Cass. civ. Sez. V, Sent., 13-10-2011, n. 21080 Imposta valore aggiunto

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Svolgimento del processo

L’Agenzia Delle Entrate ricorre per cassazione avverso la sentenza, di cui in epigrafe, resa dalla Commissione Tributaria Regionale competente, con la quale era stato rigettato l’appello da esso Ufficio proposto avverso la sentenza resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Messina. Quest’ultima aveva accolto il ricorso avanzato dalla società Siciliana Lavorazione Carni s.r.l. avverso l’avviso di rettifica relativo all’Iva per l’anno d’imposta 1994, emesso a seguito di p.v.c. elevato dalla Guardia di Finanza che aveva rilevato l’indebita detrazione IVA relativamente ad alcune operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. Il Giudice dell’appello motiva il suo decisum con l’effettività delle operazioni di vendita della merce e con la irrilevanza per il cessionario della dimostrata qualità di prestanome del cedente, stante l’irripetibilità dell’Iva comunque evasa.

Il ricorso è fondato su duplice motivo.

Il contribuente resiste con controricorso e deposita successiva memoria.
Motivi della decisione

1. Preliminarmente va esaminata l’eccezione sollevata dalla società resistente che assume la formazione di un giudicato ad essa favorevole discendente dalla sentenza n. 194/26/06 della C.T.R. della Sicilia, depositata il 30.5.2007, non impugnato dall’Agenzia e passata in giudicato (che allega) che, pronunciando sull’avviso di rettifica Iva per l’anno d’imposta 1995 (scaturente dal medesimo verbale della Guardia di Finanza del 4.7.1997) ha rigettato l’appello proposto dall’ufficio contro la sentenza di primo grado, che aveva annullato detto avviso di rettifica.

1.1 Va premesso che con sentenza a Sezioni Unite n. 13916 del 2006 questa Corte ha già affermato la deducibilità e rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito, con la possibilità di produrre nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., la relativa attestazione, come nel caso di specie, fino all’udienza di discussione.

1.2 La suddetta eccezione è tuttavia infondata non potendo trovare applicazione, nella fattispecie in esame l’ulteriore principio enucleato nella medesima citata sentenza delle Sezioni Unite sull’efficacia del giudicato esterno, anche in materia tributaria, con riferimento "all’accertamento compiuto (nella sentenza passata in giudicato) in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause". 1.3 Come chiarito da questa Corte, infatti, (v. motivazione): "Gli elementi rispetto ai quali opera l’efficacia regolamentare del giudicato tributario sono quelli, e solo quelli, che abbiano un valore condizionante per la valutazione e la disciplina di una pluralità di altri elementi della fattispecie e per la produzione degli effetti previsti dalla norma (o, secondo il linguaggio utilizzato da altra dottrina, quegli elementi che costituiscano i referenti per l’applicazione di specifiche discipline)".

Tali possono essere considerati gli "elementi preliminari" nella costituzione della fattispecie tributaria, i quali, per la loro strutturale propedeuticità (o strumentalità) al riconoscimento di un determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia formato.

Ciò evidentemente esclude "che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia idoneo a "fare stato" per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica: non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, come conviene un’autorevole dottrina, solo a quelle che siano relative a "qualificazioni giuridiche" o ad altri eventuali "elementi preliminari" rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo". 1.4 Nel caso di specie non sono in discussione qualificazioni giuridiche o elementi preliminari dell’obbligazione tributaria aventi il carattere della durevolezza nel tempo, bensì, vertendosi in materia di operazioni delle quali l’ufficio contesta l’inesistenza soggettiva, valutazioni sulla esistenza o meno, ai fini della normativa Iva, delle suddette specifiche operazioni e, comunque, sulla rilevanza che la categoria dell’"inesistenza soggettiva" possa avere sulla detrazione dell’Iva relativa. Da ciò consegue l’inefficacia sulla presente controversia del giudicato esterno invocato dalla resistente.

2. Con il primo motivo del ricorso l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e pone il seguente quesito di diritto:

"Se il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, anche in considerazione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, possa interpretarsi nel senso che una fattura che riporta operazioni commerciali realmente avvenute ma con un soggetto emittente la fattura diverso rispetto a chi ha realmente ceduto la merce sia da considerarsi inesistente e dunque non consenta la detrazione dell’Iva da parte del cessionario". 2.1 La censura è fondata secondo il principio già enucleato da questa Corte, con giurisprudenza costante, affermando (ex plurimis:

Cass. n. 735 del 2010) "In tema di IVA, è indebita la detrazione d’imposta relativa a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anche se la merce sia stata realmente acquistata ed i costi risultino effettivamente sostenuti, non essendo la provenienza della merce stessa da soggetto diverso da quello figurante sulle fatture una circostanza indifferente ai fini dell’IVA: da un lato, infatti, la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, per conseguenza, sull’entità dell’imposta legittimamente detraibile dall’acquirente e, dall’altro, il diritto alla detrazione non sorge comunque per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza all’impresa, requisito mancante in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza".

Ed ancora (Cass. n. 5912 del 2010) "In tema di i.v.a., l’emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione non è riconducibile alla fattispecie, prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 3, dell’emissione di fattura recante indicazioni incomplete o inesatte, nè a quella, prevista dall’art. 21, comma 2, n. 1, del medesimo D.P.R., di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione, ma va qualificata come fatturazione di un’operazione soggettivamente inesistente, per la quale dev’essere versata la relativa imposta, ai sensi dell’art. 21 cit., non essendo consentita la detrazione di fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto riguardante l’operazione fatturata. Ai fini della rettifica i.v.a., non è sufficiente addurre la generica circostanza che l’impresa abbia comunque acquistato i beni fatturati da soggetti differenti da quelli indicati in fatture, atteso che non viene fornito alcun elemento certo e minimamente rassicurante circa la correttezza della quantificazione del costo indicato, della sua inerenza e della sua riferibilità all’anno di imposta in contestazione". 2.2 Nel caso di specie l’impugnata sentenza, non facendo buon regolamento del principio sopra riportato, assume "la cessione di beni effettuata da una società che, in qualità di prestanome, pone in essere un’effettiva operazione rilevante ai fini Iva non può mai essere qualificata come operazione inesistente".

Tale motivo va pertanto accolto.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 654 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, in relazione all’art. 360, n. 3, e pone il seguente quesito: "se la sentenza penale favorevole al contribuente possa avere un qualche effetto ne giudizio tributario quando si basi su elementi del tutto estranei alla fattispecie impositiva riguardando in particolare esclusivamente l’elemento psicologico dei trasgressore". 3.1 Tale motivo è inammissibile, poichè, a fronte della sopra riportata ratio decidendi della sentenza impugnata, il quesito formulato si rivela del tutto inconferente, in quanto la risposta al medesimo, anche se positiva per la ricorrente, risulterebbe comunque irrilevante, per inidoneità a risolvere la questione decisa nella sentenza impugnata (Cass., Sez. un., n. 8466 e 11650 del 2008).

4. In virtù di quanto esposto il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

5. Le spese vengono liquidate come in dispositivo in applicazione del principio della soccombenza.
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Condanna la resistente alle spese dell’intero giudizio che liquida in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito, per il giudizio di legittimità, ed in Euro 700,00 delle quali Euro 360,00 per onorari per ciascuno dei gradi di merito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-11-2011, n. 23549 Spese della comunione e del condominio di riscaldamento

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Svolgimento del processo

S.A., proprietario di un appartamento al piano terreno – con annesso giardino – e di un garage siti in uno stabile in (OMISSIS), propose – per quello che qui ancora conserva interesse – due distinti giudizi contro il Condominio: con il primo si oppose all’ingiunzione di pagare le spese per l’erogazione del servizio di riscaldamento; con il secondo chiese la condanna dell’ente di gestione alla restituzione di quanto pagato – per il suddetto servizio – in eccedenza rispetto a quanto effettivamente usufruito e perchè lo stesso Condominio fosse condannato a risarcirgli i danni cagionati dall’erroneo posizionamento di una canna fumaria a servizio comune.

Il Tribunale di Napoli, pronunziando sentenza n. 11.410/2001, condannò il Condominio a restituire all’attore lire 699.675, indebitamente percepite per le spese di riscaldamento, e respinse le domande dirette alla diversa ubicazione della canna fumaria ed al risarcimento dei danni. La Corte d’Appello di Napoli, decidendo con sentenza n. 12.117/2005 sul gravame del S. e su quello incidentale del Condominio, respinse il primo ed accolse il secondo, riformando la condanna alla restituzione di lire 699.675. La Corte distrettuale pervenne a tale conclusione osservando: 1 – quanto alle domande relative alla canna fumaria, che sarebbe rimasto accertato che il manufatto – posto innanzi al giardino dell’appellante e determinandone quindi una limitazione all’accesso – era stato poi spostato e che nella nuova posizione esso non determinava limitazioni della veduta dal giardino nè pregiudicava la luminosità dell’appartamento; 2 – quanto al risarcimento del danno sofferto dal S. prima di detto spostamento, che l’appellante non avrebbe dimostrato la concreta incidenza patrimoniale del pregiudizio sofferto in passato; 3 – quanto all’opposizione all’ingiunzione di pagare la quota condominiale per il riscaldamento, che illegittimamente il S. avrebbe fatto ricorso all’exceptio inadimplenti non est adimplendum, al fine di non corrispondere le spese di esercizio del servizio, non essendovi nesso di corrispettività tra quest’ultimo e il pagamento delle spese condominiali.

(Contro tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione il S. – sulla base di quattro motivi- e in via incidentale il Condominio, facendo valere un unico mezzo; all’udienza del 10 marzo 2011 la Corte ha concesso termine per la produzione della Delib. autorizzante il Condominio a resistere in giudizio, depositata la quale la causa è stata riservata per la decisione.

Motivi della decisione

1 – I ricorsi vanno riuniti, siccome aventi ad oggetto la medesima sentenza.

Con il primo motivo il S. lamenta la "violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa impunto decisivo della controversia" per aver, la Corte territoriale, escluso la limitazione della veduta originata dall’apposizione della canna fumaria, pur avendo richiamato le conclusioni della CTU eseguita in primo grado, che invece aveva confermato tale effetto pregiudizievole per la proprietà dell’esponente.

1/a – Il motivo è infondato in quanto non sussiste la contraddizione tra premesse e conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito, atteso, da un lato, che il giudizio espresso dalla Corte partenopea era formulato con riferimento alla situazione successiva alla nuova collocazione del manufatto e, dall’altro, che il rigetto della domanda risarcitoria – che espressamente la Corte napoletana limitò al periodo precedente la rimozione ed il riposizionamento del manufatto condominiale – venne motivato dalla mancata dimostrazione dell’incidenza patrimoniale degli effetti pregiudizievoli che pure si potevano ricollegare alla originaria collocazione della condotta condominiale dei fumi e non già dall’assenza – all’epoca – di uno status loci astrattamente foriero di danni; per altro verso il succitato motivo sarebbe anche inammissibile in quanto, in presenza di motivazione congrua, indurrebbe questa Corte a riesaminare le conclusioni dell’ausiliare per giungere ad un diverso – e non consentito in questa sede – giudizio di merito.

2 – Con il secondo motivo viene fatta valere la "violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 155 c.p.c., comma 2 e artt. 2056 e 1226 c.c.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" assumendo il ricorrente che, per le istanze risarcitorie riguardanti il periodo precedente la rimozione della canna fumaria (dal 1978 al 1995), erroneamente la Corte del merito avrebbe ritenuto insufficiente la prova del pregiudizio, in quanto, "trattandosi di diritti reali, il danno non va provato, essendo in re ipsa" (così a fol. 11 del ricorso) con la conseguenza di consentire l’ingresso ad una liquidazione equitativa.

2/a – Erronea è la premessa e non condivisibile è la conseguenza che il ricorrente ne trae: invero, la richiesta risarcirono, della parte – per lo meno a quanto emerge dalla lettura degli atti conoscibili da questa Corte, non essendo stato denunciato un vitium in procedendum che potesse far estendere l’esame a quelli comunque presenti nell’incarto processuale – era fondata con riferimento alla percentuale di mancato guadagno che si sarebbe prospettata prendendo a base il minor canone di locazione che il S. avrebbe potuto ricavare in una concreta trattativa avviata con terzo soggetto nel 1997 (successivamente quindi alla ricollocazione della canna fumaria): dunque la Corte napoletana, disattendendo motivatamente e congruamente la richiesta così formulata, non poteva quantificare, in termini equitativi, una diversa incidenza del pregiudizio sofferto dal S..

3 – Con il terzo motivo viene fatta valere la "violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 1223 c.c. (rectius: art. 1123 c.c.), artt. 1460 e 2697 c.c.; art. 115 c.p.c., comma 1; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" tornando a sostenere l’esistenza di un nesso di sinallagmaticità tra fornitura del servizio di riscaldamento e pagamento del relativo onere condominiale, tale dunque da consentire, in caso di insufficienza della fornitura, di attivare la forma di autotutela di cui all’art. 1460 cod. civ..

4 – Con il connesso quarto motivo viene denunciata la "violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 1223 c.c. (rectius: art. 1123 c.c.), artt. 1460 e 2697 cod. civ.; art. 115 c.p.c., comma 1; artt. 91 e 92 c.p.c.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per aver, la Corte territoriale, accolto l’appello incidentale avente ad oggetto la restituzione delle somme a suo tempo oggetto di ingiunzione contro il S..

Entrambi i mezzi sono infondati.

3/a – Va innanzi tutto contestato il richiamo all’art. 1123 c.c., comma 2, in quanto la minor resa, in termini di calore, nell’appartamento del S., dell’impianto centralizzato di riscaldamento, non presuppone una strutturale diversità dell’impianto medesimo, tale da erogare sin dall’inizio un servizio minore al condomino (cfr: "se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa…") con la conseguenza che l’utilizzazione maggiore o minore dell’impianto era data dalla estensione maggiore o minore della superficie radiante, rispetto a quella degli altri condomini e che questa rientrava nella gestione della cosa propria da parte del S. – à sensi dell’art. 1117 c.c., n. 3 – esulando quindi dalla disciplina delle cose comuni.

3/b – Posto quanto precede viene meno la base argomentativa del terzo mezzo che vorrebbe reintrodurre un nesso di sinallagmaticità tra onere condominiale e utilizzazione in concreto del servizio di riscaldamento, in contrasto con il costante orientamento di questa Corte – da cui il Collegio non vede motivo di deflettere – già illustrato nella sentenza del giudice di appello (ai cui riferimenti adde, più di recente: Cass. 10.816/2009; Cass. 12.956/2006) alla quale la Corte di merito si è attenuta.

3/c – Quanto precede fa ritenere assorbita la deduzione difensiva – contenuta nella seconda articolazione del medesimo terzo motivo – con la quale, riproducendo parte della propria comparsa conclusionale in appello (in cui si esaminava il contenuto di alcune delibere condominiali relative alle lamentele del S. circa la fornitura del servizio) ci si duole dell’omesso esame della documentazione in tali delibere richiamata.

4/a – Il rigetto del terzo motivo comporta analoga decisione per quello successivo, al precedente logicamente connesso.

5 – Con unico motivo di ricorso incidentale il Condominio si duole della compensazione delle spese, decisione adottata senza motivazione.

5/a – La doglianza è infondata: invero, premesso che alla decisione in esame non si applica – ratione temporis – l’art. 92, comma 2, come sostituito dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a), imponente una precisa esplicitazione dei motivi, diversi dalla reciproca soccombenza, al fine di compensare in tutto od in parte le spese di lite, va osservato che comunque sussiste adeguato supporto motivazionale in merito alla specifica decisicene, essendo le ragioni giustificatrici della stessa desumibili dal contesto della sentenza (cfr. sul punto ex multis: Cass. 24.531/2010), da cui emergeva la particolarità della fattispecie, quanto meno per quello che riguardava la canna fumaria condominiale che venne spostata solo in corso di causa, parzialmente giustificando l’iniziativa giudiziaria del S..

6 – La reciproca ed attuale soccombenza delle parti giustifica, anche per il presente giudizio di legittimità, la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte Riunisce i ricorsi – principale ed incidentale – e li respinge, compensando le spese.

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Cass. civ. Sez. VI, Sent., 30-11-2011, n. 25617 Liquidazione delle spese

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Svolgimento del processo

P.D. ricorre per cassazione nei confronti del decreto della Corte d’appello lamentando l’insufficiente liquidazione delle spese in esito ad un ricorso ex L. n. 89 del 2001.

Resiste l’Amministrazione con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Il Collegio ha disposto la redazione della motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto concernono tutti la liquidazione delle spese, sono fondati.

Premesso che la liquidazione delle spese nel procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo deve essere effettuata in base alla tariffa dell’ordinario giudizio contenzioso (Cass., Sez. 1^, 1 luglio 2004, n. 12021), il decreto de quo merita censura in quanto il giudice ha liquidato un importo inferiore ai minimi tariffari.

Il ricorso deve dunque essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la causa può essere decisa nel merito e pertanto, compensate le spese del giudizio di merito in ragione della metà in considerazione della rilevante riduzione della pretesa, il Ministero soccombente deve essere condannato al pagamento del 50% delle spese liquidate come in dispositivo.

L’oggetto del ricorso induce alla compensazione nella misura di un terzo delle spese di questa fase che per il residuo debbono essere poste a carico dell’Amministrazione.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa in parte qua il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Economia e delle Finanze al pagamento in favore dei ricorrenti della metà delle spese del giudizio di merito che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 1.140,00, di cui Euro 600,00 per diritti, Euro 490,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, compensato il residuo; condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente dei due terzi delle spese che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 550,00, di cui Euro 450,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, compensato il residuo; spese distratte in favore del difensore antistatario.

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Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 31-05-2011) 25-07-2011, n. 29658

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Svolgimento del processo

1. Con la decisione sopra indicata, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza emessa in data 11 aprile 2003, con cui il Tribunale di Palmi, in composizione monocratica, aveva condannato C.D. alla pena di due anni di reclusione per il delitto di calunnia ai danni di P.A..

2. Il C. era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 368 c.p., "per avere, con denuncia diretta alla Procura della Repubblica di Palmi (…), incolpato, pur sapendolo innocente, P.A., responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Rosarno, del reato di abuso di ufficio continuato commesso in suo danno; e precisamente, sostenendo, tra l’altro, nella suddetta denunzia che il P. "abusando sconsideratamente della propria funzione da (OMISSIS) ha dolosamente ostacolato con notevole ed intollerabile ostruzionismo l’accoglimento di una concessione edilizia che prevedeva la realizzazione di un ascensore (…) che doveva servire" al fratello C.A.M. a causa delle sue condizioni fisiche, ed incolpando altresì il P., con la sua "perversa condotta" di avere "addormentato" tale pratica per fini personali".

Il P. era stato sottoposto a procedimento penale, conclusosi il 1 settembre 1998, con provvedimento di archiviazione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palmi.

3. Il Tribunale, nel procedimento di primo a carico del C., escluse "qualsiasi atteggiamento ostruzionistico da parte del P.", accertato che la pratica era "stata trattata con la massima celerità", e sottolineato che "nulla di quanto indicato nella denuncia del C. può qualificarsi come vero".

In ordine all’elemento soggettivo del delitto, ritenne la sussistenza del dolo dalle modalità della denuncia, per essere stati "denunciati in modo distorto e parziale (…) dei fatti che il denunciante ha personalmente avuto modo di conoscere per come si sono effettivamente svolti". 4. La Corte d’appello ha ritenuto del tutto generiche le censure mosse dall’appellante "prive di riferimenti a dati concreti, cui affettivamente ancorare la buona fede e come tali inidonee ad introdurre nel processo elementi di ragionevole dubbio". 5. Contro la sentenza d’appello ricorre il difensore dell’imputato, deducendo "inosservanza o erronea applicazione della legge penale e/o contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione" con riferimento all’elemento soggettivo del reato.

Motivi della decisione

1. Rileva innanzitutto il Collegio che, con condivisibile ed esauriente motivazione, la Corte d’appello ha qualificato come del tutto generici i motivi d’appello dedotto contro la sentenza di primo grado. I giudici d’appello, tuttavia, invece di adottare declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, hanno "confermato" la sentenza di primo grado.

Ciò non può impedire a questa Corte di assumere la sostanza della pronuncia della Corte territoriale (costituita da una declaratoria d’inammissibilità senza la condanna dell’appellante al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende) e di ritenere, perciò, inammissibile per mancanza di specificità, a norma degli art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), il ricorso di cassazione che non si misura con la ritenuta genericità dei motivi d’appello, ma censura la sentenza per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato, in quanto l’imputato si era formato il "convincimento, sia pure quanto erroneo, che il tecnico P. po(tesse) essersi reso responsabile dei ritardi amministrativi nell’evasione della pratica di concessione edilizia". 2. In ogni caso, entrando nel merito delle argomentazioni del ricorrente, il Collegio ne rileva la manifesta infondatezza, dovendosi ribadire che la consapevolezza del denunciante circa l’innocenza dell’accusato è esclusa solo se sospetti, congetture o supposizioni d’illiceità del fatto denunciato siano ragionevoli, ossia fondati su elementi di fatto tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte del cittadino comune che si trovi nella medesima situazione di conoscenza.

Quando invece, a fondamento della denuncia e dell’incolpazione si pongano – come hanno accertato i giudici di merito – elementi fattuali falsi o consapevolmente parziali ed equivoci ovvero superficialmente enfatizzati e rappresentati in maniera suggestiva, si finisce inevitabilmente per ricadere nel terreno dei sospetti temerari e irragionevoli, e quindi nel campo di atteggiamenti psicologici inidonei a far ritenere la mancanza di consapevolezza della innocenza, con la conseguente sussistenza del dolo (cfr. Cass. n 46205/2009, Demattè; n. 3964/2010, De Bono).

3. All’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di Euro 1.000, in relazione alla natura delle questioni dedotte.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 1.000 (mille) in favore della cassa delle ammende.

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