Cons. Stato Sez. V, Sent., 16-09-2011, n. 5187 Concorso Contratto di appalto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Comune di Serre, con delibera di G.M. n. 87 del 27.4.2009, ha indetto procedura ristretta accelerata per l’affidamento dell’appalto integrato per la progettazione esecutiva e la realizzazione dei lavori di "restauro, ristrutturazione, rifunzionalità del palazzo ducale da adibire a centro studio europeo della dieta mediterranea (die. med.)".

I concorrenti, per l’ammissione, erano tenuti a qualificarsi, ai sensi del D.P.R. 34/2000, nelle seguenti categorie di lavori:

– OG2 classifica IV Euro 2.285.784,26 85,37% (prevalente);

– OG11 classifica II Euro 391.715,74 14,63% (scorporabile).

Il bando, altresì, richiedeva la certificazione SOA, per le corrispondenti categorie di progettazione, previste nelle tariffe professionali di cui alla L. 143/49.

L’impresa L., in possesso di tutte le certificazioni SOA prescritte dal bando ha preso parte all’appalto integrato, collocandosi al secondo posto con punti 70,65, dietro l’A.T.I. T. – Gugliuciello, risultata prima graduata, con il punteggio di 75,26.

L’impresa L., pertanto, ha proposto ricorso al Tar della Campania avverso gli esiti della gara, censurando l’ammissione dell’A.T.I. aggiudicataria per plurimi profili.

Il TAR adito, con sentenza n. 5637/2010, ha respinto il gravame.

Avverso la predetta sentenza l’impresa L. ha interposto l’odierno appello, chiedendone l’integrale riforma.

Si è costituita la controinteressata società T. intimata, chiedendo la reiezione del ricorso siccome infondato.

Le parti hanno affidato ad apposite memorie, l’ulteriore illustrazione delle rispettive tesi giuridiche.

Alla pubblica udienza del 31 maggio 2011, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1.Va rilevato, in via preliminare, come all’odierna udienza pubblica il procuratore dell’appellata T. abbia formalmente rinunciato alla eccezione di irricevibilità dell’appello, formulata nella memoria difensiva.

Sul punto, pertanto, non v’è luogo per una specifica pronuncia.

1.1 Sempre in via preliminare, va osservato come l’appellata società T. non abbia mosso, in via incidentale, alcuna censura nei confronti della gravata sentenza del TAR Campania, laddove ha ritenuto di non pronunciarsi sul ricorso incidentale dalla stessa proposto in primo grado, ritenendolo assorbito dalla "infondatezza degli articolati motivi di doglianza" dedotti dalla ricorrente (sempre in primo grado) società L..

Ne consegue che sullo specifico punto si è formato il giudicato, interno, che inibisce al Collegio di poter procedere nel prosieguo al suo esame.

2. Con i primi tre motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente attesa la loro sostanziale connessione, l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza e la sua contraddittorietà, laddove ha ritenuto di ricondurre la partecipazione dell’aggiudicataria nell’ambito della tipologia della cooptazione, invece di qualificare la stessa come una ipotesi di A.T.I. orizzontale, con conseguente esclusione dalla gara per difetto di qualificazione dell’impresa mandante G..

A suo dire, in difetto di una espressa dichiarazione di cooptazione, emergendo la contestuale e prevalente dichiarazione di associazione in A.T.I. orizzontale, il T.A.R. doveva trarre conseguenze coerenti con le premesse, senza effettuare una erronea ed inammissibile interpretazione delle dichiarazioni negoziali di uno dei concorrenti, in violazione delle regole della "par condicio".

3. Le censure sono fondate.

Correttamente il primo giudice ha premesso, in punto di diritto, come nella giurisprudenza amministrativa la cd. "associazione per cooptazione" già contemplata dall’art. 23 d.lgs. n. 406/1991 (su cui cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2001, n. 3129 e Id., 25 luglio 2006, n. 4655), si caratterizzi per la possibilità di far partecipare all’appalto anche imprese di modeste dimensioni, non suscettibili di raggrupparsi nelle forme previste dai commi 2 e 3 dell’art. 95 d.p.r. 554/1999, purché l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati e i lavori eseguiti dalle cooptate non superino il 20% dell’importo complessivo dei lavori (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2009, n. 5161).

In particolare – mentre parte della giurisprudenza opina che la possibilità dell’impresa singola o delle imprese che intendano riunirsi in associazione temporanea, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 95 citato, di associare, nei modi di cui al comma 4, altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, sia insita nello stesso dettato normativo che impone alle imprese cooptate il solo obbligo della qualificazione e il solo limite percentuale delle opere (in termini, Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2001, n. 3129) – appare senz’altro preferibile ribadire (in conformità al più recente orientamento: per tutte cfr. Cons. Stato n. 5161/2009 cit.) come tale possibilità sia, piuttosto, subordinata ad un’espressa ed inequivoca dichiarazione, risultante dalla domanda di partecipazione alla gara, in assenza della quale è da ritenere sussistente la figura (di carattere generale) dell’associazione temporanea (orizzontale o verticale) prevista dai commi 2 e 3. E ciò sia in osservanza della par condicio fra i partecipanti alla gara (non potendosi costringere l’Amministrazione a verificare tutte le ipotesi interpretative in astratto consentite dalla normativa vigente, al fine di ricondurvi la tipologia realizzata da taluno dei concorrenti) sia in considerazione del diverso grado di impegno, responsabilità e garanzia dei partecipanti alla riunione (che vale a differenziare significativamente le due fattispecie associative in considerazione) cui si riconnette un diverso onere di dimostrazione del possesso dei requisiti di qualificazione.

La cooptazione, infatti, è un istituto di carattere speciale che abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualificazione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei lavori nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione SOA.

Il soggetto cooptato pertanto, come esattamente rilevato dell’appellante:

– non può acquistare lo status di concorrente;

– non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto;

– non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, poi;

– non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di un contraente;

– non può, in alcun modo, subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, di cui non è titolare, essendo privo della prescritta SOA.

Il ricorso alla cooptazione, alla luce del carattere eccezionale e derogatorio dell’istituto, deve quindi necessariamente scaturire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concorrente, per evitare che un uso improprio consenta l’elusione della disciplina inderogabile, in tema di qualificazione e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.

In conseguenza, in assenza di una espressa ed inequivoca dichiarazione di cooptazione, deve senz’altro ritenersi sussistere un’associazione temporanea di imprese (orizzontale o verticale), anziché la cooptazione (Cons. Stato V Sezione n. 5161/09).

3. Poste tali premesse in punto di diritto, il primo giudice ha peraltro ritenuto sussistere nella specie una ipotesi di cooptazione, alla stregua delle seguenti considerazioni:

– la cooptazione è espressamente prevista nella disciplina della gara in questione (lex specialis);

– la volontà di utilizzare lo strumento associativo per cooptazione sarebbe inequivoca, essendo stato compilato l’apposito riquadro nella domanda di partecipazione;

– in senso contrario non rileverebbe il richiamo all’associazione temporanea orizzontale, contenuto nella stessa domanda di partecipazione, in quanto verosimilmente indotto dalla necessità di barrare comunque una delle caselle proposte;

– la cooptazione postulerebbe, in ogni caso, una vicenda associativa idonea a giustificare anche la contrastante dichiarazione di impegno del concorrente a costituire un’A.T.I. orizzontale (in luogo della associazione di cooptazione);

– la dichiarazione di una quota di partecipazione, in ragione del 20%, per definizione legale incompatibile con la cooptazione (limitata solo all’esecuzione dei lavori) andrebbe intesa con riferimento esclusivo ad una quota di esecuzione del 20% dei lavori.

4. La conclusione a cui è pervenuto il primo giudice non è condivisibile, sia per ragioni di ordine generale, sia con riguardo alle specifiche emergenze documentali.

4.1. Sul piano generale, il Collegio non può non rilevare come la forma di partecipazione dell’aggiudicataria risulti oggettivamente ambigua e comunque non determinabile in modo inequivoco.

Nella istanza di ammissione alla gara, infatti, la T. si qualifica come impresa mandataria / capogruppo di una A.T.I. orizzontale, mentre del tutto contraddittoriamente la G. si qualifica come impresa cooptata.

Parimenti, nella medesima istanza, la G. in modo contradditorio assume a proprio carico una quota di partecipazione in ragione del 20%, per definizione legale incompatibile con la cooptazione, limitata alla sola esecuzione dei lavori.

L’oggettiva equivocità della fattispecie, del resto, è stata rilevata dallo stesso TAR laddove precisa che "si tratta… di dichiarazione apparentemente ambigua e persino contraddittoria".

L’equivocità della dichiarazione di associazione, in forme tra loro incompatibili (A.T.I. orizzontale ed associazione in cooptazione), pertanto, integra di per sé una autonoma causa di esclusione per indeterminatezza, genericità e perplessità del tipo associativo.

Il concorrente, infatti, sovrapponendo moduli organizzatori eterogenei, ha fatto improprio ricorso ad istituti giuridici contrastanti, rendendo indeterminata ed assolutamente equivoca la forma associativa e, dunque, l’oggetto della stessa domanda di partecipazione.

In ogni caso, alla stregua dei principi giurisprudenziali in precedenza enunciati, la partecipazione dell’aggiudicataria alla gara non poteva di certo essere ricondotta nell’ambito della cooptazione, essendo tale possibilità subordinata ad una espressa ed inequivoca dichiarazione risultante dalla relativa domanda, in assenza della quale deve comunque ritenersi sussistente la figura di carattere generale dell’associazione temporanea.

5. Dall’esame complessivo della documentazione in atti, poi, non v’è dubbio che pur nella già rilevata contraddittorietà delle dichiarazioni, la fattispecie non sia riconducibile alla cooptazione, ma semmai alla figura ordinaria dell’A.T.I. considerato che:

– la istanza di ammissione della T. risulta espressamente formulata, in qualità di capogruppo di un’associazione temporanea di impresa di tipo orizzontale;

– la dichiarazione del 23.6.2009, contiene l’impegno formale a costituire un’associazione temporanea di imprese di tipo orizzontale, con partecipazione all’appalto della G. pari al 20%, assolutamente incompatibile con la cooptazione;

– l’atto pubblico di costituzione dell’A.T.I. dell’11.8.2009, ribadisce la partecipazione della G. all’appalto in ragione del 20% e non l’associazione per la sola esecuzione;

– l’offerta economica del 23.6.2009 risulta sottoscritta da entrambe le imprese associate ed è dichiarazione negoziale ancora una volta incompatibile con la cooptazione;

– la polizza fideiussoria del 11.6.2009, sottoscritta in favore dell’A.T.I. T. – G., conferma la natura di associazione temporanea di imprese di tipo orizzontale, posto che l’impresa cooptata non assume obblighi nei confronti della stazione appaltante, restando la sola impresa (singola o associata) che partecipa alla gara ed è responsabile anche per la quota di lavori che esegue la impresa cooptata;

– la dichiarazione di subappalto del 23.6.2009 resa anche dalla ditta G., certamente inammissibile ed incompatibile con la cooptazione, che è una forma di subappalto, in favore di un’impresa priva dei requisiti, che ovviamente non può, a sua volta, affidare tali lavorazioni a terzi.

Tale documentazione, all’evidenza, postula semmai la sussistenza di un’associazione temporanea di impresa orizzontale tra le due società aggiudicatarie di cui una (la G.), però, priva della prescritta qualificazione SOA e quindi da escludere dalla procedura concorsuale per cui è causa, come esattamente dedotto dall’appellante.

6. Per le ragioni si qui esposte, assorbito quant’altro, l’appello si appalesa fondato e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso proposto della società L. in primo grado e quindi annullata l’aggiudicazione della gara disposta in favore della controinteressata T., con ogni ulteriore effetto ai sensi dell’art. 122 del c.p.a., così come precisato nel dispositivo.

7. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei due gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello di cui in epigrafe lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza del TAR Campania n. 6537/10, così dispone:

– accoglie il ricorso proposto in primo grado dalla società L.;

– per l’effetto annulla l’aggiudicazione definitiva della gara, disposta in favore della contro interessata società T.;

– dichiara l’inefficacia del contratto stipulato tra Comune di Serre e la società T., a decorrere dalla data di pubblicazione della presente decisione;

– dispone il subentro della società L., quale seconda classificata, nel contratto relativo all’appalto per cui è causa entro trenta giorni successivi alla pubblicazione della presente decisione, previa verifica da parte dell’amministrazione della sussistenza di tutti i requisiti necessari per il subentro stesso.

Spese compensate per i due gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-05-2011) 22-09-2011, n. 34491 Prova penale

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 19/3/2010 la Corte di Appello di Lecce pronunziava la riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale di Lecce,in data 13-2-2007, appellata da M.S., con la quale l’imputato era stato dichiarato responsabile del delitto di cui agli artt. 110 e 624 bis c.p. (commesso in (OMISSIS)) per aver sottratto dall’abitazione di V. C., nella quale si era introdotto in concorso con M. D., monili in oro e di bigiotteria). Per il suddetto reato la Corte riduceva la pena inflitta dal primo giudice,riconoscendo l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, a mesi dieci di reclusione,e confermava nel resto la decisione impugnata.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore, deducendo: 1- la nullità della sentenza per violazione delle norme processuali enunciate dagli artt. 189, 191, 192 e 361 c.p.p., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. C) ed E), nonchè la carenza ed illogicità della motivazione.

A riguardo evidenziava che il giudizio di condanna in primo grado, in sede di rito abbreviatola stato formulato in base ad individuazione fotografica dell’imputato da parte della persona offesa, che aveva riconosciuto il M. in foto presso i CC.che svolgevano le indagini.

La difesa censurava la valutazione degli elementi di prova compiuta dalla Corte territoriale, avendo i Giudici di appello considerato a carico dell’imputato un elemento ulteriore rispetto alla menzionata individuazione,ponendo in evidenza che nella perquisizione eseguita a bordo dell’auto del nipote,presunto complice nel furto,erano stati rinvenuti documenti di identità dell’imputato, fatto del quale egli non aveva fornito giustificazioni.

In tal senso la difesa rilevava che il giudizio di appello era avvenuto considerando un elemento sul quale l’imputato non aveva avuto modo di difendersi.

Quanto alla individuazione di persona il ricorrente evidenziava che trattasi di mezzo di prova atipico,che necessiterebbe di ulteriori risultanze,e precisamente di una testimonianza, o ricognizione.

In base a tali elementi la difesa riteneva pertanto illegittima la valutazione compiuta dalla Corte che aveva attribuito valore probatorio ad un atto che non era dotato dei requisiti per fondare il giudizio di responsabilità del prevenuto.

Nella fattispecie oggetto di contestazione la difesa rilevava che il giudice aveva dunque violato il disposto dell’art. 192 c.p.p., commi 1 e 2 richiamando il principio del libero convincimento che secondo la difesa deve fondarsi su indizi gravi precisi e concordanti.

Alla stregua di tali rilievi dunque si riteneva che la sentenza de qua fosse viziata per la violazione degli artt. 189, 191, 192 e 361 c.p.p., ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. C) ed E) per non avere fornito indicazione di alcun dato probatorio, l di là della individuazione fotografica dell’imputato.

2 C n il secondo motivo la difesa deduceva la violazione dell’art. 62 c.p., n.4, artt. 63, 65, 69 e 132 c.p. e degli artt. 125 e 546 c.p.p. in riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e). A riguardo evidenziava che doveva ritenersi erroneo il computo della riduzione di pena effettuata per concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, atteso che il giudice aveva disposto la diminuzione fino a un terzo, senza ulteriori specificazioni. La difesa rilevava che secondo l’art. 65 c.p. le pene possono essere diminuite in misura non eccedente un terzo, da ciò desumendo che il giudice può operare una detrazione che sia determinata, nel massimo di un terzo, potendo ridurre la pena anche in limite inferiore, non ritenendo chiara l’argomentazione svolta sul punto in sentenza. Pertanto,richiamando il principio del favor rei,la difesa chiedeva di ritenere la riduzione ex art. 62 c.p., n. 4 pari ad un terzo. In tal senso concludeva chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

Il ricorso deve ritenersi privo di fondamento.

Le censure formulate avverso la sentenza impugnata in riferimento alla violazione degli artt. 189-191-192-361 c.p.p., vanno disattese.

Invero l’individuazione fotografica, in quanto atto di indagine atipico diverso dalla ricognizione che è espressamente regolata dal codice di rito, può essere utilizzata – come afferma la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5 – sent. 12027 del 21-10- 99) RV 214872 – ai fini della decisione anche se compiuta senza particolari formalità (e sempre che sia legittimamente introdotta nel processo), in forza dei principi della libertà della prova e del libero convincimento del giudice.

Nella specie la sentenza si basa sui citati canoni giurisprudenziali, e la difesa non ha rappresentato alcuna eccezione formulata in via preliminare circa la ritualità ed utilizzabilità della individuazione, che deve ritenersi pienamente valida come fonte di prova.

Tanto premesso, e rilevato che la individuazione dell’imputato era avvenuta nel caso di specie innanzi ai CC. – va evidenziato altresì che il procedimento si è svolto nelle forme del rito abbreviato,nel quale ogni eccezione relativa alla utilizzazione dei mezzi di prova esistenti negli atti deve essere formulata preliminarmente alla introduzione nel procedimento (v. in tal senso Cass. Sez. 2, sentenza 4269 dell’8-4-1998).

Restano in tal senso superati i rilievi del ricorrente sulla mancata verifica di attendibilità della persona offesa, stante l’immediatezza della individuazione resa ai CC. – e la legittima acquisizione dell’atto in sede di rito abbreviato, Quanto alla censura inerente alla valutazione resa dalla Corte territoriale di un elemento desunto dal rinvenimento dei documenti dell’imputato all’interno della vettura del nipote dello stesso, tratto in arresto nella flagranza del reato di furto, si osserva che deve ritenersi legittimo il riferimento a dati oggettivi che siano esiti di accertamenti di pg. eseguiti al momento del fatto,nè si configura alcuna violazione dei diritti di difesa, avendo l’imputato scelto di essere giudicato con rito abbreviato, che comporta l’utilizzazione di tutti gli atti esistenti nel fascicolo processuale.

D’altra parte la circostanza del ritrovamento dei documenti dell’imputato, resta elemento oggettivo di per sè direttamente riferibile al prevenuto, che resta suscettibile di confluire nella valutazione complessiva dei dati processuali, che la Corte ha effettuato in riferimento alle richieste dell’appellante, condividendo il giudizio di colpevolezza formulato in primo grado, onde resta ininfluente il rilievo che il primo giudice non si fosse soffermato sulla citata circostanza-Le argomentazioni difensive attinenti alle valutazioni di merito della Corte territoriale restano nel resto inammissibili, in quanto dirette ad inficiare la coerente e logica motivazione della sentenza impugnata, sottintendendo diversa valutazione delle risultanze processuali.

Per ciò che concerne,le doglianze difensive attinenti alla erronea determinazione della riduzione della pena,per effetto dell’attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 4, deve evidenziarsi che il motivo deve ritenersi inammissibile, in quanto censura la valutazione discrezionale operata dal giudice di merito nella riduzione di pena relativa al riconoscimento dell’attenuante.

Per tali motivi, ogni ulteriore censura difensiva ritenendosi superata dai suddetti rilievi, va pronunziato il rigetto del ricorso,ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 02-03-2012, n. 3270 Imposta reddito persone giuridiche

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Svolgimento del processo

1. L’agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia n. 6/26/07, depositata l’1 marzo 2007, con la quale, rigettato il suo appello contro quella di primo grado, veniva riconosciuta la pretesa della società Finassistance Spa., incorporante della Generalfin srl., circa il rimborso del credito d’imposta Irpeg pagata per gli anni 1993 e 1996-98. In particolare il giudice di appello affermava che la competenza territoriale spettava alla CTP di Pavia, dove l’incorporante aveva il domicilio fiscale, e non invece a quella di Macerata, in cui l’incorporata aveva avuto la sede sociale; perciò il silenzio-rifiuto si era formato; il credito per il 1993 non era prescritto; quello relativo al 1996 costituiva la differenza tra l’altro maggiore iniziale e quello minore ceduto ad una partecipata, sicchè la stessa agenzia sarebbe stata incerta al riguardo. La contribuente non si è costituita.

Motivi della decisione

2. Col secondo motivo, che viene esaminato prima, avendo esso carattere preliminare, la ricorrente deduce violazione di norme di legge, in quanto la CTR non considerava che competente per l’eventuale rimborso era solamente l’ufficio finanziario di Macerata, località in cui la società Generalfin aveva il domicilio fiscale negli anni in argomento, e cioè prima dell’incorporazione, senza che questa potesse determinare uno spostamento di competenza a seconda delle scelte della contribuente.

Il motivo è inammissibile, in quanto il quesito di diritto di cui è corredato risulta formulato in modo inappropriato, atteso che la ricorrente non ha indicato in modo preciso il principio di diritto che sarebbe stato violato dal giudice di appello, avendolo posto come semplice alternativa all’altro da esso applicato. Peraltro – ma si nota solo solamente "ad abundantiam" – esso è infondato, dal momento che in tema di imposte dirette, sotto il vigore del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, e nell’ipotesi di fusione per incorporazione d’una società in un’altra, l’ufficio distrettuale competente all’accertamento dei redditi prodotti dalla società incorporata – anche per le plusvalenze emergenti all’atto della fusione – è quello nella cui circoscrizione territoriale si trova il domicilio fiscale della società incorporante, e non invece della seconda. La violazione di tale regola sulla competenza realizza un vizio radicale dell’atto di accertamento, che risulta affetto da nullità assoluta, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Nel caso in specie in particolare il credito era stato ceduto automaticamente alla società avente sede a Pavia, città in cui perciò regolarmente il contenzioso si era radicato, senza che il fatto che la sede della incorporata fosse differente potesse avere alcun rilievo, stante anche il sistema unitario dell’anagrafe tributaria e l’unicità dell’agenzia delle entrate, costituendone i vari uffici periferici solo una sua articolazione (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 1484 del 1998, n. 8017 del 26/06/1992).

3. Col primo motivo la ricorrente denunzia violazione di norme di legge, giacchè il giudice di appello non considerava che l’appellata non aveva alcun diritto di rimborso di eccedenza d’imposta da rivendicare per il 1993, essendo esso caduto in prescrizione, posto che essa aveva indicato il medesimo nella dichiarazione del 1994, mentre ne aveva richiesto il rimborso nel mese di luglio 2004.

La censura va condivisa. La CTR affermava che il termine della prescrizione fosse stato prorogato L. n. 350 del 2003, ex art. 2.

L’assunto non è esatto, dal momento che, com’è noto, in tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d’imposta, non occorre, da parte sua, al fine di ottenerne il rimborso, alcun altro adempimento (quale, in particolare, l’istanza del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 38, estranea alla fattispecie anzidetta), ma egli deve solo attendere che l’Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, ovvero, ricorrendone i presupposti, secondo lo strumento della rettifica della dichiarazione. Una volta che il credito si sia consolidato – attraverso un riconoscimento esplicito in sede di liquidazione, ovvero per effetto di un riconoscimento implicito derivante dal mancato esercizio nei termini del potere di rettifica -, l’Amministrazione è tenuta ad eseguire il rimborso e il relativo credito del contribuente è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale, decorrente dal riconoscimento del credito stesso, come nella specie (V. pure Cass. Sentenze n. 1154 del 21/01/2008, n. 11830 del 2002).

4. Il terzo e quarto motivi, concernenti rispettivamente il rimborso per il 1996, e per il quale il giudice di appello osservava che si trattava di credito parziale per cessione limitata di altro alla partecipata della Generalfin, data anche l’incertezza dell’agenzia sul punto, nonchè vizio di motivazione in ordine alla carenza di prova circa il chiesto rimborso, sono anch’essi inammissibili, atteso che per il primo manca l’indicazione del preciso principio di diritto pretesamente violato, essendo stato il quesito formulato come ipotesi alternativa, mentre quello successivo è del tutto privo del medesimo, che doveva contenere la sintesi del fatto relativo alla dedotta cessione integrale del credito, che non sarebbe stato sufficientemente valutato dal giudice di seconde cure.

5. Ne deriva che il primo motivo di ricorso va accolto, mentre invece gli altri vanno dichiarati inammissibili, e di conseguenza la sentenza impugnata va cassata, limitatamente al motivo accolto, senza rinvio, posto che non occorrono ulteriori accertamenti di fatto;

perciò decidendosi nel merito, il ricorso introduttivo va rigettato limitatamente all’eccedenza d’imposta relativa al 1993. 6. Quanto alle spese dell’intero giudizio, attesa la parziale soccombenza della ricorrente e la mancata costituzione della intimata, sussistono giusti motivi per compensarle.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibili gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione a quello accolto, e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo, limitatamente all’eccedenza d’imposta del 1993, e compensa le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-04-2012, n. 5598 Licenziamento disciplinare

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Svolgimento del processo

Con sentenza pubblicata il 29 dicembre 2009 e notificata in data 25 febbraio-1 marzo 2010, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha accolto le domande svolte da P.M. – dipendente dell’Ente nazionale di assistenza al volo (ENAV) s.p.a. con la qualifica di dirigente incaricato di dirigere la divisione infrastrutture – di dichiarazione della illegittimità del licenziamento per ragioni disciplinari comunicatogli con lettera del 10 ottobre 2002, con le conseguenze tutte di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, come sostituito dalla L. n. 108 del 1990, art. 1. La Corte ha viceversa confermato la decisione di primo grado, di rigetto delle ulteriori richieste risarcitorie svolte dal P. e della domanda in via riconvenzionale dell’ENAV, rigettando, a quest’ultimo riguardo, l’appello incidentale della società.

Avverso tale sentenza propone rituale ricorso per cassazione l’ENAV, affidandolo a tre motivi.

V.A., anche in nome della figlia minore P.M. E., nella qualità di erede di P.M., nel frattempo deceduto, resiste alle domande con regolare controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale.

Le parti hanno infine depositato una memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1 – Col primo motivo del ricorso principale la società deduce la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 10 e L. n. 300 del 1970, art. 18 e il vizio di motivazione della sentenza impugnata laddove la Corte territoriale aveva applicato la cd. tutela reale, di cui alla seconda delle norme di legge indicate, al licenziamento di un dirigente, che la L. n. 604 del 1966, art. 10 esclude dall’ambito di applicazione della disciplina legale limitativa del potere di licenziamento.

In proposito, la ricorrente sostiene infatti che la Corte aveva erroneamente identificato la nozione di pseudo dirigente, che in realtà non svolge di fatto mansioni dirigenziali e al quale è applicabile la tutela di cui all’art. 18 S.L., con la figura del dirigente non apicale, ma medio o minore, che svolge mansioni dirigenziali di portata meno elevata, il quale viceversa è pur sempre riconducibile alla categoria di dirigente, ai fini, in particolare, della tutela applicabile in materia di licenziamento.

2 – Col secondo motivo, la difesa della società ricorrente censura la sentenza quanto alla ritenuta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per ciò che riguarda il motivo di appello relativo alla violazione della regola della immediatezza della contestazione che aveva poi dato luogo al licenziamento del P..

3 – Col terzo motivo, viene infine dedotta la violazione dell’art. 2119 c.c. e art. 25 del C.C.N.L. ENAV Dirigenti, per avere la Corte territoriale adottato una erronea nozione di giusta causa di licenziamento di un dirigente, nell’escluderne la sussistenza nel caso esaminato.

4 – Col ricorso incidentale, V.A., nella duplice qualità, deduce il vizio di motivazione della sentenza, quanto al rigetto delle ulteriori domande (diverse dall’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare, richieste in via subordinata nel giudizio di merito, per l’ipotesi in cui i giudici avessero ritenuto applicabile al caso in esame la disciplina relativa ai licenziamenti dei dirigenti e come tali ritenute assorbite dalla Corte), relative:

a) in caso di mancata reintegrazione, al pagamento delle somme che il P. avrebbe percepito in costanza di rapporto di lavoro fino al raggiungimento dell’età pensionabile se non fosse stato licenziato (Euro 19.500,00 per incremento dovuto alla svalutazione media del 2,50% per dieci anni residui fino all’età pensionabile; Euro 211.499,81 per premio di produzione fisso nella misura del 20% della retribuzione fissa annua lorda per i suddetti anni residui; Euro 38.734,00 per benefit non goduto per due anni con possibilità di riscatto a valore dell’usato; Euro 13.430,00 per ferie non godute per due mensilità);

b) in ogni caso, di risarcimento del danno biologico subito per effetto dell’illegittimo licenziamento.

5 – Conviene premettere, all’esame dei tre motivi del ricorso principale, il tema, da essi coinvolto, della definizione della categoria dei dirigenti ai fini della individuazione della tutela applicabile al relativo licenziamento.

In materia, questa Corte ha recentemente riassunto, con la sentenza 17 gennaio 2011 n. 897, il proprio orientamento interpretativo, che, nel corso della relativa complessa evoluzione, aveva altresì incrociato quello della applicabilità ai dirigenti delle garanzie procedimentali di cui ai primi tre commi della L. n. 300 del 1970, art. 7 e il cui recente approdo è rappresentato dalla sentenza 30 marzo 2007, n. 7880 delle sezioni unite civili.

In quest’ultimo arresto, la Corte, affermando che gli obblighi della preventiva contestazione e della attribuzione di un termine a difesa, previsti di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, sono applicabili anche al rapporto di lavoro dei dirigenti, affronta altresì il tema della definizione della categoria, superando la risalente tradizionale delimitazione della stessa (fatta propria, nel passato, anche da Cass. sez. un. n. 6041 del 1995) alla figura del cd. alter ego dell’imprenditore, vale a dire del dipendente preposto alla direzione dell’intera azienda o di una parte rilevante e autonoma di essa e investito di attribuzioni che per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono di imprimere un indirizzo rilevante e un orientamento al governo complessivo dell’azienda, con corrispondente assunzione di responsabilità di alto livello.

Valorizzando il ruolo centrale della contrattazione collettiva, anche ai sensi dell’art. 2095 c.c., e art. 2071 c.c., comma 2 (su cui già in precedenza cfr., ad es., Cass. 26 aprile 2005 n. 8650) e quindi nel delineare il contenuto di qualifiche e mansioni in rapporto all’evoluzione degli assetti produttivi e tenendo conto della eventuale complessità organizzativa di aziende di medie e grandi dimensioni, le sezioni unite di questa Corte hanno ritenuto non sempre adeguata la formula dell’alter ego per definire la categoria dei dirigenti, aprendo ad una integrazione della figura, di cui sono pertanto ipotizzabili anche livelli differenziati e gerarchicamente ordinati all’interno della medesima impresa, soprattutto se di notevoli dimensioni (i cd. dirigenti medi e minori, accanto ai top dirigenti), ai quali tutti è applicabile la relativa disciplina legale e contrattuale collettiva.

E’ stato peraltro precisato che "il necessario accrescimento della categoria scrutinata non può però spingersi sino al punto di includere in essa c.d. pseudo dirigenti, cioè quei lavoratori che, seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quello dei cd. dirigenti convenzionali (apicali, medi o minori, non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva…)".

Quanto, infine alle conseguenze della violazione della disciplina legale in materia di licenziamento disciplinare, mentre allo pseudo- dirigente, come a tutte la categorie di personale diverse dal dirigente, compete la tutela reintegratoria e/o risarcitoria – di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 o alla L. n. 604 del 1966, art. 8, come modificato dalla L. n. 109 del 1990, art. 2 -, al dirigente di ogni livello è applicabile la tutela prevista dal C.C.N.L. applicato (e comunque, in caso di licenziamento per giusta causa, l’art. 2118 c.c., comma 2).

Infine, si ricorda che, secondo Cass. 16 maggio 2008, n. 12403, qualora la contrattazione collettiva di settore non contenga una specifica disciplina, la fattispecie dovrà essere valutata con i criteri di cui all’art. 2099 c.c., comma 2.

Il principio di diritto enunciato a conclusione della motivazione riassunta della sentenza delle sezioni unite del 2007 è il seguente:

"le garanzie procedimentali dettate dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia.

Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso". 6 – Ciò premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento, va subito rilevata l’infondatezza, o meglio, l’irrilevanza, della censura relativa alla ritenuta violazione della procedura disciplinare, in quanto investe solo una delle violazioni in proposito accertate dalla Corte territoriale.

Questa infatti, accogliendo parzialmente i motivi di appello, ha accertato la violazione dell’art. 7 S.L. non solo per la genericità degli addebiti formulati nella lettera di contestazione disciplinare, sulla cui base era stato intimato il licenziamento (sul tema della necessaria specificità della contestazione cfr., ad es., Cass. 30 giugno 2005 n. 13998), ma anche per la circostanza, di autonomo rilievo sul piano considerato, della tardività della stessa (sulla cui rilevanza, cfr., per tutte, Cass. 1 luglio 2010 n. 15649).

Come rilevato anche dalla difesa della parte resistente, il ricorso si limita viceversa a censurare, col secondo motivo, la ritenuta tardività della contestazione disciplinare, rendendo così definitivo il giudizio relativo alla sua genericità, correttamente da ritenere autonomamente violativa dell’art. 7 S.L., in quanto lesiva del diritto di difesa dell’incolpato.

La conseguente irrilevanza del secondo motivo di ricorso assorbe altresì la necessità di esame del terzo, in ragione del principio secondo cui le violazioni dell’art. 7 S.L., come quelle inerenti la necessaria giustificatezza in senso lato del licenziamento, comportano, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte, le medesime conseguenze "sanzionatorie".

Conseguenze che costituiscono l’oggetto del primo motivo del ricorso principale, il quale appare viceversa fondato.

Nel definire la nozione di dirigente ai fini della tutela applicabile in materia di licenziamento, anche quanto alle conseguenze della violazione dell’art. 7 S.L. o della sua ritenuta ingiustificatezza, la Corte d’appello, pur richiamando l’arresto delle sezioni unite di questa Corte del 2007, insiste nella vecchia contrapposizione tra dirigente – alter ego dell’imprenditore o top manager da una parte e dirigente medio o minore o pseudo-dirigente, tutti qualificati sostanzialmente come impiegati direttivi, dall’altra.

Riprova di ciò si ha dall’analisi della posizione del P., condotta dalla Corte territoriale, alla luce della disciplina applicabile, sulla base della sua collocazione nella gerarchia aziendale, dei poteri, anche di spesa, attribuitigli, dello stipendio percepito e conclusasi con l’accertamento dell’appartenenza del " P. alla cd. media dirigenza".

Coerentemente con tale accertamento, la Corte avrebbe pertanto dovuto applicare al P. la tutela predisposta dalla contrattazione collettiva – da lui invocata in via subordinata sin dal ricorso introduttivo -, vale a dire la condanna della società a erogargli l’indennità sostitutiva del preavviso oltre e quella stabilita dal contratto collettivo applicabile, per il caso di licenziamento ingiustificato.

La diversa pronuncia, applicativa della tutela di cui all’art. 18 S.L. in base all’errore di ritenere la "media dirigenza" estranea alla nozione legale della categoria di dirigente, va pertanto cassata, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

7- Il ricorso incidentale è infondato.

Con esso, la resistente chiede la condanna della società a pagarle (evidentemente a titolo di risarcimento danni) le somme che il P. avrebbe percepito in costanza di rapporto ove non fosse stato licenziato nonchè a risarcirle il danno biologico subito dal proprio dante causa in conseguenza del licenziamento.

In proposito, a parte le considerazioni svolte nella sentenza relativamente alla genericità e alla scarsa sostenibilità in sè dei relativi motivi di appello (non adeguatamente contrastate in questa sede), va comunque rilevato in via di principio che, in regime di libertà di recesso, limitata unicamente dall’obbligo di preavviso o relativa indennità e dalla disciplina contrattuale citata comportante, in caso di inosservanza, la sola indennità ivi prevista, non residua spazio per ulteriori danni, se non per effetto di comportamenti ulteriori, associati al licenziamento o inerenti al modo in cui questo è stato manifestato (cfr., al riguardo, da ultimo, Cass. 15 ottobre 2010 n. 21279), comportamenti che non risultano in alcun modo evidenziati dalla ricorrente incidentale.

Da qui l’irrilevanza delle deduzioni di vizio di motivazione formulate dalla ricorrente incidentale.

8 – Concludendo, va accolto il primo motivo del ricorso principale e rigettati gli altri nonchè il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, con rinvio ad altro giudice, che provvederà a quantificare le indennità dovute al dirigente, ai sensi dell’art. 2118 c.c. e del contratto collettivo applicato, per la violazione dell’art. 7 S.L., regolando infine anche le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, che rigetta nel resto;

rigetta il ricorso incidentale;

cassa conseguentemente la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

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