Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-05-2011, n. 10170 Contratto preliminare Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto Interpretazione del contratto complessiva delle clausole

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el ricorso.
Svolgimento del processo

L.G. citò, con atto notificato il 21 giugno 1990, F.A. innanzi al Tribunale di Cagliari, chiedendo che fosse emessa sentenza ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., per il trasferimento, in proprio favore, della proprietà di un terreno agricolo in (OMISSIS), di circa mq 1.800,00, condizionando l’effetto traslativo al pagamento di L. 60 milioni, costituenti il residuo del corrispettivo di L. 80 milioni, pattuito in un precedente preliminare; il convenuto, nel costituirsi, negò che vi fosse stato un contratto preliminare, ammettendo l’esistenza solo di trattative, non andate a buon fine per responsabilità del L. e chiese respingersi la domanda; in sede di precisazione delle conclusioni domandò, nel caso di accoglimento della medesima, che l’attore fosse condannato al versamento di L. 60 milioni, oltre al pagamento degli interessi.

L’adito Tribunale, con sentenza n, 2802/2001, respinse la domanda e compensò le spese, in ragione della mancata raggiunta dimostrazione dell’esistenza e del contenuto del contratto preliminare di cui si era chiesta l’esecuzione.

La Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza n. 74/2005, respinse il gravame del L., regolando di conseguenza le spese; il giudice dell’impugnazione pervenne a tale decisione osservando che, pur essendo stata acquisita la prova – per testimoni e presuntiva- dell’esistenza di un accordo preliminare tra le parti (contenuto in un documento sottratto al L.) tuttavia ritenne che non fosse stata raggiunta la dimostrazione del preciso contenuto dello stesso, al fine di decidere se detto negozio concretizzasse un vero e proprio preliminare di vendita – come sostenuto dal L. – o non piuttosto una mera "puntuazione" dello stato delle trattative intercorse sino a quel momento in ordine alla possibile cessione del terreno – come ritenuto dal F.; giudicò altresì la Corte territoriale che dall’unica testimonianza ritenuta utile ai fini del decidere, non sarebbe emersa la precisa indicazione – catastale e per confini – dell’immobile.

Il L. ha proposto ricorso per la cassazione di tale decisione, articolandolo in un unico motivo illustrato da memoria; il F. non ha svolto difese.
Motivi della decisione

1 – Deduce il ricorrente la violazione dell’art. 2723 c.c., n. 3, art. 2724 cod. civ. nonchè degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. e art. 232 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sostenendo che la Corte territoriale, male interpretando le testimonianze assunte – deposizione di F.J. – e pretermettendo di considerare altri elementi di valutazione – versamento di L. 20 milioni, in contrasto con la natura di accordo di massima o puntuazione della futura manifestazione di vendere; mancata risposta all’interrogatorio formale da parte del F. e mancata produzione di copia dell’accordo contestato; diffida alla stipula da parte del difensore di esso ricorrente; significatività della astensione a deporre da parte dell’avv. Murroni, materiale estensore dell’accordo preliminare, in quanto legale del F. – pur in presenza di precise testimonianze in proposito – teste F.J. – avrebbe ritenuto non provato il contenuto obbligatorio dell’accordo preliminare tra le parti, sostenendo, con affermazione non ancorata alle emergenze di causa, che, potendo l’autonomia privata trovare espressione in una serie di accordi negoziali cospiranti tutti al fine indiretto di disciplinare la volontà di trasferire in futuro la proprietà – accordi di puntuazione; patti di opzione; contratti preliminari – ciascuno di essi avrebbe potuto essere posto in essere tra le parti, senza determinare un contratto preliminare.

2 – Giudica la Corte che la sentenza impugnata non sia incorsa nelle violazioni addotte e che la motivazione posta a base della decisione non sia illogica nè in contrasto con le vane proposizioni della quale si compone, pur con le precisazioni appresso esposte.

2/a – Invero, l’aver ammesso la prova testimoniale sul contenuto del presunto preliminare e la constatazione della risposta positiva della F. circa l’esistenza di un accordo di tal fatta avente ad oggetto un terreno di mq 1.800 in (OMISSIS) – nonchè l’effettuata dazione di L. 20 milioni come acconto – consentiva di ritener dimostrata l’esistenza di un impegno sussumibile nel novero del contratto preliminare, così smentendo le diverse ricostruzioni, meramente congetturali, elaborate dal Giudice dell’appello in merito alla possibile natura dell’accordo percepito dalla teste, e quindi dava esatta applicazione alla norma di eccezione – art. 2724 cod. civ., n. 3 – al divieto di prova testimoniale stabilito dall’art. 2721 cod. civ..

2/b – Tale ammissione e la conseguente deposizione in senso confermativo non determinavano peraltro che dovesse dirsi provato anche il contenuto dell’accordo nella parte in cui – estremi catastali; distacchi dai confini – esplicitava i dati per una sua riproduzione in una sentenza ex art. 2932 cod. civ..

2/c – Quanto poi alla lamentata pretermissione degli elementi valutativi confermativi dell’esistenza di un preliminare, la stessa non rileva atteso che le richiamate circostanze di fatto erano sicuramente asseverative dell’esistenza di un preliminare – data per ammessa secondo quanto più sopra argomentato – ma non certo del contenuto nei termini in precedenza messi in evidenza.

3 – Il ricorso va dunque respinto senza onere di spese, non essendosi costituita la parte risultata vittoriosa.
P.Q.M.

LA CORTE Respinge il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-02-2011) 23-03-2011, n. 11591

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

A.D., tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso il provvedimento, in data 21.4.2010, con cui la Corte d’Appello di Palermo rigettava l’appello proposto avverso il decreto del Tribunale di Palermo, sez. Misure di Prevenzione del 20.2.2009 che aveva disposto la confisca, tra l’altro, delle quote sociali e dell’intero patrimonio degli eredi Vincenzo Aiello s.n.c. ed, in particolare, del 50% delle quote sociali (e del relativo patrimonio) di competenza del ricorrente.

Il ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento impugnato e la restituzione dei beni a lui appartenenti, deducendo:

violazione, erronea applicazione della L. 31 maggio 1965, n. 575, artt. 1 e segg. nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alle allegazioni difensive, da intendersi integralmente richiamate; la Corte d’appello aveva apoditticamente affermato che la società Eredi di Vincenzo Aiello, di cui il ricorrente deteneva il 50% delle quote, fosse nella esclusiva disponibilità di A.E. (sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di anni tre) e che il patrimonio sociale fosse la risultante di un sodalizio instaurato con l’organizzazione mafiosa; alla stregua dei rilievi difensivi, svolti nel procedimento di prime cure, doveva, invece, ritenersi che gli interessi economici di A.D. fossero distinti ed autonomi rispetto a quello riconducibili al fratello, A.E.;

incombeva, peraltro, all’accusa spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia sulla base di elementi fattuali gravi, precisi e concordanti. Il ricorso è manifestamente infondato.

Va, innanzitutto, rilevato che, in materia di misure di prevenzione reali, il giudizio di legittimità della Corte è circoscritto al vizio di violazione di legge o difetto assoluto di motivazione; le doglianze proposte esulano, pertanto, dal sindacato di legittimità, in quanto attinenti ad una valutazione alternativa rispetto a quella del giudice di merito in ordine alla affermata interposizione fittizia del ricorrente nella gestione di quote sociali, ritenute di provenienza illecita e facenti capo al proposto, A.E., sottoposto a misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e già condannato, ex art. 416 bis c.p., per concorso esterno all’associazione mafiosa" Cosa Nostra".

La Corte territoriale ha dato conto degli elementi di prova posti a base della misura patrimoniale in esame, considerato, essenzialmente, l’esito della consulenza contabile in sede penale, con cui era stato accertato che la società dell’ A., a fronte di limitati interventi della finanza bancaria,disponeva di risorse estranee all’attività aziendale, ritenute originate "dall’operare sul mercato di un’impresa a partecipazione mafiosa". Va, peraltro, ribadito l’onere di allegazione,incombente sull’interessato, circa la esclusiva disponibilità dei beni sottoposti a confisca, stante la presunzione, L. n. 575 del 1965, ex art. 2 bis, della loro effettiva disponibilità in testa al proposto,raggiunto da misura di prevenzione personale.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende, somma determinata in via equitativa, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-03-2011) 08-04-2011, n. 14052

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le in persona del Dott. Riello Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 26 ottobre 2009, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa il 12 marzo 2003 dal Tribunale della medesima città nei confronti di A.A. con la quale il medesimo era stato condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 5.000,00 di multa quale imputato del delitto di ricettazione.

Propone ricorso per cassazione personalmente l’imputato il quale lamenta nel primo motivo la nullità della sentenza impugnata in quanto erroneamente recante una imputazione diversa da quella contestatagli. Rinnova, poi, la eccezione concernente la citazione a giudizio in primo grado, in quanto nel rinnovare la citazione stessa, non si è allegato il verbale di udienza, sicchè per la fissazione della nuova data non vi era alcun atto a firma del giudice che l’aveva fissata. Si deduce, infine, la prescrizione del reato avuto riguardo alla pena edittale prevista per il capoverso dell’art. 648 c.p..

Il ricorso è manifestamente inammissibile. Quanto al primo motivo, infatti, la erronea indicazione del capo di imputazione, peraltro del tutto agevolmente verificabile, non integra un vizio della sentenza ma una mera irregolarità formale del tutto insuscettibile di ingenerare, come pretenderebbe il ricorrente, una menomazione del diritto di difesa, trattandosi di sentenza emessa in grado di appello dopo la celebrazione del relativo giudizio. La seconda eccezione è parimenti destituita di fondamento, in quanto la indicazione della nuova udienza, regolarmente disposta dal giudice, è stata effettuata mediante la notifica di un atto recante la sottoscrizione del cancelliere, su disposizione del giudice del giudice competente.

La prescrizione, infine, non è maturata, in quanto, contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, l’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 648 c.p., non è figura autonoma di reato ma semplice circostanza attenuante, che non rileva, dunque, ai fini del computo della prescrizione del reato.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-07-2011, n. 16179

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Poste italiane spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Bari, pubblicata il 29 gennaio 2007, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Foggia aveva accolto l’impugnativa di licenziamento del dipendente P.F..

Il licenziamento del P. traeva origine da un accordo sindacale dell’autunno del 2001 con il quale le parti sociali convennero che Poste, mediante licenziamenti collettivi, avrebbe risolto il rapporto di lavoro di tutto il personale che, alla data del 31 dicembre 2001 e poi del 31 dicembre 2002, avesse conseguito i requisiti per il diritto alla pensione di anzianità o di vecchiaia.

La Corte d’Appello di Bari ha ritenuto che tale opzione negoziale non fosse compatibile con la disciplina dei licenziamenti collettivi che fissa un collegamento inscindibile tra il presupposto della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro e l’individuazione dei lavoratori da estromettere, che deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale.

Poste italiane secondo la Corte non avrebbe potuto procedere al licenziamento allontanando più lavoratori di quanti in concreto risultavano inutilizzabili in azienda e non poteva licenziare lavoratori la cui specializzazione o collocazione non rientravano nel processo di trasformazione del ciclo produttivo. Ha poi precisato che gli altri criteri e i limiti fissati dalla L. n. 221 del 1991, art. 5, direttamente, o dalla contrattazione collettiva, sono destinati ad avere incidenza soltanto ai fini della graduatoria e che la verifica in sede giudiziale, ove richiesta, va condotta tenendo conto del fatto che grava sul datore di lavoro l’onere di provare tutte le componenti della fattispecie risolutoria.

Poste italiane propone cinque motivi di ricorso. P. si difende con controricorso. Poste ha depositato una memoria.

Con il primo motivo Poste italiane denunzia violazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, nonchè vizio di motivazione con riferimento alla pretesa incompletezza della comunicazione di avvio della procedura.

Nella esposizione si assume che la Corte d’Appello avrebbe dato una lettura eccessivamente formalistica del comma 3, dell’art. 4, che fissa il contenuto della comunicazione iniziale, trascurando il carattere atecnico dell’espressione profilo professionale.

Con la seconda censura del primo motivo ci si occupa del rapporto tra comunicazione iniziale e accordo sindacale asserendo che questo non può avere valore sanante, ma tuttavia può rilevare per apprezzare l’adeguatezza della comunicazione.

Il motivo è privo di quesito di diritto, richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 bis cod. proc. civ..

Quanto al vizio di motivazione non viene indicato il fatto oggetto del vizio, nè tanto meno viene spiegato perchè lo stesso è decisivo e controverso, come invece impone l’art. 360 cod. proc. civ., n. 5.

Il motivo, pertanto, è inammissibile.

Con il secondo motivo si denunzia un vizio così definito: "erronea ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia". Il fatto controverso sarebbe "la incidenza della pretesa incompletezza della comunicazione di avvio della procedura prevista dall’art. 4, comma 3, sulla capacità di valutazione del sindacato".

Questo non è un fatto, ma una valutazione del giudice, peraltro suffragata da una spiegazione che non può dirsi certo tautologica e che, corretta sul piano giuridico, risulta anche completa ed esauriente per quanto attiene al merito.

Con il terzo motivo si denunzia violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, nonchè insufficiente o contraddittoria motivazione.

Anche questo motivo è privo di quesito di diritto.

Quanto al vizio di motivazione il fatto viene così indicato:

determinazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità e individuazione dei settori aziendali interessati dalla procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4. Anche questo non è un fatto, ma una questione giuridica di interpretazione della legge.

Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 39 Cost., comma 1 e art. 41 Cost., nonchè insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Anche la pretesa violazione delle due norme costituzionali è priva di quesito di diritto ed il vizio motivazionale è privo della indicazione del fatto controverso e decisivo.

Con il quinto motivo si denunzia violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 24 e vizio di motivazione La violazione di legge viene specificata in relazione al "profilo di un erroneo appiattimento del profilo causale del licenziamento collettivo sulla dichiarazione datoriale degli esuberi senza alcuna considerazione dei reali e dichiarati profili finalistici della procedura".

Il motivo si conclude con due quesiti di diritto, il secondo non pertinente all’esposizione, il primo non comprensibile in quanto articolato in due parti non correlate tra loro (la prima palesemente incompleta).

In conclusione, tutti i motivi di ricorso sono inammissibili per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile alla controversia in esame in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata il 29 gennaio 2007. Le spese devono essere poste a carico della parte soccombente.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione alla controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00, nonchè Euro 4.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.