Cass. pen., sez. VI 12-02-2009 (06-02-2009), n. 6185 Mandato di arresto europeo – Consegna per l’estero – Disciplina intertemporale- Pena condizionalmente sospesa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
1 – La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza 9/1/2009, ravvisata la ricorrenza di tutti i presupposti di legge, dichiarava sussistere le condizioni per la consegna all’Autorità Giudiziaria rumena, che ne aveva fatto richiesta, di M.C.M., nei cui confronti la stessa Autorità aveva emesso, il 14/11/2008, mandato di arresto Europeo n. 28 per l’esecuzione della sentenza n. 751 del 7/10/2003 della Pretura di Tecuci (irrevocabile il 19/5/2004), nella parte in cui aveva condannato il predetto per i reati di furto e di guida in stato di ebbrezza, commessi il (OMISSIS), ed aveva contestualmente revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena inflitta al medesimo con precedente sentenza n. 238/01 della stessa Pretura per i reati violazione di domicilio e di danneggiamento, commessi il (OMISSIS).
Il Giudice distrettuale sottolineava, in particolare, che l’operatività – nella specie – della normativa dettata dalla legge n. 69/01 non trovava ostacoli nel dato temporale, in quanto anche l’esecuzione della pena relativa ai reati commessi prima del (OMISSIS) (sentenza n. 238/01) a causa della revoca del beneficio della sospensione costituiva l’effetto della decisione avente ad oggetto la condanna per reati commessi dopo tale data (sentenza n. 751/03) e della conseguente "unitaria procedura, di esecuzione".
Aggiungeva che la richiesta di consegna andava disattesa nella parte concernente l’esecuzione della pena riferibile al reato di guida senza patente, pure oggetto della condanna di cui alla sentenza n. 751/03 della Pretura di Tecuci, in quanto detto illecito per il nostro ordinamento integrava, per lo meno con riferimento all’epoca in cui era stato commesso, una mera violazione amministrativa.
Va precisato che il M. trovasi, in relazione alla presente procedura di consegna, in stato di restrizione a fare data dal (OMISSIS), giorno in cui venne arrestato dalla Polizia Giudiziaria in esecuzione del mandato di cattura internazionale emesso dall’Autorità Giudiziaria rumena, arresto regolarmente convalidato dal Presidente della Corte territoriale e seguito dall’adozione della misura della custodia cautelare in carcere, sostituita – poi (dal (OMISSIS)) – con quella meno rigorosa degli arresti domiciliari, tuttora in atto.
2 – Avverso la decisione della Corte bolognese, ha proposto ricorso per cassazione il M., deducendo: 1) mancanza del requisito di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 6, comma 3, per essere stata allegata alla richiesta dello Stato è emissione la sola sentenza n. 751/03 e non anche le altre alle quali pure si era fatto riferimento (sentenza n. 238/01 della Pretura di Tecuci e sentenza n 443/04 del Tribunale di Galati); 2) violazione dell’art. 40 della richiamata legge, a norma del quale non poteva essere disposta la consegna per l’esecuzione della condanna relativa ai reati commessi prima del (OMISSIS); 3) omessa applicazione dell’art. 4 della Decisione Quadro 13/6/2002, che prevede la possibilità per la persona residente nello Stato di esecuzione di espiare la pena in tale Stato.
3 – Il ricorso è in parte fondato e va accolto nei limiti di seguito precisati.
3a – Non ha pregio la prima doglianza, posto che l’onere di allegazione gravante in capo all’Autorità Giudiziaria emittente deve ritenersi assolto con la produzione della sentenza di condanna a pena detentiva, con connesse statuizioni, posta a base della corrispondente richiesta. La ratio della disciplina sul mandato di arresto, infatti, risponde all’esigenza di – fornire all’Autorità Giudiziaria dello Stato di esecuzione tutti gli elementi utili ad esercitare il controllo sufficiente a sostegno della decisione di accoglimento o di rigetto. Il legislatore italiano ha adottato una soluzione in linea con la Decisione Quadro, nel senso che, con l’art. 6 della legge attuativa, ha previsto una disciplina contenutistico – formale, funzionalmente orientata a soddisfare in concreto la detta esigenza.
Ciò posto, rileva la Corte che i riferimenti fattuali contenuti nel m.a.e. e l’allegata sentenza n. 751/03 della Pretura di Tecuci offrono sufficienti elementi di valutazione per verificare entro quali limiti la richiesta di consegna è fondata.
La mancata allegazione della sentenza n. 238/011 della Pretura di Tecuci, i cui contenuti sono specificamente illustrati – e – peraltro – pacifici, non è di ostacolo alla decisione sollecitata.
Anche il riferimento alla mancata allegazione della sentenza n. 443/04 del Tribunale di Galati è ininfluente, posto che, come si evince dagli atti, tale decisione ha solo determinato il passaggio in giudicato di quella (n. 751/01) posta a base della richiesta di consegna.
3b – Infondata è anche la doglianza con la quale si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 4 della Decisione Quadro 2002/584/GAI. Non costituisce motivo di rifiuto della consegna il fatto che il ricorrente sia residente in (OMISSIS), considerato che la L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), prevede tale rifiuto (peraltro non inderogabile) solo per la persona ricercata, ai fini dell’esecuzione di una pena detentiva, che abbia cittadinanza (OMISSIS).
D’altra parte, come più volte ribadito da questa Suprema Corte (sez. 6, 4/9/2007, Dobos; 16/4/2008, Badilas; 25/6/2008, Vititiu;
26/9/2008, Dicu), la richiamata disposizione dell’art. 18 non si pone in contrasto con i principi della Decisione Quadro, in quanto quest’ultima facoltizza, ma non obbliga, gli Stati membri dell’Unione Europea a estendere le garanzie eventualmente riconosciute ai propri cittadini agli stranieri che dimorino o risiedano sul loro territorio.
3c – Fondata, invece, è la denunciata violazione della disposizione transitoria di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 40, comma 2.
In base a tale norma, infatti, alle richieste di esecuzione relative a reati commessi prima del (OMISSIS) si applicano le disposizioni in materia di estradizione.
Ciò posto, poichè dalla sentenza trasmessa dall’Autorità Giudiziaria rumena (n. 751/03 Pretura di Tecuci) si evince che la revoca della sospensione condizionale della pena inflitta al M. con precedente sentenza (n. 238/01 Pretura Tecuci) si riferisce a reati commessi il (OMISSIS), si sarebbe dovuto attivare, per quest’ultima condanna, separata procedura di estradizione, a nulla rilevando che la corrispondente pena sia stata presa in considerazione da una sentenza di condanna riguardante, in via principale, fatti commessi il (OMISSIS) e che la medesima abbia determinato di riflesso l’effetto di porre in esecuzione la precedente condanna previa revoca del citato beneficio, essendo comunque pacifico che oggetto di tale precedente condanna sono reati commessi prima del (OMISSIS) (cfr, in senso conforme, Cass. sez. 4^ 27/2/2008, Buzuleac; 4/7/2008, Luongo; 26/9/2008, Dicu).
La domanda di consegna può dunque essere accolta solo con riferimento alla condanna di cui alla sentenza della Pretura di Tecuci n. 751 del 7/10/2003 relativamente ai reati di furto e di guida in stato di ebbrezza, commessi il (OMISSIS).
La sentenza impugnata, pertanto, va annullata senza rinvio limitatamente all’esecuzione della pena di anni due di reclusione inflitta, con la sentenza n. 238/01 della Pretura di Tecuci, alla persona richiesta in consegna.
La decisione impugnata va confermata nel resto.
3d – La cancelleria provvedere agli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla consegna disposta per l’esecuzione della pena inflitta con la sentenza della Pretura di Tecuci n. 238/01, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
Riserva il deposito della motivazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Lavoro, Sentenza n. 13356 del 2011 Le condizioni di lavoro stressanti non costituiscono mobbing ma danno diritto al risarcimento danni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

La a.s.l. di Siena proponeva appello avverso la sentenza del locale Tribunale, con cui era stata condannata a pagare alla dipendente [OMISSIS] €. 19.000,00 complessivi a titolo di danno esistenziale e biologico, patiti da quest’ultima a causa di accertate disfunzioni organizzative all’interno del luogo di lavoro.

Lamentava in particolare che il Tribunale aveva violato l’art. 112 c.p.c. per aver riconosciuto il danno ex art. 2087 c.c., laddove la [OMISSIS] aveva dedotto un comportamento mobbizzante nei suoi confronti, peraltro escluso dal Tribunale, ed inoltre per avere riconosciuto le poste di danno senza alcuna convincente prova circa il nesso causale tra la patologia lamentata e le condizioni di lavoro.

La Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 2 febbraio 2007, riteneva che nonostante la domanda della [OMISSIS] fosse basata sul lamentato mobbing, il Tribunale non aveva violato l’art. 112 c.p.c. pur escludendo una condotta cd. mobbizzante.

Riteneva infatti che tale illecito rappresentava in generale una violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., nella specie ritenuta sussistente, essendo riservata al giudice la qualificazione della domanda e la sua riconducibilità o meno ad una determinata previsione di legge.

Riteneva invece parzialmente fondato il gravame per non avere la [OMISSIS], quanto al danno esistenziale, fornito alcuna idonea allegazione o prova circa l’esistenza di una lesione alla sua sfera soggettiva. Quanto al danno biologico riteneva che esso ben poteva ricondursi alle disagevoli condizioni di lavoro, accertate dalle prove documentali e testimoniali acquisite in primo grado, come stabilito dalla c.t.u. medico legale, mentre la quantificazione del danno doveva ridursi equitativamente ad €. 10. 400,00 in luogo di €. 11.700,00 riconosciuti dal Tribunal risultando più aderente all’entità della patologia ansioso – depressiva emersa.

Avverso tale sentenza propone ricorrso per Cassazione la a.s.l. (…) di Siena, affidato a due motivi poi illustrati con memoria.

Resiste la [OMISSIS] con controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi.

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti il ricorso principale e quello incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c., proposti avverso la medesima sentenza.

I.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 412 bis c.pc., lamentando che la corte territoriale da una parte aveva escluso l’esistenza del mobbing, costituente il presupposto del danno lamentato dalla [OMISSIS] in primo grado, d’altro canto aveva ritenuto risarcibile un danno ex art. 2087 c.c., mutando così erroneamente la causa petendi, senza peraltro consentirle una adeguata difesa, anche in sede di tentativo obbligatorio di conciliazione.

Ad illustrazione del motivo formulava il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c.

Denunciava inoltre in sufficiente e contraddittoria in motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ravvisato nella erronea valutazione dei fatti e segnatamente delle condizioni di lavoro in cui la [OMISSIS] era chiamata ad operare.

2. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Inammissibile in ordine alla censura di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., non contenendo il motivo il prescritto quesito di fatto di cui all’art. 366 bis c.p.c., e cioè la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (Cass. sez.un. l°ottobre 2007, n. 20673). Il motivo va dichiarato inammissibile nella parte in cui si lamenta inoltre una contraddittorietà della motivazione che ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché, dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice, Cass. sez. un. 22 dicembre 2010, n. 25984.

Nella specie la corte territoriale ha ritenuto che dagli elementi di causa (prove documentali e testimoniali acquisite in primo grado, (pag. 5 sentenza) emergesse la violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. La ricorrente richiede dunque inammissibilmente alla Corte un riesame in fatto delle circostanze del caso, precluso in sede di legittimità, Cass. 26 marzo 2010 n. 7394.

Quanto alla violazione degli artt. 112 e 412 bis c.p.c., si osserva che, come rilevato nella sentenza impugnata, questa Corte ha già affermato che l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e finalizzata all’emarginazione del dipendente (c d. “mobbing”, rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. (Cass. 9 settembre 2008 n. 22858, Cass. 6 marzo 2006 n. 4774), a maggior ragione ove, come nella specie, siano state dedotte gravi disfunzioni organizzative quali causa dei danni non patrimoniali richiesti, sicché non può ritenersi violato il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, né un illegittimo mutamento della causa petendi.

3. Con secondo motivo la a.s.l. denuncia “erronea ricostruzione ed interpretazione di atti e fatti processuali. Violazione di legge per falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c.”

Lamentava in particolare la ricorrente principale che nella specie difettava qualsiasi reale prova circa il danno biologico riconosciuto alla [OMISSIS], che spettava a quest’ultima provare, laddove la corte di merito aveva semplicemente posto a carico dell’azienda l’onere di provare il rispetto dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c,c.

Lamentava anche che nella fattispecie non era stato dimostrato il nesso di causalità tra le condizioni di lavoro e la patologia accertata dal c.t.u., consulenza che non poteva in ogni caso sollevare la parte dal suo onus probanti e che nella specie non aveva accertato adeguatamente il nesso causale.

Formulava pertanto il prescritto quesito di diritto chiedendo in particolare se incorra nella violazione dell’onere della prova la sentenza che in assenza di allegazioni attestanti l’esistenza di una patologia, demandi ad una c.t.u. l’accertamento di un danno biologico nonché del nesso causale tra le condizioni di lavoro e il danno.

Anche il secondo motivo risulta infondato.

Ed invero la [OMISSIS] dedusse, e dunque allegò in fatto, di aver contratto una patologia psichica in conseguenza delle condizioni di lavoro in cui era chiamata ad operare.

Deve quindi osservarsi che sebbene la c.t.u. non sia qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta a coadiuvare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, essa può essere disposta non solo al fine di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche al fine di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. 13 marzo 2009 n. 6155; Cass. 26 novembre 2007 n. 24620; Cass. 15 aprile 2002 n. 5422; Cass. 7 marzo 2001 n. 3343).

Il c.t.u., nella specie, ha accertato che la [OMISSIS] aveva contratto una patologia ansioso depressiva, di cui forniva quantificazione percentuale (8-10%), verosimilmente connessa alle stressanti condizioni lavorative in cui fu chiamata ad operare.

Deve infine osservarsi che ai fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come conseguenza certa ed inequivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata (Cass. 11 giugno 2009 n. 1353, in base al principio di cui all’art. 41 c.p. quale norma di carattere generale applicabile nei giudizi di responsabilità civile (da ultimo, Cass. 30 novembre 2009 n. 25236).

Nella specie il c.t.u. ha concluso per l’esistenza del nesso causale, nel senso sopra esposto, mentre la quantificazione percentuale del danno biologico non è stata oggetto di censure.

4. – 11 ricorso principale va pertanto respinto.

5. -Con il primo motivo del ricorso incidentale, la [OMISSIS] denuncia violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c.. 115 c.p.c in relazione al mancato riconoscimento del danno esistenziale senza ricorrere alla prova presuntiva.

Il motivo è infondato.

Va al riguardo rammentato il principio (da ultimo enunciato da Cass. 30 novembre 2009 n. 25236; Cass. sez. un. 16 febbraio 2009 n. 3677), che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, il cosiddetto danno alla vita di relazione ed i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno biologico (al quale va riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva) nel suo aspetto dinamico, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Le sezioni unite di questa Corte (sentenza 24 marzo 2006 n. 6572), seguita dalla successiva giurisprudenza, hanno chiarito che tale danno, così come ora definito, vada comunque provato dall’attore, costituendo la prova (avente ad oggetto precise circostanze atte a dimostrare l’adozione di scelte di vita diverse da quelle che sarebbero state seguite in assenza dell’evento dannoso) il presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa.

Se è pur vero che la medesima pronuncia ha affermato che la prova in questione può essere anche presuntiva, è altrettanto vero che la parte è onerata di fornire al giudice una serie concatenata di circostanze, quali la durata, la gravità, la conoscibilità dell’inadempimento all’interno e all’esterno del luogo di lavoro, le reazioni del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, gli effetti negativi sulle sue abitudini di vita, che nella specie difettano del tutto (sovrattutto quanto all’incidenza sulle abitudini di vita e relazionali), o risultano sotto il profilo in esame insufficienti (quanto ad esempio alla durata, in ricorso determinata tra l’ottobre 2001 e l’agosto 2002).

6. -Col secondo motivo la [OMISSIS] denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c. per avere la corte di merito arbitrariamente ridotto l’entità del danno biologico, peraltro in difetto assoluto di motivazione sul punto.

Lamentava che la a.s.l. appellante aveva contestato l’esistenza del danno biologico solo sotto il profilo della responsabilità datoriale e del nesso di causalità, ma non in ordine all’entità del danno riconosciuto nella sentenza di primo grado.

Il motivo è infondato.

Come risulta dalla incontestata ricostruzione in fatto della vicenda processuale, contenuta nella sentenza impugnata, la a.s.l. impugnò la sentenza del Tribunale di Siena per avere, per quanto qui interessa, riconosciuto il danno biologico senza alcuna convincente prova circa il nesso causale tra le condizioni di lavoro ed il danno lamentato.

La corte territoriale risultava dunque ritualmente investita della questione, né la [OMISSIS] allega o riproduce, in contrasto col principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione (ex plurimis, Cass. 20 gennaio 2006 n. 1113), l’atto di appello della a.s.l.

Pur avendo poi la corte di merito ritenuto, con motivazione esente da vizi logici e basata sulla disposta c.t.u., che la somma di € 10.400,00 risultava più aderente all’entità della patologia accertata dall’ausiliare, la ricorrente incidentale non solo non allega la relazione di quest’ultimo, in contrasto col menzionato principio dell’autosufficienza, ma non chiarisce neppure la ragione per cui la somma liquidata dal Tribunale doveva ritenersi nella specie più corretta.

6. Anche il ricorso incidentale deve pertanto respingersi.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa le spese del presente giudizio di legittimità.

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-02-2011, n. 3186 Opposizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione in opposizione proposto ai sensi dell’art. 645 c.p.c. e notificato il 9 luglio 1986, il Comune di S. Felice del Molise (CB) conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Campobasso l’arch. F.C. per sentir dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo emesso dal Presidente di quel Tribunale a favore del suddetto professionista, per il pagamento, a carico dell’ente opponente, della somma di L. 30.943.122, oltre interessi legali, spese e competenze, a titolo di spettanze relative alla progettazione e alla direzione dei lavori di completamento e sistemazione dell’impianto sportivo comunale.

Radicatosi il contraddittorio, l’opposto F.C. instava per il rigetto della formulata opposizione e, in via riconvenzionale, chiedeva la corresponsione degli interessi al tasso di sconto sulla prima parcella a decorrere dal 7 maggio 1983 e sulle restanti somme dal 5 febbraio 1986.

L’adito Tribunale definiva il giudizio con sentenza n. 112 del 1996, accogliendo parzialmente l’opposizione a decreto ingiuntivo e, nel revocare quest’ultimo, dichiarava dovuto all’opposto il solo compenso relativo al progetto del primo lotto, anche se nella misura richiesta con la seconda parcella, di maggiore importo rispetto alla prima, condannando il suddetto Comune al pagamento della relativa somma, oltre che degli interessi al tasso ufficiale di sconto, calcolati sull’importo del chiesto onorario professionale parti a L. 1.938.204 per il periodo dal 7 maggio 1983 al 9 febbraio 1986 e a L. 2.209.494 dal 10 febbraio 1986 fino all’effettivo saldo, con compensazione della metà delle spese del giudizio e con condanna dell’opposto al pagamento dell’altra metà.

In virtù di rituale appello interposto dal F.C., la Corte di appello di Campobasso, nella resistenza dell’appellato Comune di San Felice del Molise, con sentenza n. 87 del 2004 (pubblicata il 6 aprile 2004), in parziale riforma dell’impugnata sentenza, ferma restando la revoca dell’opposto decreto ingiuntivo, condannava l’ente appellato al pagamento, in favore dell’appellante,della somma di L. 30.943.122, ragguagliata a Euro 15.981,00, per compenso della progettazione del primo, secondo e terzo lotto dell’impianto sportivo oggetto di causa, oltre interessi come determinati nella sentenza impugnata, condannando lo stesso Comune di San Felice del Molise alla refusione delle spese del doppio grado e al pagamento delle spese di c.t.u.. A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale respingeva, innanzitutto, l’eccezione (avanzata dal Comune appellato) di nullità della convenzione intercorsa con il professionista appellante per difetto dell’indicazione dell’imputazione di spesa e, comunque, per violazione del T.U.F.L. R.D. n. 283 del 1934, art. 284 e di tutte le vigenti norme in materia di finanza locale, e, nel merito, ravvisata la mancata proposizione dell’impugnazione avverso il capo relativo al riconoscimento del compenso per la progettazione del primo lotto del suddetto impianto, riteneva la fondatezza, per quanto di ragione sulla scorta dell’espletata c.t.u., anche della pretesa economica riguardante l’attività svolta con riferimento al secondo e terzo lotto.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Campobasso ha proposto ricorso per cassazione (notificato il 20 maggio 2005 e depositato il 6 giugno 2005) il Comune di San Felice del Molise, che risulta articolato su sette motivi, al quale ha resistito con controricorso l’arch. F.C.. Il difensore dell’ente ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo l’ente ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per violazione degli artt. 333 e 343 c.p.c., nonchè per violazione del R.D. n. 383 del 1934, art. 284, art. 1418 e dell’art. 1325 c.c., congiuntamente all’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.1. Con il secondo motivo il ricorrente ha prospettato, subordinatamente al primo motivo, la violazione del previdente art. 345 c.p.c., unitamente all’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.2. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto, ancora subordinatamente al primo motivo, la violazione dell’art. 345 c.p.c. (previgente) e art. 163 c.p.c., nonchè l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.3. Con il quarto motivo il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in uno alla motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.4. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto la violazione, sotto altro profilo, degli artt. 112 e 115 c.p.c., oltre che degli artt. 1325, 1346, 1353, 1362, 2222, 2230 e 2697 c.c., congiuntamente alla insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.5. Con il sesto motivo il ricorrente ha prospettato la violazione degli artt. 1183, 1353 e 1359 c.c., unitamente all’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 1.6. Con il settimo ed ultimo motivo ha denunciato la violazione degli artt. 1224, 1282, 1353 e 1359 c.c., oltre che della L. n. 143 del 1949, art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. 2. Rileva il collegio che il primo motivo articolato nell’interesse del Comune di S. Felice del Molise è fondato e deve, pertanto essere accolto, con conseguente assorbimento dell’esame degli altri.

Con tale motivo l’ente ricorrente ha dedotto che, incorrendo nelle prospettate violazioni di legge, la Corte territoriale – pur qualificando inesattamente l’istanza come appello incidentale condizionato siccome subordinato all’accoglimento del ricorso principale – aveva erroneamente respinto l’eccezione di nullità della delibera dell’incarico e della successiva convenzione in favore dell’arch. F.C., per violazione R.D. n. 383 del 1934, art. 284 all’epoca vigente, sul presupposto che tale invalidità non ricorresse, malgrado l’erogazione dei compensi per il 2^ e per il 3^ lotto dei lavori indicati in narrativa fosse stata condizionata, rispettivamente, all’acquisizione di un mutuo e all’approvazione da parte della Regione (come, del resto, dalla stessa Corte di appello accertato).

Alla stregua delle stesse risultanze emergenti dalla motivazione della sentenza impugnata si desume, invero, che il Comune ricorrente aveva reiterato ritualmente in appello la suddetta eccezione di nullità ai sensi dell’art. 346 c.p.c., senza che, perciò, sulla relativa questione potesse essersi formato un giudicato interno, evenienza, peraltro, esclusa anche dalla stessa Corte territoriale che – sul presupposto della sua ammissibilità e dando atto che la questione relativa al riconoscimento del "quantum" del compenso dovuto per la progettazione del primo lotto non costituiva più oggetto del giudizio, siccome non direttamente impugnata in sede di gravame avendo il tribunale di prima istanza accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo conformemente alla richiesta dell’ente di essere tenuto unicamente all’adempimento del compenso relativo a tale lotto siccome riferibile a fondi già accantonati – l’ha rigettata nel merito, ravvisando la fondatezza dell’appello del F. anche con riguardo alla pretesa economica riguardante le attività professionali riferibili al 2^ e al 3^ lotto. Così decidendo, però, la Corte molisana ha disatteso il costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – ribadito anche a Sezioni unite (v. la sentenza 10 giugno 2005, n. 12195, con riferimento alla disciplina di cui al R.D. n. 383 del 1934, poi ripresa anche dalle stesse Sezioni unite, in ordine alla normativa sulle autonomie locali di cui alla L. n. 142 del 1990, nella sentenza 28 giugno 2005, n. 13831) – secondo il quale, nel vigore del combinato disposto del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, artt. 284 e 288 (Testo unico della legge comunale e provinciale), la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidavano ad un professionista privato l’incarico per la progettazione di un’opera pubblica, era valida e vincolante nei confronti dell’ente locale soltanto se conteneva la previsione dell’ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte, con la conseguenza che l’inosservanza di tali prescrizioni determinava la nullità della delibera, la quale si estendeva al contratto di prestazione d’opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l’idoneità a costituire titolo per il compenso (in tal senso v., fra le altre, già precedentemente alle richiamate pronunce delle SS.UU., Cass. 18 agosto 1990, n. 8410, e Cass. 30 maggio 2003, n. 7910, nonchè, successivamente, Cass. 2 luglio 2008, n. 18144, e Cass. 29 ottobre 2009, n. 22922).

Alla luce di tale condiviso orientamento giurisprudenziale deve, perciò, riaffermarsi la sussistenza della nullità del contratto di affidamento di un incarico professionale concluso dalla P.A. in base a deliberazione priva dei requisiti previsti dal R.D. n. 383 del 1934, citato art. 284, dato che dalla violazione di norme imperative (quali erano indubbiamente gli artt. 284 e 288 del citato R.D.) discende l’invalidità totale del rapporto contrattuale (rilevabile anche d’ufficio ex art. 1421 c.c.), espressamente comminata dall’art. 1418 c.c., comma 1, o, quanto meno, quella parziale ai sensi dell’art. 1419 c.c., qualora sia ravvisabile la nullità di singole clausole che non inficino l’intero contratto (come nel caso di specie nel quale è rimasto accertato che le parti avevano comunque validamente concluso la convenzione con riferimento alla commissione dei lavori inerenti il primo lotto siccome giustificata dalla già intervenuta copertura finanziaria, garantita da fondi preventivamente accantonati). In altri termini, sulla scorta della richiamata normativa di cui al R.D. n. 383 del 1934, l’ente comunale non poteva rimanere validamente vincolato da un contratto stipulato in esecuzione di una delibera nulla per violazione di norme imperative, tendenti a tutelare il patrimonio dell’ente pubblico contro l’assunzione illegittima di obbligazioni senza la previa disponibilità dei mezzi per farvi fronte e, quindi, senza la preventiva quantificazione dell’ammontare delle specifiche poste da erogare garantite da un impegno di spesa certo, attuale e concretamente disponibile (quale – con riferimento alla fattispecie in questione – non poteva essere quello condizionato, rispetto ai compensi per il 2^ e 3^ lotto, alla futura stipula di un mutuo e alla successiva erogazione di un finanziamento regionale, implicanti eventi incerti e tali da non comportare l’effettiva vincolatività dell’impegno contrattuale). In proposito è utile, infatti, evidenziare che la illegittimità della convenzione – nel vigore del R.D. n. 383 del 1934 – doveva considerarsi direttamente derivante dall’illegittimità delle delibere degli enti che avessero riguardato l’esecuzione di opere pubbliche e la relativa progettazione senza contenere la previsione attuale e concreta (e non, quindi, meramente ipotetica o potenziale) dei mezzi economici occorrenti, al cui adempimento avrebbe dovuto farsi luogo con la contestuale imputazione in bilancio e l’adozione del formale impegno contabile che avrebbe consentito di assicurare l’effettivo raggiungimento del risultato prefissato.

3. Per queste ragioni, in definitiva, in accoglimento del primo motivo del proposto ricorso (in relazione all’effettiva sussistenza della dedotta nullità, invece negata dalla Corte di appello) e con conseguente assorbimento degli altri motivi formulati (alcuni dei quali prospettati in via subordinata e gli altri comunque superati dalla statuizione adottata sul primo), deve provvedersi alla cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidere, ai sensi del previgente art. 384 c.p.c., comma 1 (corrispondente all’attuale comma 2), la causa nel merito, con il rigetto dell’appello proposto nell’interesse di F.C. (e la conseguente conferma della corretta sentenza di primo grado), cui consegue, in applicazione del principio della soccombenza, la condanna dello stesso F. al pagamento delle spese riguardanti sia il giudizio di appello che il presente giudizio di cassazione, liquidate, rispettivamente, nei sensi di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’appello proposto nell’interesse di F. C. e condanna quest’ultimo al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, che liquida in Euro 1000,00 per onorari, Euro 600,00 per diritti ed Euro 200,00 per esborsi, nonchè di quelle del giudizio di cassazione, quantificate in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-03-2011, n. 5539 Responsabilità civile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La controversia ha ad oggetto la richiesta di condanna al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale, proposta da Z.E., danneggiata dell’incidente occorso in (OMISSIS) nei confronti della propria figlia, C.A., conducente e proprietari del veicolo e della sua compagnia assicuratrice della R.C.A..

Il Tribunale adito accoglieva la domanda nei confronti della C. e respingeva quella nei confronti dell’assicurazione.

La Corte d’Appello dell’Aquila, con la sentenza in epigrafe, depositata il 18.12.2007, respingeva l’appello della C., ritenendo che correttamente il Tribunale aveva ritenuto che la sua confessione in sede d’interrogatorio formale costituisse prova legale a suo carico, ma dovesse essere liberamente apprezzata ex art. 2733 c.c., comma 3, nei confronti dell’assicuratore. Nel caso di specie, l’indizio non poteva considerarsi corroborato da altri elementi, stanti le contraddizioni significative emergenti tra la versione resa dalla C. in sede dr interrogatorio e quelle esposte dalla Z. e dalla C. stessa in occasione della richiesta di risarcimento all’assicuratore.

Propone ricorso per cassazione la C. sulla base di tre motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Col primo motivo, la ricorrente, denunziando violazione dell’art. 1917 c.c., art. 102 c.p.c., L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23, artt. 2697 e 2733 c.c., chiede alla Corte di verificare se, nel caso in cui il giudice di appello abbia affermato la responsabilità per un sinistro stradale a carico del proprietario-conducente e questi sia condannato al relativo risarcimento, sia possibile che, per lo stesso fatto, si escluda la responsabilità dell’assicuratore della R.C.A..

Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando violazione dell’art. 1917 c.c., art. 102 c.p.c., art. 2733 c.c., L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23 e art. 2909 c.c., chiede alla Corte se, posto che le dichiarazioni confessorie devono essere liberamente apprezzate dal giudice in modo unitario in relazione ala posizione di tutte le parti, ivi incluso colui che le ha rese ( art. 2733 c.c., comma 3, in tema di confessione resa da alcuno soltanto dei litisconsorti), può affermarsi o escludersi che – in materia di sinistri stradali – le dichiarazioni confessorie rese dal solo responsabile del danno possono essere diversamente apprezzate, si da condurre ad una valutazione differenziata delle responsabilità, con la condanna del confitente e l’assoluzione dell’assicuratore.

Col terzo motivo, la ricorrente, lamentando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi con violazione dell’art. 2909 c.c., art. 1917 c.c., art. 102 c.p.c., L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23, chiede ala Corte di verificare se, posto che in merito ad unico fatto derivante dalla circolazione stradale, la responsabilità del proprietario-conducente sia riconosciuta con prova piena e sul punto si sia formato il giudicato implicito, per mancata impugnativa, possa affermarsi se, nel rispetto del principio di unitarietà e di non contraddizione e per evitare contrasto di giudicati, la dichiarazione di responsabilità possa estendersi anche all’assicurazione obbligata solidale ex lege ed ex contratto.

Le censure – che possono trattarsi congiuntamente, essendo tutte rivolte, sia pure sotto diversi profili, a far valere il medesimo principio – non colgono nel segno.

E’ vero, infatti, che, a seguito del componimento del contrasto di giurisprudenza sul punto, operato da Cass. S.U. n. 10311/06 (confermata da Cass. 1680/08 e 16376/10), non è dubitabile che la confessione del proprietario-responsabile di sinistro stradale debba essere liberamente apprezzata nei confronti di tutti i coobbligati solidali, vale a dire, non solo nei riguardi della coobbligata assicurazione della R.C.A., ma anche del medesimo responsabile- proprietario del veicolo ed autore della confessione.

E’ altrettanto vero, tuttavia, che l’affermazione di tale principio presuppone, oltre che la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, l’impossibilità di formazione di un giudicato su autonomi capi della decisione unitaria. Infatti, la richiamata sentenza delle Sezioni unite conferma, su quest’ultimo punto, una meno recente decisione, resa anch’essa a Sezioni unite, secondo cui, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, qualora il danneggiato, esercitando l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, evochi in giudizio quest’ultimo ed il responsabile assicurato ( L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23), e, chiedendo un risarcimento eccedente i limiti del massimale di assicurazione, proponga, oltre alla domanda nei confronti dell’assicuratore, anche domanda contro l’assicurato, le domande medesime si trovano in rapporto di connessione e reciproca dipendenza, trovando presupposti comuni nell’accertamento della responsabilità risarcitoria dell’assicurato e dell’entità del danno risarcibile, con la conseguenza che l’impugnazione della sentenza per un capo attinente a detti presupposti comuni, da qualunque parte ed in confronto di qualsiasi parte proposta, impedisce il passaggio in giudicato dell’intera pronuncia con riguardo a tutte le parti (Cass. S.U. n. 5220/83, confermata anche da Cass. 255/99).

Ne deriva che l’operatività dell’invocato principio della valutazione unitaria degli esiti della confessione e la conseguente unitaria decisione dei rapporti connessi/dipendenti di responsabilità danneggiato-assicuratore e danneggiato-assicurato riguarda e presuppone un asseto processuale di non definitività della decisione nei confronti di ciascuna delle parti coinvolte.

Nel caso in esame, invece, la confessione è stata liberamente apprezzata nei confronti dell’assicuratore; mentre il libero apprezzamento della stessa anche nei confronti del danneggiante- proprietario del veicolo potrebbe avvenire solo ove non vi fosse giudicato sulla posizione del medesimo, il quale, tuttavia non ha impugnato la statuizione di affermazione della sua responsabilità ed anzi ne invoca la mancata "estensione". Invero, la facoltà del debitore solidale di avvalersi della sentenza favorevole intervenuta fra il creditore ed altro coobbligato, concerne l’ipotesi in cui sul rapporto obbligatorio solidale sia stata pronunciata una sola sentenza i cui effetti possono comunicarsi al condebitore non in causa, mentre trova limiti alla sua applicazione nell’eventuale esistenza nei confronti del medesimo condebitore – come nella specie – del giudicato contrario sul medesimo punto (Cass. n. 9647/96).

Le censure proposte dalla ricorrente si rivelano, pertanto, oltre che intrinsecamente contraddittorie, inammissibili.

Il ricorso, pertanto, va respinto. Nulla per le spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.