Cassazione civile anno 2005 n. 1077 Risoluzione del contratto per eccessiva onerosità Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 17.09.19X, l’Impresa Immobiliare X X dei X s.r.l. (in seguito solo Impresa), premesso che X D’X aveva commissionato lavori di rafforzamento e riparazione di un fabbricato sito in Piedimonte Matese danneggiato dal terremoto del maggio 1984; che la committente era beneficiaria di un contributo ex lege n. 219/81 di L. 50.662.103 poi non accreditato;
che essa Impresa si era obbligata ad eseguire i lavori approvati a propria cura e spese, riservandosi il diritto, a integrazione dei fondi, di recuperare la differenza; che era intervenuta l’ordinanza ministeriale n. X5/1997 la quale aveva innovato la normativa; che, pertanto, si erano aggravate le condizioni del contratto in quanto essa Impresa vedeva allontanarsi il momento della riscossione delle somme anticipate; conveniva in giudizio avanti al tribunale di S. Maria Capua Vetere la D’X al fine di sentir risolvere il contratto e condannare la convenuta al pagamento dei lavori effettuati.
Costituitasi, la D’X contestava la domanda e ne chiedeva il rigetto. Deduceva che l’Impresa aveva già eseguito i lavori, onde non poteva chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta; la domanda era inammissibile anche perchè Talea del contributo rientrava nella previsione contrattuale.
All’esito dell’istruttoria, il tribunale rigettava la domanda e compensava le spese del giudizio.
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 3127/00 del 07.12/20.12.2000, in parziale accoglimento dell’appello principale e della domanda della società, condannava la D’X a pagare in favore dell’Impresa la somma di L. 50.662.193, oltre agli interessi legali dalla domanda; rigettava la domanda di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento; rigettava l’appello incidentale della D’X e compensava tra le parti le spese del grado di giudizio.
Premesso che unico sostanziale motivo di doglianza dell’Impresa era la qualificazione giuridica data dal primo giudice all’azione proposta, ed esclusa l’ipotesi di novità della domanda in appello, osservava la Corte territoriale che il tribunale, anche sulla scorta dell’eccezioni della D’X, aveva ritenuto di dover considerare la richiesta dell’Impresa come domanda di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. Ma tale qualificazione non poteva essere condivisa perchè l’istituto presuppone l’inadempimento della parte che chiede la risoluzione, mentre nel caso specifico era pacifico che l’Impresa aveva portato a termine i lavori di cui al contratto d’appalto. Inoltre l’intervenuta ordinanza ministeriale n. X5/1997 non aveva creato uno squilibrio nel sinallagma contrattuale, ma solo reso più rigoroso l’iter procedimentale per accedere all’erogazione dei fondi pubblici. Infine non poteva parlarsi di alea già contenuta nel contratto, trattandosi di appalto ed essendovi, in ogni caso, incompatibilità tra contratto aleatorio e risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
La Corte d’appello, ritenuta poi inaccoglibile la domanda di risoluzione del contratto per mancanza di interesse dell’Impresa, osservava che, in base alla clausola contrattuale n. 10, l’Impresa si era obbligata ad anticipare il costo dei lavori, in attesa che il Comune erogasse il contributo pubblico, riservandosi di richiedere la eventuale differenza tra costo dei lavori e contributo. Poichè il contributo non era stato erogato, giustamente l’Impresa aveva chiesto alla D’X di pagare l’importo dei lavori. Tali lavori, a giudizio della la Corte d’appello, andavano liquidati in via equitativa nella somma di L. 50.662.103, di cui al contributo.
Avverso tale sentenza la D’X ha proposto ricorso per Cassazione, in base a tre motivi.
L’Impresa ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 132, 112 e 345 c.p.c. e dell’art. 1467 c.c., la ricorrente censura l’impugnata sentenza per aver respinto l’eccezione di novità della domanda. Sostiene che l’Impresa in primo grado aveva chiesto la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta in forza del mutamento, a suo dire, della normativa in materia di contributo e particolarmente dell’ordinanza n. X5/87. La richiesta dell’Impresa in appello di risoluzione del contratto per inadempimento costituiva domanda nuova non consentita. Erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto che si trattava di una mera diversa qualificazione della domanda, anche perchè il giudice di primo grado aveva fatto esplicito riferimento al secondo comma dell’art. 1467 c.c., a tenore del quale la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto.
1.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha rilevato che, nell’atto introduttivo del giudizio, l’Impresa non aveva qualificato in alcun modo l’azione proposta, limitandosi a riferire i fatti occorsi e i rimedi cui aspirava, così come aveva fatto in sede di appello, per cui non risultavano mutati gli elementi costitutivi della domanda, essendo in discussione soltanto la qualificazione giuridica dell’azione. Ha ritenuto non condivisibile la qualificazione che il tribunale, anche sulla scorta delle eccezioni sollevate dalla D’X, aveva dato alla domanda, osservando che la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta presuppone l’inadempimento della parte che chiede la risoluzione, laddove, dagli atti del giudizio, risultava pacifico che l’Impresa aveva portato a termine i lavori di cui al contratto d’appalto, donde l’inaccoglibilità della domanda di risoluzione per mancanza di interesse da parte dell’Impresa, che aveva diritto al corrispettivi dell’opera eseguita.
La Corte d’appello ha pure precisato che l’ordinanza n. X5/1987 non aveva affatto creato uno squilibrio nel rapporto sinallagmatico, ma solo reso più rigoroso l’iter procedurale per accedere all’erogazione dei fondi, mentre era da escludersi che il contratto d’appalto potesse essere inquadrato tra i cosiddetti contratti aleatori.
In questa ottica, giuridicamente valida ed ineccepibile, correttamente il giudice di secondo grado ha respinto l’eccezione della D’X concernente il divieto dello ius novorum in appello, ritenendo che si trattava di mera qualificazione giuridica della domanda.
2. Col secondo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione del comma 2 dell’art. 1453 c.c., nonchè difetto di motivazione, in riferimento all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la ricorrente censura l’impugnata sentenza per non aver considerato che, qualora sia stata chiesta la risoluzione del contratto, non può più domandarsene l’adempimento.
2.1. Il motivo non ha pregio.
Solo la proposizione senza riserve della domanda di risoluzione del contratto preclude, ai sensi del secondo comma dell’art. 1453 c.c., la successiva proposizione della domanda di adempimento, in quanto, alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente, che chieda senza riserva la risoluzione, è valutato dalla legge come manifestazione della mancanza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva. Mentre l’esercizio dello ius variandi deve ritenersi consentito quando la domanda di risoluzione e quella di adempimento sono proposte nello stesso giudizio in via subordinata, come è avvenuto nel caso specifico avendo l’Impresa chiesto in principalità la risoluzione e in via subordinata l’adempimento del contratto, allorchè ha domandato che la D’X, in ogni caso, fosse condannata al pagamento dei lavori eseguiti.
Va poi osservato che, secondo costante giurisprudenza (cfr. fra tante: Cass. 11.5.1996, n. 4444; 9.2.1995, n. 1457), il divieto posto dal secondo comma dell’art. 1453 c.c. di chiedere l’adempimento, una volta domandata la risoluzione del contratto, non può essere inteso in senso assoluto, ma è operante soltanto nei limiti in cui esiste l’interesse attuale del contraente, che ha chiesto la risoluzione, alla cessazione del rapporto, per modo che, quando tale interesse viene meno, per essere stata rigettata o dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione, la preclusione non opera, essendo cessata la ragione del divieto. Sotto questo profilo, nel caso specifico, poichè è stata rigettata la domanda di risoluzione, nulla può opporsi alla richiesta dell’Impresa di ottenere l’adempimento del contratto, stante l’indubbio attuale interesse della stessa ad ottenere il pagamento dei lavori eseguiti nell’interesse della D’X.
3. Col terzo motivo, denunciando nullità della sentenza e del procedimento per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1126, in relazione all’art. 2697 c.c., e artt. 112, 113, 114 c.p.c, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia determinato il quantum in via equitativa, facendolo corrispondere all’ammontare dell’intero contributo, senza considerare che l’Impresa aveva fornito soltanto la mano d’opera, mentre la D’X aveva acquistato tutto il materiale.
3.1. Il motivo è infondato.
Ai fini della liquidazione equitativa, ex art. 1126 c.c., cui è consentito ricorrere nel caso in cui non sussistono elementi utili e sufficienti per la sua determinazione, il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità tra ciascuno degli elementi di fatto esaminati e l’ammontare del pregiudizio economico liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. 2.12.1998, n. 12237).
Così come è avvenuto nel caso specifico. Invero, la Corte d’appello ha dato congrua ragione del processo logico attraverso il quale è pervenuta alla liquidazione del quantum debeatur, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo, allorchè ha fatto riferimento sia alla complessiva situazione processuale sia all’interrogatorio reso dalle parti, dal quale emergeva che le stesse avevano pattuito che i lavori sarebbero stati compensati con un importo corrispondente al contributo pubblico.
In base alle considerazioni svolte, il ricorso va rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.600,00, di cui Euro 1.500,00 per onorario, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 2 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-12-2010) 19-01-2011, n. 1553 Correzione di errori materiali

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con provvedimento in data 18 settembre 2009, il G.I.P. presso il Tribunale di Roma procedeva, quale giudice dell’esecuzione e su istanza di parte, alla correzione di errore materiale relativamente alla sentenza di condanna, emessa in data 24 giugno 2009, nei confronti di P.P. in quanto mancante, nella parte riproducente il dispositivo, della somma liquidata quale provvisionale in favore della parte civile.

Il Giudice dava atto che l’omissione era frutto di mero errore materiale desumibile dal confronto con gli altri atti del procedimento e, segnatamente, con il dispositivo letto in udienza ed il corpo della motivazione.

Disponeva, di conseguenza la correzione della predetta sentenza.

Avverso il provvedimento il P. proponeva ricorso per cassazione lamentando che il Giudice non aveva utilizzato la particolare procedura di cui all’art. 130 c.p.p..

Il ricorso veniva accolto e, con pronuncia in data 21 aprile 2010, il provvedimento veniva annullato con rinvio al Tribunale di Roma.

Instauratosi, di conseguenza, il procedimento di cui all’art. 130 c.p.p. innanzi al G.I.P. di Roma, questi, con provvedimento in data 30 giugno 2010, ritenuto che, in base al combinato disposto degli artt. 130 e 619 c.p.p. il giudice competente ad effettuare la correzione fosse quello dell’impugnazione, dichiarava la propria incompetenza disponendo la trasmissione degli atti a questa Corte.

Il giudice di merito ha correttamente declinato la propria competenza in quanto, all’odierna udienza, questa Sezione ha separatamente giudicato sul ricorso del P., rigettandolo.

Rilevato che il ricorso non è stato dichiarato inammissibile, può quindi disporsi la richiesta correzione di errore materiale trattandosi di mero lapsus calami emendabile con la relativa procedura.

P.Q.M.

Dispone la correzione dell’errore materiale relativamente alla sentenza di condanna n. 1547/09 emessa dal G.I.P. del Tribunale di Roma il 24/6/2009 nei confronti di P.P. mediante inserimento nel dispositivo, dopo le parole "giudice civile competente" delle parole "lo condanna al pagamento della somma di Euro 70.000 che liquida a titolo di provvisionale che dichiara immediatamente esecutiva".

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-01-2011) 04-02-2011, n. 4428

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza indicata in epigrafe il G.I.P. del Tribunale di Verbania dichiarava ai sensi dell’art. 425 c.p.p., n.l.p. nei confronti di P.G. e Pa.Ma. in ordine al reato di falsa testimonianza loro rispettivamente ascritto ex art. 372 c.p..

Si contestava ai predetti di avere deponendo come testimoni davanti al Giudice di Pace di Domodossola nel procedimento n. 104/05 R.G. affermato il falso, dichiarando contrariamente al vero il primo che il giorno (OMISSIS) dalle ore 13,30 e alle ore 21 I. A. era stata sua ospite in località Muraccio di Domodossola, il secondo di essere stato a Milano con R.M. e R. S. il giorno (OMISSIS), allo scopo di fornire un alibi ai predetti.

A sostegno della decisione assunta il G.I.P. osservava che la deposizione del Pa. trovava parziale riscontro in quella del teste B.E., mentre le deposizioni contrarie provenivano da Mi.Sa. e M.S., rispettivamente coniuge e fratello della controparte denunciante, così come la deposizione della P., diversamente dalle contrarie dichiarazioni dei testi predetti, erano precise e circostanziate, concludendo che in definitiva, avuto riguardo all’elevato grado di litigiosità tra le parti e alla inconciliabilità tra quanto riferito dai numerosi testi escussi, mancassero i necessari elementi oggettivi utilizzabili al fine di stabilire di dicesse la verità e chi mentisse.

Contro tale decisione insorge la parte civile M.F., che nell’unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento denuncia in una lunga e articolata memoria, che qui si sintetizza, la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sia sotto il profilo della valutazione della prova, censurando il giudice di merito che non aveva indicato quali fossero gli elementi contraddittori acquisiti alle indagini preliminari, confondendo gli elementi di accusa acquisiti dal P.M. con le risultanze del giudizio, nel quale i testi avevano deposto il falso, sia sotto il profilo del malgoverno delle norme, che presidiano la valutazione stessa della prova, ed in particolare quelle attinenti alla utilizzabilità dei mezzi di prova, stigmatizzando l’operato del G.I.P. che aveva utilizzato ai fini della decisione le stesse dichiarazioni degli imputati, nonchè le verbalizzazioni di dichiarazioni, rese da altre persone in diverso procedimento, senza andare alla ricerca della verità e alla verifica degli elementi costitutivi del reato contestato, rifugiandosi in un asserito "elevato livello di litigiosità tra le parti" inconferente ai fini di una adeguata e congrua motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza del reato ascritto agli imputati.

Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza della censura, avendo il G.I.P. dato conto con puntuale e adeguato apparato argomentativi, di cui prima si è fatto cenno, delle ragioni del giudizio negativo sulla sussistenza di significative probabilità di successo dell’ipotesi accusatoria nel giudizio dibattimentale, enunciando gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti a tal fine, sicchè la motivazione non appare sindacabile in sede di controllo di legittimità della sentenza impugnata, anche tenendo conto che la ricorrente si limita sostanzialmente a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale probatorio.

Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-04-2011, n. 7845 Responsabilità civile

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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’8/10/2003 il Tribunale di Perugia condannava i convenuti sig. S.G., società Baldan Auto di Baldan Arrigo & figli s.a.s., società Assicurazioni. Generali s.p.a., nonchè l’interveniente volontario I.N.A.I.L. e la chiamata società Atala Trasporti s.n.c., al pagamento, in via solidale, di somma in favore dell’attore sig. A.A., a titolo di risarcimento dei danni da quest’ultimo subiti all’esito di sinistro stradale avvenuto il (OMISSIS).

Con sentenza del 27/11/2007, nella contumacia dello S. e della società Atala Trasporti s.n.c., in parziale riforma di tale decisione gravata da appello dall’I.N.A.I.L. e dalla società Assicurazioni Generali s.p.a. nonchè, in via incidentale, dalla società Baldan Auto s.r.l. (già Baldan Auto di Baldan Arrigo & figli s.a.s.), la Corte d’Appello di Perugia successivamente rigettava la domanda dell’ A. nei confronti della società Assicurazioni Generali s.p.a., regolando altresì le spese del doppio grado di giudizio.

Avverso la suindicata sentenza della corte di merito la società Baldan Auto s.r.l. propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico, complesso motivo.

Resiste con controricorso l’ A., che propone altresì ricorso indentale tardivo sulla base di 2 motivi.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

Con unico complesso motivo la ricorrente in via principale denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2054, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè contraddittorietà ed illogicità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il motivo è inammissibile, in applicazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 366 bis c.p.c., e art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5.

L’art. 366 bis c.p.c., dispone infatti che nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo deve, a pena di inammissibilità, concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (cfr. Cass., 19/12/2006, n. 27130).

Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede allora che con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere indicato il modo in cui il giudice li ha decisi, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso avrebbe dovuto essere viceversa risolto.

Il quesito di diritto deve essere in particolare specifico e riferibile alla fattispecie (v. Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), risolutivo del punto della controversia – tale non essendo la richiesta di declaratoria di un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità (v. Cass., 3/8/2007, n. 17108)-, e non può con esso invero introdursì un tema nuovo ed estraneo (v.

Cass., 17/7/2007, n. 15949).

Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel. provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, sicchè la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile, non potendo considerarsi in particolare sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di accertamento della sussistenza della violazione di una norma di legge (da ultimo v. Cass., 28/5/2009, n. 12649).

Orbene, nel non osservare i requisiti richiesti dallo schema delineato in giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n.. 2658; Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), il quesito recato dal ricorso risulta formulato in termini difformi dal suindicato schema, non recando la riassuntiva indicazione degli aspetti di fatto rilevanti, del modo in cui i giudici del merito li hanno rispettivamente decisi, nonchè della diversa regola di diritto la cui applicazione avrebbe condotto a diversa decisione, palesandosi invero astratto e generico, sostanziandosi nella richiesta di declaratoria di generico principio di diritto e a tale stregua privo di riferibilità al caso concreto in esame e di decisività tale da consentire, in base alla sua sola lettura (v. Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata, dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonchè di circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che esso debba richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass., 23/6/2008, n. 17064).

L’inidonea formulazione del quesito di diritto equivale invero alla relativa omessa formulazione, in quanto nel dettare una prescrizione di ordine formale la norma incide anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (v. Cass., 7/4/2009, n. 8463; Cass. Sez. un., 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25/11/2008. n. 28054), (anche) in tal caso rimanendo invero vanificata la finalità di consentire a questa Corte il miglior esercizio della funzione nomofilattica sottesa alla disciplina del quesito introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006 (cfr., da ultimo, Cass. Sez. un., 10/9/2009, n. 19444).

La norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., è d’altro canto insuscettibile di essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa, e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, giacchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (v,.

Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).

Tanto più che nel caso il motivo risulta formulato in violazione del principio di autosufficienza, atteso che la ricorrente fa richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso (es., al "contratto di vendita", agli "accordi sussistenti tra la concessionaria e le società addette al trasporto e alla consegna dei veicoli", agli "specifici e precisi accordi in merito alle modalità di scarico delle vetture", agli "elementi probatori" acquisiti nel giudizio di merito).

Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, a completamento della relativa esposizione esso deve indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (art. 366 bis c.p.c.).

Al riguardo, si è precisato che l’art. 366 bis c.p.c., rispetto alla mera illustrazione del motivo impone un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile, ai fini dell’assolvimento del relativo onere essendo pertanto necessario che una parte del medesimo venga a tale indicazione "specificamente destinata" (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002).

Orbene, nel caso il motivo non reca la "chiara indicazione" – nei termini più sopra indicati – delle relative "ragioni", inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica di questa Corte, con interpretazione che si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (cfr. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), e a fortiori non consentita in presenza di formulazione come detto nella specie altresì carente di autosufficienza.

Il motivo si palesa pertanto privo dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

All’inammissibilità del motivo consegue l’inammissibilità del ricorso principale, con conseguente inefficacia del ricorso incidentale tardivo proposto dall’ A. (v. Cass., 28/1/2010, n. 1805. V. anche Cass., 11/6/2008, n. 15483; Cass., Sez. Un., 14/4/2008, n. 9741).

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza in favore del controricorrente A..

Non è viceversa a farsi luogo a provvedimento in ordine alle spese in favore degli altri intimati, non avendo i medesimi svolto attività difensiva.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle; spese del giudizio di cassazione in favore del controricorrente A., che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.