Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-11-2011, n. 25597 Costruzioni fronteggianti vie e piazze pubbliche

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Viterbo, con sentenza n. 352/01, rigettava la domanda proposta dalla società Autostrade s.p.a. nei confronti di C. M., diretta all’arretramento – fino alla distanza dal ciglio stradale prescritta dalla legge – del manufatto (capannone ad uso agricolo), realizzato dal convenuto sul fondo di sua proprietà in prossimità del casello autostradale – stazione di (OMISSIS).

Il Tribunale riteneva che il manufatto ricadeva all’interno della perimetrazione del centro abitato del Comune di Orte, con conseguente inapplicabilità della normativa di cui alla L. n. 765 del 1967 e del decreto n. 1404 del 1968.

Con sentenza dep. il 20 luglio 2005 la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione impugnata dal convenuto, al quale erano subentrati gli eredi P.M.G., C.P. e C.B., accoglieva la domanda proposta dalla società Autostrade s.p.a.

Secondo i Giudici la perimetrazione urbana non è un mero dato di fatto, desumibile dall’avanzare delle costruzioni ad uso abitativo, ma implica un provvedimento della amministrazione comunale, che nella specie non risultava adottato. In effetti, il manufatto in questione non ricadeva all’interno del perimetro urbano del Comune di Orte in quanto era stato edificato era stato dal convenuto sulla particella 53 fol. 39 che era ubicata nella zona E1 classificata come agricola nel vigente strumento urbanistico.

Poichè andava applicata la normativa di cui agli artt. 1-4 del decreto n. 1404 del 1968 la distanza prescritta era di 60 metri a partire dal ciglio stradale, dovendo aggiungersi la larghezza dovuta alla proiezione di eventuali scarpate, fossi e di fasce di espropriazione risultanti da progetti approvati che costituiscono quindi punto di partenza per la misurazione edificato. Essendo incontestato che la fascia di espropriazione coincideva con l’area della recinzione autostradale, non risultava la distanza prescritta di metri 60, posto che l’opera si trovava a metri 17,80 dalla predetta recinzione.

Le spese del doppio grado di giudizio erano poste a carico degli appellati, senza che peraltro in esse si facesse menzione di quelle relative alla consulenza tecnica d’ufficio.

2. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione P.M.G., C.P. e C.B. sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la società Autostrade s.p.a. per l’Italia che propone ricorso incidentale affidato a un unico motivo.

Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perchè sono stati proposti avverso la stessa sentenza.

1.1. Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione del decreto n. 1404 del 1968 nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, deducono che il manufatto in oggetto trovasi nel centro abitato, secondo quanto era risultato dalla consulenza tecnica d’ufficio e dalla documentazione allegata, non potendo, perciò, trovare applicazione l’art. 4 del citato decreto del 1968.

Censurano la sentenza impugnata laddove aveva affermato che il manufatto in questione non ricadeva all’interno del perimetro urbano del Comune di Orte, atteso che la norma in questione fa riferimento al centro abitato e non al perimetro urbano.

1.2. Il motivo è infondato.

Occorre considerare che, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, la perimetrazione del centro abitato non è un dato di fatto, tenuto conto che, ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies peraltro ora abrogato ai sensi del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 136 (testo unico dell’edilizia), nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici la individuazione doveva essere effettuata con delibera consiliare.

Peraltro, nella specie in cui il Comune di Orte è dotato di strumento urbanistico, la sentenza ha compiuto l’accertamento alla stregua della classificazione della zona in cui è ubicato l’immobile, avendo verificato che lo stesso ricade in zona E1 (destinazione agricola) del P.R.G. e in tal modo ha logicamente ritenuto che lo stesso ricade in area esterna al centro abitato, al quale ha evidentemente inteso riferirsi quando ha impropriamente fatto cenno alla perimetrazione urbana.

2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione del decreto n. 1404 del 1968 nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione sul limite di partenza della pretesa fascia di rispetto, censurano la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto che era incontestato che la fascia di espropriazione coincideva con l’area della recinzione autostradale, tenuto conto che la società attrice non aveva offerto la prova di tale circostanza, sempre contestata dai ricorrenti a stregua di quanto risultava dedotto con la memoria di replica depositata dinanzi al Tribunale e con quella depositata dinanzi alla Corte di appello: pertanto, la misurazione di metri 60 dalla recinzione della proprietà autostradale anzichè dal ciglio autostradale era illegittima perchè basata su un presupposto erroneo.

2.2. Il motivo va disatteso.

In primo luogo va rilevato il difetto di autosufficienza del motivo laddove non trascrive il contenuto delle memorie alle quali fa riferimento, così da non consentire alla Corte di Cassazione, che non ha accesso diretto agli atti del processo, di verificare la fondatezza o mento della doglianza.

D’altra parte, va osservato che qualora con il ricorso per cassazione si deduca che il giudice, nell’esaminare la domanda, abbia erroneamente ritenuto non controverso un fatto che invece era da considerare contestato, è incensurabile in sede di legittimità il travisamento delle risultanze processuali eventualmente suscettibile, ricorrendone le condizioni previste dall’art. 395 c.p.c., n. 4, del rimedio revocatorio – mentre l’erronea interpretazione degli atti processuali, compiuta nell’ambito dell’indagine di fatto riservata al giudice di merito, può essere dedotta in cassazione come vizio di motivazione o sotto l’aspetto della violazione delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362-1365 cod. civ. che, pure essendo dettate in materia di contratto, hanno portata generale. Il ricorso principale va rigettato.

Deve, invece, essere accolto il ricorso incidentale, con il quale la resistente lamenta che, nel liquidare le spese processuali a carico degli appellatala sentenza impugnata aveva omesso di porre a carico dei medesimi le spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio liquidate dal giudice di merito e provvisoriamente poste a carico dell’attrice (circostanza, quest’ultima, peraltro non contestata da controparte che con la memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ. si è limitata a chiedere il rigetto del ricorso incidentale).

Relativamente e limitatamente alla omessa statuizione da parte dei Giudici di appello circa il regolamento delle spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio, la sentenza va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa deve essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 cod. proc. Civ.: le predette spese vanno poste definitivamente a carico degli attuali ricorrenti principali che devono essere condannati a rimborsarle all’attrice che l’abbia anticipate, dovendo invece, ai sensi dell’art. 336 cod. proc. civ. (la cassazione anche parziale della sentenza travolge il regolamento delle spese processuali), statuirsi che il regolamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio avvenga in conformità di quanto liquidato dalla Corte di appello a favore della società convenuta.

Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti principali, risultati soccombenti.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale accoglie l’incidentale, cassa le sentenza impugnata in relazione al ricorso incidentale e, decidendo nel merito, pone le spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio definitivamente a carico dei ricorrenti principali che condanna in solido a rimborsare alla società Autostrade per l’Italia s.p.a. se da questa anticipate;

Condanna, altresì, i ricorrenti in solido al pagamento in favore della resistente delle spese del doppio grado del giudizio di merito secondo la liquidazione compiuta dalla sentenza impugnata.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore della resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per onorar di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-12-2011, n. 27403 Regolamento delle spese compensazione parziale o totale

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Svolgimento del processo

che con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta dalla parte privata contro l’Amministrazione della scuola ed intesa all’accertamento dell’integrale anzianità di servizio maturata alle dipendenze dell’ente locale prima del trasferimento all’Amministrazione statale;

che la Corte compensava le spese di entrambi i gradi di giudizio;

che contro la sentenza la soccombente propone ricorso per cassazione, a cui resiste l’intimato con controricorso.

Motivi della decisione

che col primo motivo la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 324 cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello compensato le spese del primo grado di giudizio, senza che la controparte avesse impugnato la decisione di condanna, emessa dal Tribunale;

che col secondo motivo essa prospetta la medesima censura sotto il profilo della violazione del divieto di ultrapetizione, contenuto nell’art. 112 cod. proc. civ.;

che i due connessi motivi sono privi di fondamento;

che infatti la Corte di merito ha interpretato l’espressione "rifusione di spese, diritti ed onorari del presente giudizio" contenuta nell’atto di appello, come riferita all’intero processo di merito, nel quale l’appellante è risultato in definitiva vincitore;

che quest’interpretazione è esatta poichè il giudice d’appello, quando riformi la sentenza impugnata, deve procedere, comunque siano formulate le richieste di parte, ad un nuovo regolamento delle spese processuali (Cass. 22 dicembre 2009 n. 26985, 30 agosto 2010 n. 18837);

che per questa fase di cassazione le spese possono essere compensate, in deroga al criterio della soccombenza, poichè il controricorso si riferisce a questioni diverse da quella sollevata dalla ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 31-05-2011) 12-08-2011, n.Detenzione, spaccio, cessione, acquisto 32103

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con ordinanza del 23 ottobre 2010, il GIP del Tribunale di Catanzaro disponeva la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di P.G., indagata per il reato di cui agli artt. 81 cpv. 110 e 73 Legge sugli Stupefacenti.

Pronunciando sulla richiesta di riesame avverso l’anzidetta ordinanza, il Tribunale di Catanzaro, in funzione di giudice del riesame, rigettava l’istanza confermando l’impugnato titolo custodiale.

Avverso la pronuncia anzidetta i difensori dell’indagata hanno proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di seguito indicate.

2. – Con il primo motivo d’impugnazione parte ricorrente deduce inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), e dell’art. 292, comma 2, lett. c) del codice di rito.

Con il secondo motivo denuncia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità di motivazione con riferimento alla valutazione delle esigenze cautelari. Con il terzo deduce inosservanza od erronea applicazione delle norme penali e di altre norme integrative, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), e violazione degli artt. 273, 274 e 133 c.p.p., in relazione alla valutazione delle esigenze cautelari, con riferimento al paventato pericolo di recidiva.

3. – Le tre censure possono essere congiuntamente esaminate, in quanto concernono -sia pure sotto diverse angolazioni prospettiche – lo stesso profilo delle esigenze cautelari.

Sono tutte destituite di fondamento.

Lo è la prima, che riguarda il mancato rilievo della nullità del titolo custodiale per omessa indicazione delle esigenze cautelari, specie in rapporto al tempo del commesso reato. Ed infatti, il giudice del riesame ha espressamente dato atto della compiuta valutazione in merito a sussistenza ed idoneità del quadro cautelare prospettato nell’ordinanza impugnata. Non ha mancato di considerare anche il tempo del commesso reato, che si era sostanziato di plurime cessioni di stupefacente, pure di tipo eroina e cocaina, protratte sino all’ottobre 2009, dunque sino a data relativamente vicina a quella del titolo custodiale (23.10.2010).

Non è neppure vero che sia ravvisabile mancanza od insufficienza di motivazione sulle anzidette esigenze di cautela, segnatamente in ordine al pericolo di recidiva. Con motivazione compiuta e pertinente, il giudice del riesame ha, infatti, indicato le ragioni – connesse specialmente alla valutazione della personalità, desunta dall’entità e pluralità delle cessioni e dagli abituali collegamenti con ambienti delinquenziali, oltre che dal certificato del casellario giudiziario – che, deponendo per una particolare proclività delinquenziale, imponevano il regime di custodia cautelare in carcere, rendendo inadeguata ogni altra, meno affittiva, misura.

4. – Per tutto quanto precede, il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria di provvedere alle comunicazioni di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-01-2012, n. 1405 Controversie di lavoro

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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 3.7.2007, rigettava l’appello proposto dalla società Pezzol s.r.l. avverso la decisione del giudice di primo grado, che aveva accolto la domanda di C. L. avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società suindicata in data 7.11.2002 e, per l’effetto, disposto la reintegrazione dell’appellato nel posto di lavoro, condannando la società al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Rilevava la Corte territoriale che gravava sulla società Pezzol l’onere di provare le modalità del fatto ascritto al C., e cioè l’appropriazione furtiva, nonchè il suo oggetto (scatoloni da imballaggio aziendali, nuovi di fabbrica), e che dalle prove espletate era emerso pacificamente che il lavoratore avesse portato fuori dall’azienda alcuni fogli di cartone, ma non anche che si trattasse di scatoloni da imballaggio aziendali nuovi di fabbrica, avendo i testi escussi dichiarato che il materiale asportato non era adoperato per la lavorazione od utilizzato per il confezionamento dei prodotti, ma era solo di risulta, destinato ad essere gettato o poggiato sotto i macchinari ad iniziativa degli stessi operai per non sporcare i pavimento. Peraltro, dei cartoni il C. si era appropriato non in modo furtivo, ma con la collaborazione di un collega di lavoro, al termine del turno di lavoro, ed inoltre il lavoratore non aveva mai subito rilievi di natura disciplinare in passato. Osservava, poi, la Corte territoriale che, anche in presenza di clausole della contrattazione collettiva che prevedano, per specifiche inadempienze del lavoratore, la sanzione del licenziamento (nello specifico art. 71, lett. b CCNL "per il furto e il danneggiamento volontario di beni aziendali"), il giudice deve accertare in concreto la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate, nonchè il rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione. Non poteva, infine, ritenersi fondata, per mancanza di prova da parte del datore, la censura relativa all’entità del risarcimento, che, secondo la società, era da contenere nella misura minima di legge per non avere il lavoratore usato l’ordinaria diligenza nel ridurre l’entità del pregiudizio, attivandosi in modo adeguato per rinvenire una nuova occupazione.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società Pezzol, con quattro motivi. Resiste il C. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2730, 2735 e 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, assumendo la contraddittorietà della motivazione laddove, pur avendo sostenuto come pacifica la circostanza dell’avere il C. portato via alcuni fogli di cartone, afferma poi che non era stato provato l’oggetto dell’appropriazione. Riporta deposizioni dei testi che confermerebbero che gli stessi non erano stati presenti ai fatti e rileva che il C. aveva confessato di essersi appropriato di alcuni fogli per salvaguardare la moquette del bagagliaio della sua auto e che, comunque, la circostanza che detti fogli fossero o meno nuovi di fabbrica non assumesse rilevanza ai fini della valutazione della gravità della condotta. Formula quesiti riferiti all’onere della prova circa la qualità e destinazione dei fogli di carta, da considerare materiale di risulta o meno, e sulla possibilità di conferire rilievo a testimonianze rese de relato.

Con il secondo motivo, la ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione del c.c.n.l. del 27.4.2000 per gli addetti all’industria calzaturiera e del codice disciplinare aziendale e dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè dell’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Rileva che il furto ed il danneggiamento volontario di beni aziendali era condotta contemplata dal codice disciplinare quale giustificativa della sanzione espulsiva e che, quindi, la valutazione di tale comportamento come illecito disciplinare meritevole di licenziamento era stata già compiuta autonomamente in sede collettiva, con necessità per il giudice di adeguarsi alla stessa. Anche in relazione a tale motivo formula corrispondenti quesiti, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il terzo motivo, denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. ed L. n. 604 del 1966, art. 1, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omessa insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Evidenzia che le circostanze valorizzate dalla Corte d’appello non trovano riscontro negli atti processuali e non rappresentano elementi costitutivi del reato di furto, ma, al più, identificano le aggravanti del delitto in questione e pone quesiti, con i quali domanda se l’appropriazione abusiva di beni aziendali per farne uso personale concretizzi una condotta lesiva degli obblighi di diligenza e fedeltà e se tale condotta rientri nell’ipotesi di cui all’art. 624 c.p. e sia di per sè idonea a ledere il vincolo fiduciario, indipendentemente dal valore dei beni aziendali sottratti; se la sanzione del licenziamento sia proporzionata, specie se l’autore si sia reso responsabile di precedente addebito e se sia congrua una motivazione che si fondi su elementi che non trovano riscontro negli atti processuali, nonchè sulla correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, avendo omesso il giudice del merito di rispettare i criteri e principi dell’ordinamento generale (principi di cui agli artt. 4 e 41 Cost.) del c.c.n.l. di categoria e del codice disciplinare, ribadendo che la gravità dell’inadempimento prescinde dal numero degli illeciti.

Infine, con il quarto motivo, lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1227 e 2729 c.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rilevando che non ha tenuto conto la Corte territoriale dei dettami di cui all’art. 1227 c.c. e domandando se, in tema di liquidazione del danno, trovano ingresso i principi di graduazione della responsabilità e, in particolare, l’art. 1218 c.c., art. 1225 c.c. art. 1227 c.c. e se il giudice può conferire rilievo alla deduzione, da parte del datore, del concorso del fatto colposo del lavoratore o della colpevole astensione di questi da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del pregiudizio arrecato.

Il ricorso è infondato e come tale va respinto.

In merito alla doglianza espressa con il primo motivo di ricorso, deve osservarsi che non si contesta la valutazione compiuta circa l’attendibilità dei testi ritenuti favorevoli al lavoratore che avevano indicato quale oggetto di appropriazione da parte del predetto cartoni inutilizzabili e destinati a rifiuti (diverso da quello indicato nella lettera di contestazione) e che le censure sollecitano una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, tenuto conto del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’"iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle vantazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia richiamata.

Il secondo motivo va anch’esso disatteso, sulla base della considerazione che i principi posti dalla ricorrente a sostegno della censura sono smentiti da quanto affermato da numerose decisioni di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. 14.2.2005 n. 2906, Cass. 18.2.2011 n. 4060), in tema di licenziamento, che hanno sancito che la nozione di giusta causa è nozione legale e che il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi. Nelle indicate pronunce è stato anche osservato che ciò non esclude che il giudice possa fare riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità, aggiungendosi che il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, e che il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. sent. Cass cit.).

Quanto al principio di proporzionalità, deve richiamarsi ulteriore pronunzia di questa Corte, che ha affermato il principio secondo cui spetta al giudice del merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (cfr., in tal senso, Cass. 19 ottobre 2007 n. 21965). Da tale insegnamento discende la correttezza dell’esame della complessiva vicenda fattuale compiuta dal giudice del merito e la incapacità delle denunzie motivazionali dedotte a porre in evidenza vizi che comportino la cassazione della pronunzia impugnata. In ogni caso, il motivo sarebbe anche improcedibile in relazione alla deduzione di violazione di norme contrattuali, atteso che in base a giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass. sez. lav., 11.2.2008 n. 6432, Cass. sez, lav., 5.2.2009 n. 2855, Cass. sez. lav., 2.7.2009 n. 15495) è necessario il deposito del testo integrale de contratto, in forza del dettato letterale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), il quale prevede che gli atti processuali, i documenti e i contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda devono essere depositati insieme al ricorso a pena di improcedibilità, norma che non sembra prevedere deroghe, consentendo il deposito solo di stralci del contratto collettivo da interpretare.

Il terzo motivo si incentra sulla dedotta valorizzazione, da parte della Corte territoriale, di elementi privi di riscontro negli atti processuali e, comunque, irrilevanti ai fini della valutazione della idoneità dei fatti a ledere il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto, ma la genericità e reiterazione di profili già evidenziati nei precedenti motivi si riflette nella genericità anche dei quesiti formulati, che non indicano la regala iuris violata e quella diversa ritenuta applicabile in riferimento allo specifico oggetto della controversia e comportano l’inammissibilità del relativo motivo di impugnazione anche in ragione della considerazione che, non avendo riguardo specificamente alle argomentazioni sviluppate ed essendo del tutto astratti, si rivelano privi di ogni riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dal giudice del merito nel caso concreto esaminato (cfr., ad es., Cass S. U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658).

Infine, con riguardo all’ultimo dei motivi, ugualmente i quesiti si connotano in termini di genericità per le considerazioni svolte con riferimento al precedente motivo, in quanto gli stessi per come formulati dalla società appaiono in buona sostanza estranei alla esposizione della censura e comunque astratti, sì che devono ritenersi inesistenti, con conseguente inammissibilità del motivo, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass 10.1.2011 n. 325).

Alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso va complessivamente respinto e le spese di lite del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico della società, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento, in favore del C., delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 4000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 7 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.