T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 21-01-2011, n. 655

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso notificato alla resistente Amministrazione comunale di Gerano in data 25 gennaio 2006 e depositato il successivo 20 febbraio, espone il ricorrente di avere realizzato un bagnetto in adiacenza ad un vecchio fabbricato che costituisce la sua abitazione. Espone, altresì di avere presentato domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 relativamente al piccolo abuso realizzato, ma di non avere ancora ottenuto risposta, quando l’Amministrazione comunale gli ha ingiunto la demolizione, motivandola, fra l’altro, con la circostanza che la richiesta di sanatoria "risulta non conforme a quanto prescritto nelle NTA del vigente PRG approvato con deliberazione del 13 luglio 1998, al regolamento edilizio ed alla normativa urbanistica in genere, in quanto non vengono rispettate le distanze dalla via pubblica, così come comunicato all’interessato con nota del 23 novembre 2005". Rappresenta ancora che il piccolo manufatto insiste su una porzione di terreno che apparteneva al Comune il quale lo ha poi venduto al ricorrente con atto notarile del 3 agosto 2002 e che, nel 1986, la sua dante causa aveva presentato domanda di condono ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, successivamente integrata con domanda del 15 ottobre 1997.

Avverso l’ordinanza di demolizione l’interessato deduce la illegittimità del provvedimento per carenza di motivazione, contraddittorietà ed eccesso di potere. Lamenta che il modesto manufatto è essenziale per consentire normali condizioni di vivibilità dell’immobile, che esso costituisce una pertinenza, oltre tutto inglobato nella veranda di proprietà del ricorrente, già condonata e posta a copertura e delimitazione del modesto spazio di accesso alla sua abitazione. Rappresenta ancora che il condono pure richiesto dalla dante causa non era stato concesso, perché il terreno sul quale insisteva il manufatto era di proprietà comunale, sicchè, una volta rimossa la causa principale per la quale il bene non poteva essere sanato, appariva del tutto contraddittoria la motivazione del provvedimento, laddove il Comune prima vende la porzione di terreno poi ne lamenta il mancato rispetto delle distanze dalla via pubblica.

Conclude per l’accoglimento dell’istanza cautelare e del ricorso.

In assenza di costituzione dell’Amministrazione comunale alla Camera di Consiglio del 16 marzo 2006 l’istanza cautelare è stata accolta.

Il ricorso è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 20 gennaio 2011 alla quale il Collegio ne ha constatato la improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse.

Infatti parte ricorrente ha depositato in atti una memoria per l’udienza odierna dalla quale risulta che egli aveva presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e che il Comune di Gerano ha accolto la richiesta, anche alla luce dell’accoglimento dell’istanza cautelare ed ha rilasciato la concessione in sanatoria in data 18 febbraio 2008.

Di conseguenza non residua in capo al ricorrente più alcun interesse alla coltivazione del gravame siccome rivolto contro un provvedimento che appare superato dalle determinazioni dell’Amministrazione.

Per le superiori considerazioni il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Non vi è luogo a procedere sulle spese di giudizio, non essendosi costituita l’Amministrazione comunale.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Nulla spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Elia Orciuolo, Presidente

Giancarlo Luttazi, Consigliere

Pierina Biancofiore, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza 16 Settembre 2010 , n. 19586 Stessa zona e clientela? Valido il patto di non concorrenza inserito nel contratto di agenzia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con ricorso, depositato il 5.01.2 000, la soc. Zanella e De Barba instaurava giudizio di merito – a seguito dell’ordinanza del 7.12.1999 che intimava in via di urgenza a Bogo Paolo e De Mari Gianbattista l’immediata cessazione di ogni attività concorrenziale nelle zone assegnate alla società ricorrente nella provincia di Belluno fino allo scadere del patto di non concorrenza.
La società Zanella – De Barba chiedeva l’accertamento della violazione dell’anzidetto patto di non concorrenza stipulato con i convenuti, con la condanna di questi ultimi alla restituzione di quanto incassato in esecuzione di detto patto di non concorrenza a decorrere dal 1°.01.1998, oltre accessori, nonché al risarcimento dei danni.
I convenuti nel costituirsi contestavano le domande attrici, chiedendone il rigetto, perché infondate in fatto e in diritto.
All’esito, espletati i mezzi istruttori ammessi (interrogatorio formale dei convenuti e prova per testi), il Tribunale di Belluno con sentenza n. 203 del 2002 dichiarava il difetto di legittimazione passiva della convenuta società Bogo – De Mari e rigettava il ricorso nei confronti dei convenuti Paolo Bogo e Gianbattista De Mari, osservando che nessuna attività concorrenziale poteva ritenersi provata in danno della ricorrente.
II. Contro tale decisione proponeva appello principale la società Zanella – De Barba ribadendo la validità del patto di non concorrenza per l’intera provincia di Belluno, la violazione del patto per lo s volgimento di attività concorrenziale per tale provincia, in ogni caso la violazione del patto per lo svolgimento di attività concorrenziale nella zona contrattualmente assegnata all’appellante.
Contro la stessa sentenza gli appellati, in proprio e quali rappresentanti della società Bogo – De Mari, proponevano appello incidentale, chiedendo che, in riforma di tale decisione, fosse dichiarata la nullità del patto di non concorrenza in relazione all’avvenuta previsione di una zona territoriale di efficacia (la provincia di Belluno) più ampia di quella oggetto dell’originario mandato di agenzia, che la individuava esclusivamente in determinati Comuni del bellunese; deducendo altresì l’inadeguatezza del compenso pattuito.
Gli stessi appellati chiedevano che, nell’ipotesi di riforma anche parziale dell’impugnata decisione, il “quantum” fosse contenuto nei limiti della clausola penale.
All’esito la Corte di Appello di Venezia con sentenza n. 17 del 2006 ha rigettato l’appello principale e quello incidentale, ritenendo corretta la prima decisione in ordine ai vari punti oggetto di impugnativa.
III. La società Zanella e De Barba ricorre per cassazione sulla base di otto motivi.
Gli intimati De Mari Gianbattista e Bogo Paolo e la società in nome collettivo Bogo – De Mari non si sono costituiti.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso la ricorrente deduce l’erroneità dell’impugnata sentenza per avere escluso la legittimazione passiva della società in nome collettivo, ritenendola estranea al patto di non concorrenza.
Il motivo è infondato, in quanto il giudice di appello ha ritenuto, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, che la concorrenza sleale in base alla domanda spiegata è stata effettuata dai subagenti, i quali devono rispondere personalmente con il loro patrimonio per atti da loro commessi, sicché la società, anche priva di personalità giuridica, rimane estranea alla controversia in ragione di una sua propria autonomia patrimoniale.
2. Con il secondo motivo la ricorrente contesta la sentenza di appello in relazione all’affermazione circa l’estensione del patto di non concorrenza, che non avrebbe potuto essere maggiore di quella
assegnata contrattualmente, sostenendo che le norme imperative sugli agenti di assicurazione ex art. 1753 Cod. Civ. degradano a fronte degli accordi economici collettivi e degli usi.
Il motivo infondato, giacché la normativa prevista dal codice civile è indisponibile dalle parti per la natura e lo spessore degli interessi in gioco e non può essere limitata, come sostiene la società ricorrente, né dagli usi né dalla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 1753 Cod. Civ., non avendo questa disposizione la portata che la società stessa vuole ad essa assegnare.
Per concludere sul punto può dirsi che la sentenza impugnata può considerarsi immune dalle censure mosse, atteso che il patto di non concorrenza, pur essendo nella disponibilità delle parti, è liberamente stipulabile solo nell’ambito della zona assegnata.
A tale riguardo va ricordato che in giurisprudenza è stato affermato che, in caso di patto di non concorrenza inserito in un contratto di agenzia, detto patto può ritenersi operante ai sensi dell’art. 1751 bis – comma 1 – cod. civ. solo per la medesima zona e clientela per la quale era stato concluso il contratto di agenzia, mentre deve ritenersi nullo per la parte eccedente (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27839).
In ogni caso le doglianze contenute nel secondo motivo vanno disattese, in quanto con esse la società tende ad una rivalutazione dei fatti di causa e ad una rivalutazione dell’istruttoria, non consentite in sede di legittimità.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione del patto di non concorrenza, per avere omesso ogni accertamento sul punto della sua ritenuta invalidità per la parte relativa alla provincia di Belluno.
La ricorrente osserva che costituiva dato pacifico che il Bogo e De Mari, subito la cessazione del rapporto di agenzia, avessero iniziato a svolgere attività assicurativa per conto dell’INA Assitalia in alcuni Comuni del Cadore della provincia di Belluno.
Il motivo è inammissibile, perché, pur essendosi in presenza di violazione di cui all’art. 360 n. 5 cpc, era ugualmente necessaria – alla stregua dell’art. 366 bis cpc – una formulazione del quesito chiara e succinta, idonea a far emergere le ragioni che dovrebbero portare alla cassazione della decisione impugnata.
4. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta violazione del patto di non concorrenza nella zona assegnata alla SAI di Belluno, osservando che i giudici di appello hanno escluso ogni rilevanza alla deposizione della teste Viel Mirella.
Il motivo è inammissibile in ragione di un quesito non chiaro ed incapace di riassumere il lungo iter argomentativo in cui si intrecciano motivi di fatto e di diritto relativi a circostanze e a risultanze istruttorie, di cui si chiede il riesame non consentito in questa sede.
5. Con il quinto motivo la ricorrente censura la sentenza di appello nel punto in cui ha ritenuto provata la violazione del patto di non concorrenza, perché, a suo dire, dalla dichiarazione del teste De March non sarebbe emerso nulla di rilevante, se non addirittura che il Bogo si sarebbe rifiutato di stipulare la polizza assicuratrice.
Con il sesto motivo la ricorrente lamenta la mancata ammissione – senza alcuna motivazione – di risultanze istruttorie avanzate fin dal primo grado di giudizio proprio per dimostrare la violazione del patto di non concorrenza.
Entrambi i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, risultano inammissibili, perché sollecitano ancora una volta il riesame delle risultanze istruttorie e perché lamentano il mancato esercizio di ufficio di poteri istruttori del giudice senza che sia stata provata la loro indispensabilità ai fini della decisione, come richiesto dall’art. 437 cpc.
6. Con il settimo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nel punto in cui ha omesso qualsiasi motivazione circa la condanna alle spese, tanto più che la stessa ricorrente era risultata vittoriosa nel giudizio cautelare.
La censura non ha pregio e va disattesa, in quanto la sentenza impugnata ha seguito il principio generale della soccombenza e pertanto non vi è alcuna violazione di legge che valga a cassare sul punto la decisione di appello.
7. Con l’ottavo motivo la ricorrente ribadisce la richiesta di risarcimento del danno subito derivante della violazione del patto di non concorrenza.
Tale richiesta, rimasta assorbita dalla decisione di rigetto del giudice di appello, è inammissibile in questa sede, atteso che l’impugnata sentenza, con motivazione congrua e corretta sul piano logico-giuridico, ha osservato che il giudice di primo grado ha ben ritenuto l’insussistenza della violazione del patto lamentata, con esclusione quindi della configurabilità dei danni conseguenti a tale asserita violazione.
8. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
Nessuna statuizione va emessa per le spese del giudizio di cassazione, non essendosi costituiti gli intimati Bogo-De Mari e la società in nome collettivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cass. Civ. Sez. Lav. 08.04.2011 n. 8063 – orario di lavoro tempi di vestizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A.S. ed altri tredici lavoratori avevano chiesto la condanna dell’X, di cui erano dipendenti presso lo stabilimento di (OMISSIS), al pagamento delle retribuzioni spettanti a titolo di compenso per lavoro straordinario per i cd. " tempi di percorrenza" e per i c.d. "tempi di vestizione", cioee dei tempi necessari per arrivare dai tre cancelli di accesso allo stabilimento fino ai singoli reparti ove erano collocati i terminali marca tempo, nonchee dei tempi minimi necessari per indossare gli indumenti di lavoro. Nel contraddittorio con llX, che si opponeva alla domanda, lladito Tribunale di Genova, con la sentenza impugnata resa ai sensi dell’art. 420 bis cod. proc. civ., interpretava gli artt. 5 parte generale del CCNL Metalmeccanici del settore pubblico, 2 parte speciale C del medesimo contratto, 5 parte generale del CCNL metalmeccanici privati del 5.7.94 e del 8.6.99, nonchee llart. 3 disciplina parte speciale prima dei suddetti contratti del 1994 e del 1999, nel senso che essi escludono questi tempi dal computo dell’orario di lavoro retribuito; indi il Giudice adito dichiarava mille dette clausole contrattuali nella parte in cui non considerano, come , orario di lavoro da retribuire, i periodi di tempo minimi, ivi compresi quelli per la vestizione, r necessari per arrivare dal varco di accesso dello stabilimento alle effettive posizioni di lavoro e viceversa, ivi compreso il tempo per effettuare la doccia a fine giornata. Avverso detta sentenza llUva ricorre con tre complessi motivi.
I lavoratori resistono con controricorso con cui eccepiscono la inammissibilitaa del ricorso per due diversi motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Va preliminarmente rigettata la eccezione di inammissibilitaa del ricorso sollevata dai contro ricorrenti, i quali sostengono che il Giudice adito avrebbe deciso la causa nel merito e quindi non sarebbe consentito llimmediato ricorso per cassazione ex art. 420 bis c.p.c., comma 2; la eccezione ee infondata perchee si ee qui al cospetto di una sentenza che ha giudicato sulla validitaa e sulla interpretazione della contrattazione collettiva, come espressamente previsto dalla disposizione codicistica citata, dal momento che ha affermato che i tempi minimi necessari per arrivare alla postazione di lavoro, non erano considerati dal CCNL come attivitaa da retribuire ed ha poi affermato che detta disciplina contrattuale era contra legem. Nessun altra statuizione risulta emessa, onde si tratta effettivamente di sentenza resa ex art. 420 bis, la quale ee passibile di immediato ricorso per cassazione per muovere censure sulla interpretazione e validitaa della contrattazione collettiva nazionale.
2. Parimenti infondato ee il secondo profilo di inammissibilitaa dedotto in controricorso, perchee ee ben vero che llart. 420 bis cod. proc. civ., u.c., impone che copia del ricorso per cassazione debba essere depositato presso il giudice a quo entro venti giorni dalla notifica, ma nella specie ee stato depositato il ricorso notificato, presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, sia pure in unica copia. Va allora fatta applicazione del principio piuu volte enunciato (tra le tante Cass. 7818/2006) sulla ritualitaa della notifica dell’atto di impugnazione a piuu parti presso un unico procuratore mediante consegna di una sola copia o di un numero di copie inferiori rispetto alle parti cui llatto ee destinato, ove vi sia stata la costituzione in giudizio di tutte le parti cui llimpugnazione ee diretta, come ee accaduto nella specie. Nee puoo determinare la nullitaa del presente ricorso per cassazione il fatto che la sua copia sia stata depositata ritualmente presso la cancelleria del giudice a quo, come prescrive llart. 420 bis, ma priva di autenticazione, giacchee questo requisito non ee espressamente prescritto dalla norma (come invece ee imposto dall’art 369, n. 2 per la copia della sentenza impugnata da depositare con il ricorso per cassazione ordinario).
3. Premesso che nella specie sono state depositate le copie integrali del contratti collettivi di cui si discute, si rileva che questa Corte ha giaa deciso la questione con varie sentenze del 2009 e precisamente con la n. 14919, n. 15492, e n. 15322.
In queste pronunzie, si ee preliminarmente richiamata la giurisprudenza formatasi sulla retribuibilitaa del tempo necessario ad indossare gli indumenti di lavoro (Cass. n. 19273 del 08/09/2006), secondo cui "Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltaa al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attivitaa fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attivitaa lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione ee diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito".
4. Indi si ee affermato che « In relazione all’art. 5 dei CCNL in precedenza richiamati nella parte in cui essi disponevano che "sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione", la sentenza impugnata non ha esitato a dichiararne la nullitaa senza chiedersi – come sarebbe stato invece necessario – se tale risultato avrebbe potuto essere evitato attribuendo a tali clausole una diversa interpretazione: se, cioee, in analogia a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla disciplina legale dell’orario di lavoro presa in considerazione siano da ricomprendere nella nozione di lavoro "effettivo" come tale da retribuire, anche le attivitaa preparatorie allo svolgimento dell’attivitaa lavorativa, sempre che siano etero dirette dal datore di lavoro; ed ee indubbio che analogo criterio interpretativo andrebbe poi adottato anche in presenza di operazioni successive alla prestazione quando rivestano le medesime caratteristiche di quelle preparatorie.
Quanto, poi, all’altra disposizione di cui all’art. 5 cit., secondo cui "le ore di lavoro sono contate con llorologio dello stabilimento o reparto", anchhessa ritenuta nulla dal tribunale, la conclusione da esso accolta non ee condivisa dalla Corte per un duplice ordine di ragioni.
Per un verso, una clausola contrattuale, tanto piuu perchee destinata ad avere un rilievo eccedente il singolo giudizio, non puoo considerarsi invalida ove la contrarietaa con la norma imperativa sia ravvisata con specifico riferimento alle particolari modalitaa lavorative in atto presso una determinata unitaa produttiva, essendo la nullitaa espressione di un contrasto immanente con la norma imperativa, nel senso che llinvaliditaa- come affermato da autorevole dottrina – "ee il trattamento rispondente a una carenza intrinseca del negozio (della norma collettiva, nella specie) nel suo contenuto precettivo", sii che essa non puoo derivare da fattori accidentali.
Per altro verso, la clausola in esame non ha una funzione prescrittiva, ma piuttosto ha un carattere, per cosii dire, meramente ordinatorio o regolativo ed assolve a fini eminentemente pratici, validi nella generalitaa dei casi, per cui essa ee destinata a cedere a fronte dell’eventuale ricomprensione nell’orario di lavoro di operazioni preparatorie e/o integrative della prestazione lavorativa che siano – rispettivamente – anteriori o posteriori alla timbratura dell’orologio marcatempo.
Sotto i profili indicati, pertanto, deve essere accolto il ricorso proposto dalla societaa, per la parte in cui essa nega che vi sia difformitaa tra il contenuto della normativa legale e della disciplina collettiva in questione, e restano allo stato assorbite in tale conclusione le altre censure dalla stessa sollevate (in ordine, in primo luogo, alla interpretazione da attribuire alla ripetuta norma contrattuale, nonchee all’asserito accordo tra le parti sociali quanto alla determinazione di una retribuzione comprensiva delle attivitaa preparatorie, al significato da attribuirsi alla disciplina legale ed alla mancata verifica del carattere dell’etero direzione nelle attivitaa preparatorie e/o integrative della prestazione)).
Seguendo gli indicati precedenti, la causa va, quindi, rimessa al giudice a quo perchee, esclusa la nullitaa delle clausole contrattuali in oggetto, proceda in via preliminare alla loro interpretazione ed affronti, ove necessario, le altre questioni proposte dalla ricorrente.
Al giudice di rinvio va rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, al Tribunale di Genova.
Cosii deciso in Roma, il 16 febbraio 2011.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Sicilia Catania Sez. III, Sent., 14-01-2011, n. 64 Amministrazione pubblica; Espropriazione

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Svolgimento del processo

Il sig. B.B. asserisce di aver abitato, in forza di un contratto di locazione con l’INPS ente proprietario dell’immobile, da certo sig. G.R. in un appartamento sito in Messina al numero civico 2 di Via Consolare Valeria.

Già dal 1779 il sig.B.B. si sarebbe trasferito presso un" appartamento (sito in Messina Via Consolare Valeria n.2), condotto in locazione dai suoi nonni signori R., insieme alla propria moglie signora R. (poi deceduta).

Deceduta la moglie del sig. B., questi avrebbe iniziato la convivenza con la signora D. nell’immobile predetto.

Nel 1983 sono morti entrambi i nonni del sig. B. e nello stesso anno questi ha trasferito la propria residenza anagrafica nell’appartamento ed avrebbe provveduto a volturare a proprio nome tutte le utenze (acqua,luce, gas) ed a continuale a corrispondere i canoni di locazione all’INPS, nonché a chiedere il proprio subentro nella locazione dell’immobile e la richiesta di acquisto dello stesso.

L’Istituto, però non avrebbe mai riscontrato dette richieste.

In data 13/10/2008 l’Università di Messina comunicava di aver acquistato l’immobile de quo dall’INPS, con atto di trasferimento del 10/2/1982, ed intimava lo sloggio dall’appartamento al signor B. e D..

Questi, in data 8/7/2008, ha presentato atto di citazione in giudizio, presso il Tribunale Civile di Messina, nei confronti dell’Università degli Studi di Messina, chiedendo al Giudice civile adito la dichiarazione di intervenuta usucapione dell’immobile da essi occupato (sito in Via Consolare Valeria n. 2), ed in data 8/7/2998 hanno presentato ricorso ex art. 700 c.p.c. per la disapplicazione del provvedimento di rilascio dell’immobile emesso dall’Università intimata in data 13/10/2008, che, però, veniva rigettata dal G.O.

Premesso ciò, il ricorrente, con il ricorso in epigrafe, chiede l’annullamento dei provvedimenti nella stessa epigrafe indicati proponendo tre articolati motivi di gravame con cui formula le censure di:

1) Violazione e falsa applicazione degli artt.823,comma 2, 828,e 830 del c.c. di legge.

L’Università avrebbe agito in via Amministrativa in carenza di potere, in quanto l’alloggio su cui si controverte non può qualificarsi né bene demaniale, né bene appartenente al patrimonio indisponibile dell’Università.

2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e seguenti della L. n. 241/1990.

In violazione delle garanzie partecipative prevista dalla L. n. 241/1990 il provvedimento impugnato non sarebbe stato preceduto dalla comunicazione di avvio di procedimento.

3) Violazione sotto vari profili della L. n. 431/1998 dell’art.1 L.r: n.11/2002 e degli artt. 1,3, e 5 della L n.392/1978.Eccesso di potere sotto il profilo della carenza dei presupposti, difetto di istruttoria ed illogicità manifesta.

3a) Premesso che il sig. B., sarebbe stato possessore da oltre trenta anni dell’immobile su cui si controverte, esso avrebbe acquistato la proprietà per usucapione del bene per cui è causa. Né avrebbe alcuna rilevanza, ai fini dell’usucapione dell’immobile la presunta destinazione ad uso pubblico che l’Università avrebbe conferito al bene in sede di esproprio nei confronti dell’INPS, avuto riguardo al lunghissimo tempo trascorso dall’atto di immissione in possesso (8/5/1972) con conseguente sottrazione dell’immobile alla destinazione pubblica.

3b) In subordine, a voler ammettere che non si fosse verificata l’usucapione in capo al ricorrente, s le condizioni di legge per il subentro nella conduzione in locazione dell’immobile ai sensi dell’art. 12 del DPR n. 1035/1971, in quanto il sig. B. era convivente del proprio nonno sig.R. alla data di decesso di quest’ultimo.

3c) In ipotesi ulteriormente subordinata il subentro sarebbe consentito dalla L.r. n. 11 del 2002.

In data 30.10.2008 il ricorrente ha depositato ricorso per motivi aggiunti (prima ritualmente notificato) contro l’avviso di rilascio dell’immobile.L’Avvocatura Distrettuale dello Stato ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza.

Con ordinanza cautelare del 20/11/2008 questo TAR ha rigettato, per carenza di presupposti, la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati.

Con memoria del 24/6/2010 il ricorrente ha ribadito le censura formulate con il ricorso introduttivo e, con nota del 13/10/2010 ha prodotto documentazione afferente la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato relativa alla dimostrazione della propria situazione di difficoltà economica.

Il difensore della ricorrente, avv. Carmelo Torre, ha presentato la parcella in relazione alla delibera del 29/9/2008 della Commissione per il patrocinio a spese dello Stato di ammissione provvisoria della ricorrente al beneficio di legge.

Alla pubblica udienza del giorno 10/11/2010 il ricorso è passato in decisione.

Motivi della decisione

Il primo motivo di gravame è infondato atteso che nella fattispecie è incontestabile la natura di bene pubblico indisponibile dell’alloggio su cui si controverte.

Sul punto, va preliminarmente rilevato che la pendenza di tale vertenza innanzi al Tribunale Civile di Messina, non incide sulla presente decisione, in quanto l’art.8, comma 1, del C.P.A. (D.lgs. n. 104/2010) consente al giudice amministrativo di pronunciare "incidenter tantum" anche su questioni relative a diritti, qualora la loro soluzione si atteggi come pregiudiziale necessaria per decidere la questione principale affidata alla sua cognizione (vedasi in tal senso la giurisprudenza formatasi in relazione agli omologhi artt. 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e art. 28 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054: Cons. Stato, V Sez., 13 settembre 1999 n. 1052; Cass. Civ. SS.UU. 5 maggio 2003, n. 6767).

Ed è pertanto entro i limiti della predetta pregiudizialità che in questa sede il Collegio prende in esame il ricorso e la questione relativa all’usucapione dedotta in questo giudizio.

Invero, detto immobile, come si rileva dagli atti allegati dall’Amministrazione resistente fa parte di un gruppo di immobili siti in Messina Via Consolare Valeria angolo Via Gazzi ubicati ai margini dell’area del Policlinico Universitàrio di Messina già in proprietà dell’INPS.

Detto Istituto, avuto riguardo al fatto che l’area predette era oggetto di una procedura espropriativa in corso della quale l’Università, oggi resistente, la quale peraltro ne aveva già preso possesso, con verbale datato 8/5/1972, con atto pubblico rogato il 10/2/1988 ha ceduto volontariamente, dietro compenso forfetario, le predette aree all’Università degli Studi di Messina (e ciò ovviamente in applicazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni pubbliche, tenuto conto che le aree sarebbero state destinate – in forza di un finanziamento statale all’Università di Messina ai sensi della L. n. 574/1965 – alla costruzione di padiglioni da adibire a cliniche universitarie).

Atteso ciò, passando, quindi, all’assunto di fondo da cui muove parte ricorrente (ossia quello relativo alla natura di bene "patrimoniale disponibile" dell’area oggetto delle ordinanze impugnate), il Collegio ritiene di non poterlo condividere, sia per ragioni di ordine generale, sia per ragioni di ordine specifico.

Quanto alle prime, è da dire che l’effetto del provvedimento con il quale la P.A. dispone l’espropriazione per ragioni di p.u. conferisce al bene che ne è oggetto una specifica destinazione pubblicistica (che poi è la ragione stessa del potere ablativo della P.A. a tenore dell’art. 42, comma 3, Cost.); di guisa che, una volta verificatasi l’ablazione (per effetto dell’emissione del decreto di esproprio, o come nella specie di altro atto negoziale equivalente), il bene entra a far parte del patrimonio indisponibile dell’amministrazione (cfr. Cons. St., Ad. Gen. parere n. 4 del 29 marzo 2001; Cons. St., Sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2939; cfr. anche Corte Cost. sent. 23 aprile 1998, n. 135 in tema di destinazione al patrimonio indisponibile del comune di terreni espropriati ex art. 35 L. 22 ottobre 1971 n. 865, entro i piani di edilizia residenziale pubblica da cedere successivamente in proprietà o in diritto di superficie ad enti od a privati per realizzare abitazioni economiche e popolari).

Alla base di un tale effetto sta la previsione di cui all’art. 826, comma 3, cod. civ., secondo cui "fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio"; categoria residuale, quest’ultima, nella quale non possono non farsi rientrare anche i beni espropriati in vista di un pubblico interesse, ancorché non ancora materialmente appresi dalla P.A. e\o trasformati nell’opera pubblica progettata.

D’altronde, già da tempo la prevalente dottrina ha ritenuto che alla formula "servizio pubblico" utilizzata dall’art. 826 si debba attribuire un significato residuale ed estensivo tale da comprendere qualunque attività degli enti pubblici rispetto alla quale il bene costituisca semplice mezzo, con esclusione dei soli casi in cui il bene sia semplicemente destinato alla produzione di un reddito e quindi risulti nel "dominium" della P.A. con valore e fini esclusivamente patrimoniali e privatistici.

Uno specifico referente normativo in tal senso è contenuto nel D.P.R. n. 327/2001 (T.U. sulle espropriazioni per pubblica utilità) laddove, all’art. 48, comma 4, è previsto che le aree "non utilizzate per realizzare le opere oggetto della dichiarazione di pubblica utilità" possono essere acquistate, con diritto di prelazione, dal comune territorialmente competente ed entrano a fare "parte del patrimonio indisponibile". Disposizione, questa, che sarebbe del tutto illogica ed incomprensibile se, per principio, si riconoscesse (così come postulato in ricorso) natura patrimoniale "disponibile" alle aree in ipotesi occupate dall’Università in data 8/5/1972 nell’ambito di un procedimento di espropriazione delle stesse.

Evidentemente, la norma citata muove dal presupposto che (in base ai principi) il procedimento espropriativo conferisca al bene appreso dalla P.A. una connotazione giuridicodominicale del tutto nuova, intrinsecamente finalizzata al soddisfacimento dell’interesse pubblico che sta alla base del procedimento medesimo, che nella fattispecie era costituito dalla destinazione derivante dal finanziamento assegnato all’Università di Messina ai sensi della L. n. 574/1965 per la progettata costruzione di padiglioni universitari da destinare a cliniche Universitàrie.

Una volta intervenuto (come nel caso di specie) il provvedimento ablativo che nella fattispecie è costituito dall’occupazione del bene da parte dell’Università e dalla successiva cessione del bene all’Università da parte dell’INPS, il bene stesso è entrato, comunque, a far parte del patrimonio "indisponibile" della P.A. e tale sua connotazione, ormai, potrebbe perdere solamente a seguito degli appositi procedimenti a tal fine previsti dalla legge, "retrocessione" totale o parziale, o "vendita", ex artt. 46 e segg. del T.U. n. 327/2001 (in precedenza ex artt. 60 e segg. L. 2359/1865).

In generale, si deve ritenere che, proprio per le finalità pubblicistiche che ne hanno giustificato l’occupazione in data 8/5/1972 in danno dell’INPS, ed il successivo atto di cessione del 10/2/1982 del bene espropriato:

– l’alloggio non può rientrare in nessun’altra categoria di beni se non in quella dei beni del patrimonio indisponibile amministrativo, salva richiesta di "retrocessione" o attivazione degli altri procedimenti previsti in favore dei soggetti espropriati o degli aventi ragione ai sensi degli artt. 46 e segg. del T.U. n. 327/2001, o degli artt. 60 e segg. L. 2359/1865 per i procedimenti soggetti alla pregressa normativa;

– soggiace alle norme di cui al successivo art. 828 cod. civ. secondo cui "i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano", con conseguente irrilevanza delle nome di diritto comune (quali quelle richiamate in ricorso);

– l’amministrazione ben può esercitare, "erga omnes", il potere di autotutela previsto per i beni demaniali dall’art. 823, comma 2, Cod. civ. (Cfr. Cons. Stato, IV Sez., 30 luglio 1974 n. 561; T.A.R. Lombardia, Milano, 11 giugno 1987, n. 316).

Sul quest’ultimo aspetto, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che:

– il potere di autotutela spettante alla P.A. per i beni demaniali, disciplinato dall’art. 823 c.c., può essere esercitato anche quando un immobile abbia natura di bene "patrimoniale indisponibile", in quanto resta all’amministrazione stessa il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative sia per eliminare ogni situazione di contrasto con l’interesse pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01101999, n. 1224);

– l’autotutela amministrativa prevista dall’art. 823, 2° comma c.c. ha un ambito di applicazione generale, costituendo ipotesi autonoma rispetto alle singole disposizioni di legge che prevedono particolari procedimenti a tutela dei beni demaniali (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20042000, n. 2428).

Si aggiunga, peraltro, che, nei casi in cui il bene espropriato non sia immediatamente utilizzato resta comunque, esercitabile il generale potere di autotutela (ordine di "reductio in pristino stato").

Da quanto detto discende che legittimamente i provvedimenti impugnati intimano lo sgombero dell’alloggio detenuto dal convivente dell’odierna, siccome bene che, finalisticamente collegato ad un pubblico finanziamento per la realizzazione di Padiglioni universitari, è entrato a far parte del patrimonio indisponibile dell’Università intimata, suscettibile di essere salvaguardato da quest’ultima con atti di natura autoritativa ed in autotutela come quelli impugnati col ricorso in esame.

Né, per le medesime considerazioni che hanno condotto il Collegio a rigettare il primo motivo di gravame, sono condivisibili le censure formulate con il terzo motivo.

Infatti, appare del tutto irrilevante la norma invocata dalla ricorrente al punto 3 b del 3° motivo di gravame (art. 12 del DPR n. 1035/1972), che afferisce alla disciplina di altre e diverse fattispecie. Di contro, va ribadito che la natura di bene patrimoniale indisponibile dell’appartamento di cui in causa esclude ogni giuridico pregio al terzo motivo ed all’istituto del diritto di subentro subentro ex DPR 1035/1972 o alla concessione in sanatoria ex L.r. n. 11 del 2002.

Per le considerazioni che precedono il ricorso in epigrafe va rigettato.

Quanto, infine, all’istanza di liquidazione della parcella del difensore della ricorrente, ammessa al patrocinio a spese dello stato, ne va disposta la revoca, stante la nonevidenziata esistenza (tanto alla Commissione gratuito patrocinio, quanto a questo Collegio deputato a valutare in via definitiva la sussistenza dei presupposto di ammissione al beneficio di legge – cfr. art. 136 DPR 115/2002) di altra contestuale richiesta di patrocinio a spese dello Stato da parte della convivente del ricorrente, sinora D., in altro analogo ricorso n. 1620/2008 trattato in questa stessa odierna udienza e per lo stesso immobile di via Consolare Valeria n. 2, di Messina (tanto più che sulla medesima vicenda risulterebbero incoati altri giudizi in sede civile, per i quali non è escluso sia stata chiesto – tanto dal ricorrente che dalla convivente D. Sebastiana – il beneficio del patrocinio a carico dello Stato).

Tale dato di fatto ed il connesso ingiustificato onere che ne deriverebbe a carico dell’Erario, si pone in palese contrasto con la "ratio" della norma contenuta nel combinato disposto degli artt. 80 e 91 D.P.R. 115/2002:

– l’art. 80 comma 1 prevede espressamente che "Chi è ammesso al patrocinio può nominare un difensore scelto tra gli iscritti negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato…";

– l’art. 91 comma 1, lett. b), stabilisce che "L’ammissione al patrocinio è esclusa… b) se il richiedente è assistito da più di un difensore; in ogni caso gli effetti dell’ammissione cessano a partire dal momento in cui la persona alla quale il beneficio è stato concesso nomina un secondo difensore di fiducia, eccettuati i casi di cui all’articolo 100".

Tali disposizioni ben evidenziano che:

– il beneficio in parola, per gli impegnativi riflessi di natura finanziaria che può comportare a carico dello Stato, deve essere applicato nella misura che sia strettamente necessaria alla difesa dei meno abbienti (ossia con la nomina di uno ed un solo difensore);

– che il relativo eventuale abuso (chiaramente rinvenibile nel caso di specie, stante il vincolo di convivenza che lega i ricorrenti e quel che più rileva la unicità dell’interesse da essi azionato verso un unico provvedimento che per di più è relativo ad un unico e medesimo immobile) non può non sanzionarsi con la perdita dell’ammissione al patrocinio in applicazione estensiva della lett. b) dell’art. 91 cit..

Le spese di giudizio possono tuttavia compensarsi tra le parti avuto riguardo alla natura della controversia ed alla peculiarità della vertenza.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando rigetta il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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