatezza nel merito della domanda per l’insussistenza del preteso inadempimento.

L’appello con il quale veniva impugnata la sentenza del Tribunale si fondava su due motivi: a) il primo relativo al mancato svolgimento di attività istruttoria, ed in particolare, alla mancata ammissione di una CTU e b) il secondo al mancato riconoscimento dell’inadempimento da parte dell’Almo Collegio Borromeo delle disposizioni testamentarie laddove prevedevano l’istituzione di un Centro Culturale.

Si costituiva anche nel giudizio di appello l’Almo Collegio Borromeo, contestando integralmente il fondamento del gravame ed, in particolare, la carenza di legittimazione degli attori, considerata la mancata dimostrazione della loro qualità di eredi legittimi.

La Corte di Appello di Milano respingeva l’appello, ritenuta la prescrizione del diritto degli appellanti ad accettare l’eredità.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da G. e G.C. con ricorso affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria. L’Almo Collegio Borromeo ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

1.= In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni sollevate dal controricorrente in ordine alla nullità della procura e alla violazione del principio dell’autosufficienza.

1.a).= Secondo l’Almo Collegio Borromeo la procura rilasciata dai sigg. G. in favore del loro difensore Avv. Italo Maggioni sarebbe affetta da un grave vizio perchè: a) apposta in calce all’avversario ricorso per cassazione ed in un foglio separato dal corpo dell’atto, b) la procura cosi come il foglio che la contiene erano senza data; c) i sigg. G. avrebbero eletto domicilio presso un avvocato con studio in Vigevano e non in Roma, pertanto non era dato desumere nè la provenienza dell’atto da un difensore munito di procura speciale nè la posteriorità del rilascio della procura alla sentenza impugnata.

1.a.1).= L’eccezione è infondata e non può essere accolta perchè la procura conferita per il giudizio di legittimità costituisce parte integrante del ricorso cui accede quando, conformemente al disposto dell’art. 83 c.p.c., comma 3, come novellato dalla L. 27 maggio 1997, n. 141, art. 1, essa risulti (come nel caso di specie) apposta in calce al ricorso su un foglio separato, materialmente congiunto al ricorso e collocata prima della relata di notifica del ricorso stesso. Ad un tempo, non assume alcun rilievo l’eventuale mancanza della data, la quale, avendo la funzione di attestare che la procura è stata rilasciata dopo la pubblicazione della sentenza impugnata e prima della notifica del ricorso, può essere desunta anche "aliunde", come nell’ipotesi in esame, in cui la procura risulta collocata prima della relata di notifica del ricorso stesso e la relata di notifica risulta inserita nello stesso foglio che contiene l’atto della procura.

2.= Secondo l’Almo Collegio Borromeo, il ricorso "avversario" sarebbe inammissibile anche per l’insufficiente indicazione dei fatti di causa, ed in particolare per quanto riguarda la carente esposizione sia dello svolgimento dei precedenti gradi di giudizio sia del contenuto della sentenza impugnata. Il deducente chiarisce che la parte avversaria non ha adeguatamente specificato quali in realtà fossero i motivi specifici di impugnazione dedotti nel giudizio di appello nè ha avuto cura di illustrare quali fossero le eccezioni, le domande proposte dalle parti costituitesi in giudizio nè di riprodurre le conclusioni assunte dalle parti nel medesimo giudizio nè di trascrivere i dispositivi delle decisioni che hanno definito i gradi di merito. E di più la difesa avversaria, pur indicando le norme di diritto che sarebbero state violate o falsamente applicate dai Giudici di secondo grado, non ha assolto l’onere di esporre le ragioni e le argomentazioni a sostegno della dedotta violazione delle norme di diritto richiamate.

2.1.= L’eccezione non ha motivo d’essere perchè il ricorso in esame contiene un’esposizione adeguata e sufficiente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dai quali risultano le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. A sua volta, l’esposizione dell’unico motivo di ricorso contiene: a) l’indicazione della norma e dei principi giuridici che, secondo i ricorrenti, sarebbero stati violati dalla Corte milanese e, b) le ragioni dell’asserita violazione di diritto.

3.= Con l’unico motivo di ricorso, G. e G.C. lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 480 cod. civ..

Avrebbe errato la Corte milanese, secondo i ricorrenti, nel non aver applicato o aver applicato erroneamente l’art. 480 c.c., comma 2, per il quale nelle ipotesi di eredità devolute a persone giuridiche o enti morali ed ecclesiastici il termine previsto dall’art. 480 cod. civ., comma 2, per accettare l’eredità.

inizierebbe a decorrere dal momento dell’autorizzazione ex art. 17 c.c. (ne testo previgente rispetto alla L. n. 127 del 1997), in quanto tale autorizzazione aveva valore di elemento costitutivo della capacità giuridica dell’ente di accettare l’eredità e rappresentava perciò un impedimento giuridico all’acquisto della stessa. Ai sensi dell’art. 480 cod. civ., comma 2, a sua volta, secondo i ricorrenti, anche per gli eredi legittimi il dies a quo dovrebbe essere quello dell’avvenuta autorizzazione perchè solo con la autorizzazione si è avverata la condizione cui si riferisce l’art. 480 cod. civ..

Ora, specificano i ricorrenti, la successione si è aperta il 7 marzo 1983, il Borromeo ha accettato l’eredità il 24 gennaio 1991 ed ha deliberato di alienare i beni ereditati l’11 marzo 1996. Il Borromeo è stato sempre consapevole che sino alla data del 24 gennaio 2001 gli eredi legittimi avrebbero potuto ritualmente accettare l’eredità.

In considerazione di ciò, i ricorrenti formulano il seguente quesito di dritto:

"Atteso che il termine di prescrizione per l’accettazione dell’eredità da parte delle persone giuridiche ed enti morali od ecclesiastici (eredi testamentari) decorre dal giorno dell’accettazione autorizzata e beneficiata dell’eredità ex abrogato art. 17 cod. civ. (come concordemente affermato dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Milano) dica la Suprema Corte se il termine di prescrizione per l’accettazione dell’eredità da parte degli eredi legittimi decorra o meno dalla stessa data, secondo il disposto del dell’art. 480 cod. civ., comma 2 in relazione all’art. 2935 c.c.".

3.1.= Il motivo è infondato e non può essere accolto perchè la Corte milanese ha correttamente interpretato l’art. 480 cod. civ., comma 2 così come ha correttamente coordinato l’art. 480 cod. civ. con l’art. 2935 cod. civ in tema di prescrizione del diritto.

3.1.a). Intanto, appare opportuno chiarire che il caso in esame non può essere ricondotto alla normativa di cui al secondo comma dell’art. 480 cod. civ. perchè l’istituzione contenuta nel testamento olografo della signora B., oggetto del presente giudizio, non integra gli estremi di un’istituzione condizionale, ma di un’istituzione modale, considerato che la testatrice ha posto a carico dell’erede l’obbligo ad una data prestazione senza che quell’obbligo incidesse, sospendendone l’efficacia, sulla disposizione testamentaria. Come afferma dottrina e giurisprudenza:

mentre il modo determina l’insorgenza di un’obbligazione cui il beneficiario è tenuto ad adempiere, nel negozio sottoposto a condizione risolutiva potestativa (dal momento che solo in questa ipotesi la realizzazione dell’evento dipende dalla condotta del soggetto beneficiato) il soggetto non è tenuto, invece, all’adempimento (la condizione sospende o risolve l’efficacia, ma non obbliga). Se si verificherà l’evento (che coincide con il risultato di una condotta volontariamente tenuta dal beneficiato) il negozio potrà dirsi definitivamente efficace, in caso contrario (senza che possa considerarsi inadempimento il comportamento del soggetto) si estingueranno gli effetti interinalmente prodotti. Insomma, la condizione sospende ma non obbliga, il modo obbliga ma non sospende.

Ora, nel caso in esame, non vi è dubbio che la prestazione cui era tenuto il beneficiario obbligava ma non sospendeva gli effetti della disposizione testamentaria di cui si dice, considerato che la prestazione identificata e richiesta dalla testatrice non incideva sull’istituzione di erede.

3.1.b).= Piuttosto, va qui osservato che appare condivisibile l’orientamento secondo il quale il termine previsto dall’art. 480 cod. civ. per l’accettazione di eredità da parte di persone giuridiche in generale, e degli enti morali ed ecclesiastici in particolare, non inizia a decorrere se l’ente chiamato all’eredità non sia stato ancora autorizzato dall’autorità competente considerato che, prima della L. n. 127 del 1997 (art. 13 della stessa) ai sensi della L. 27 maggio 1929, n. 848, artt. 9 e 10 "mancando l’autorizzazione gli acquisti e le accettazioni … erano nulli". Ed è, altresì, condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il dies a quo del termine prescrizionale riferito all’accettazione dell’eredità delle persone giuridiche in generale, e degli enti morali ed ecclesiastici in particolare, va riferito anche a successivi chiamati e comunque ai chiamati all’eredità per legge. Come ha bene affermato la Corte milanese: "Proprio argomentando dalla simultaneità del decorso del termine per l’erede testamentario e per quello legittimo si deve infatti ritenere che per quest’ultimo il termine per l’accettazione dell’eredità non possa iniziare a decorrere prima di quello per l’erede testamentario".

3.1.c).= Tuttavia, va chiarito che il termine di prescrizione decennale di cui si dice decorrerà dalla data in cui il chiamato ha ottenuto la prescritta autorizzazione ad accettare l’eredità e non invece dall’accettazione autorizzata. Come ha avuto modo di evidenziare questa Corte in altra occasione; considerato l’impedimento di legge all’accettazione dell’eredità da parte delle persone giuridiche e per gli enti morali ed ecclesiastici, la decorrenza del termine tanto di decadenza quanto di prescrizione deve farsi risalire, ai sensi dell’art. 2935 c.c., al momento in cui l’autorizzazione è stata concessa. D’altra parte, non si capirebbe perchè l’erede legittimo dovrebbe attendere l’accettazione della persona giuridica per poter esercitare il diritto di accettare a sua volta l’eredità, dal momento che dopo l’autorizzazione l’erede testamentario soggetto ad autorizzazione viene a trovarsi nella condizione di poter esercitare il proprio diritto. Per altro, ove l’erede testamentario non fosse soggetto ad alcuna autorizzazione si verrebbe a trovare nella stessa situazione in cui si troverebbe l’erede legittimo e per entrambi il termine prescrizionale inizierebbe dall’apertura della successione e non anche dall’accettazione della successione testamentaria.

In definitiva, il ricorso va rigettato e i ricorrenti, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., condannati, in solido, al pagamento delle spese giudiziali che verranno liquidate con il dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.