Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-05-2011) 25-07-2011, n. 29784

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.F.S. è chiamato a rispondere di tre furti commessi nel mese di (OMISSIS).

Il primo il (OMISSIS) in danno di un medico, aggravato dall’effrazione della porta dello studio.

Beni asportati: timbri, ricettari, materiale medico/chirurgico.

Il secondo il (OMISSIS), in concorso, aggravato dalla destrezza, in un supermercato. Beni sottratti: due pacchetti di liquirizia, un grimaldello levachiodi, tre confezioni di gel per i capelli.

Il terzo furto, in abitazione, il (OMISSIS), con sottrazione di un PC portatile, una play station portile, dei videogiochi.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, sez. Minori, con sentenza 4-3- 2010, confermava l’affermazione di responsabilità di cui a sentenza del tribunale per i minorenni di quella città in funzione di GUP, in data 8-7-2009, riducendo la pena ad anni uno e mesi due di reclusione ed Euro 600 di multa.

Ricorre C. per il tramite del difensore, avv. Vincenzo Nobile, con quattro motivi.

1) Violazione di norme stabilite a pena di inutilizzabilità e vizio di motivazione. La corte territoriale, investita della doglianza di inutilizzabilità degli interrogatori resi dall’imputato in fase di indagini preliminari, l’ha ritenuta infondata, omettendo qualunque motivazione al riguardo. Le dichiarazioni rese nel procedimento relativo al furto del 14 novembre (supermercato) erano state assunte senza l’assistenza del genitore esercente la potestà, e senza la presenza del difensore, nonchè senza gli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p., l’interrogatorio reso relativamente agli altri due fatti ( (OMISSIS)), senza l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 64 c.p.p., comma 3, lett. a) e b).

2) Violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il ritrovamento della refurtiva in possesso di C., ad una certa distanza di tempo dalla sottrazione, non consentiva di escludere l’incauto acquisto oppure la ricettazione.

3) Violazione di norme stabilite a pena di nullità o inutilizzabilità e vizio di motivazione. Trattandosi di furto di generi alimentari di irrilevante valore e di istantaneo consumo, la corte d’appello avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali non aveva riconosciuto la tenuità del fatto emettendo sentenza di non luogo a procedere per l’irrilevanza del fatto.

Si chiede quindi l’annullamento della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e va disatteso.

1) Con ragione la corte territoriale ha rigettato l’eccezione di inutilizzabilità degli interrogatori resi dall’imputato in quanto, come l’esame degli atti conferma, in relazione al furto nel supermercato furono rese spontanee dichiarazioni ex art. 350 c.p.p., comma 7, che, recepite nell’annotazione 14-11-2007 della Polizia di Stato di Siderno, sono utilizzabili nel giudizio abbreviato in virtù di costante giurisprudenza di questa corte (Cass. 18064/2010), mentre il verbale dell’interrogatorio del 27-2-2008, relativo agli altri due fatti, reca puntualmente, nella parte prestampata, l’enunciazione degli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p..

2) La questione della qualificabilità del fatto, poi, che, per quanto non sollevata con i motivi di appello, va comunque esaminata, appare priva di fondamento alla stregua delle dichiarazioni dello stesso C., confesso in ordine ai furti.

3) La terza questione, mentre, contrariamente alla prospettazione del ricorrente, non involge l’esame di norme stabilite a pena di nullità assoluta o inutilizzabilità, non è stata oggetto dei motivi di appello ed è comunque infondata in quanto i beni sottratti, esulano, in grande maggioranza, da concetto di generi alimentari di irrilevante valore e di istantaneo consumo, comprendendo, al contrario, materiale medico-chirurgico, una play station, gel per capelli, un PC portatile, dei videogiochi.

Segue il rigetto del ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Dispone l’oscuramento dei dati identificativi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 16-09-2011, n. 5168 Contratto di appalto

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. E’ impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Campania 19 marzo 2008 n. 1807 che ha respinto la richiesta risarcitoria proposta dalla odierna appellante S. T. s.r.l. in via consequenziale rispetto all’annullamento giurisdizionale (disposto con sentenza dello stesso Tribunale amministrativo 4 marzo 2005 n. 1608) dell’atto di esclusione di essa ricorrente dalla gara d’appalto bandita dalla C. s.r.l. per l’affidamento dell’indagine per il calcolo del numero dei viaggiatori delle linee della ferrovia C. nonché della stima degli elementi caratterizzanti il trasporto ed il monitoraggio della customer satisfation. A base dell’esclusione la stazione appaltante aveva posto la circostanza che la società appellante aveva proposto istanza di partecipazione alla gara in raggruppamento ancora da costituire con Adacta s.r.l..

Con detta sentenza (confermata dal Consiglio di Stato con decisione del 9 maggio 2006, n. 2556) quel giudice ha ritenuto illegittima l’esclusione, dichiarando tuttavia inammissibile la consequenziale domanda risarcitoria perché proposta per la prima volta in comparsa conclusiva, non ritualmente notificata.

2. A seguito della nuova domanda risarcitoria proposta con autonomo ricorso, lo stesso Tribunale amministrativo ha reso la sentenza qui impugnata, con la quale ha rilevato la carenza probatoria della domanda risarcitoria, sotto il profilo che la società ricorrente non aveva dimostrato di poter restare aggiudicataria dell’appalto e che, in ogni caso, non era stata provata neppure la perdita di chance (per tale dovendosi intendere necessariamente una chance superiore al 50%).

Tale sentenza è stata impugnata con l’appello in esame, con il quale la società ricorrente, nel rilevare l’erroneità della gravata decisione reiettiva, insiste nel ritenere provata in tutti gli elementi la domanda di risarcimento dei danni, quantomeno sotto il profilo della perdita di chance di aggiudicazione cui la illegittima esclusione dalla gara in oggetto avrebbe dato luogo.

Si è costituita la appellata società per resistere all’appello e per chiederne la reiezione.

All’udienza del 19 luglio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

3. L’appello è fondato e va accolto per quanto di ragione.

E’ evidente anzitutto che, essendo stata già esperita la gara ed integralmente eseguito il contratto stipulato con l’aggiudicataria, la violazione dell’interesse (partecipativo) della ricorrente potrebbe trovare riparazione soltanto per equivalente, e non più in forma specifica.

Nel merito, il Collegio non condivide le conclusioni negative cui è giunto il giudice di primo grado circa la possibilità di accordare in concreto, per ritenuta carenza probatoria della domanda, una riparazione patrimoniale alla ricorrente.

3.1 Va premesso che, circa la natura della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati per effetto dell’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, la qualificazione che qui appare preferibile è – in considerazione della circostanza che sono state violate norme generali dell’azione amministrativa, piuttosto che regole poste dalla lex specialis della gara – quella della responsabilità aquiliana, in ragione della maggiore coerenza della struttura, oltre che delle regole di accertamento, dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della condotta amministrativa lesiva, per dette ragioni, di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela (cfr. Cons. Stato, VI, 20 gennaio 2009, n. 242; IV, 3 marzo 2009, n. 1206; V, 20 ottobre 2008 n. 5124; IV, 29 luglio 2008 n. 3723; VI, 19 giugno 2008 n. 3059; IV, 10 agosto 2007, n. 4401; VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; 9 marzo 2007 n. 1114; IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500), in specie in caso di annullamento dell’aggiudicazione di un pubblico appalto (Cons. Stato, VI, 3 aprile 2007, n. 1513). Viene infatti in rilievo non tanto la violazione delle specifiche regole di correttezza o di condotta valevoli solo tra le parti ormai in concreto contatto a tutela della reciproca posizione, quanto, prima ancora, la violazione di norme imperative o di principi generali valevoli di loro ed erga omnes, espressivi di regole generali di comportamento dell’amministrazione pubblica poste dalla legge a tutela indifferenziata di interessi pubblici e in genere di tutti i particolari, indipendentemente e prima della concretezza del singolo rapporto instaurato con la domanda di partecipazione ad un procedimento: vale a dire, prima delle regole specifiche e relative del singolo rapporto procedimentale, rileva la violazione del precetto, generale e assoluto, del neminem laedere.

Questa violazione è sufficiente a qualificare coma ingiusto, a termini dell’art. 2043 Cod. civ., il danno patito dalla società, senza dover invocare la più intensa (ad es. per durata del termine di prescrizione o per onere della prova circa la colpa) tutela risarcitoria, propria dei rapporti relativi (ex art. 1218 Cod. civ.), come sarebbe se la fonte dell’illegittimità fosse la violazione delle norme della singola gara.

Un tale tipo di violazione può, al contempo, esser causa non solo dell’illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, ma anche dell’ingiustizia del conseguente danno patito da chi ha subito la lesione del proprio interesse pretensivo all’aggiudicazione di una gara, con la conseguenza di una possibile responsabilità, appunto extracontrattuale, dell’amministrazione.

3.2 Nel caso in esame è conclamata, per quanto detto in fatto e definita dal giudicato di annullamento, l’illegittimità del provvedimento di esclusione della ricorrente dalla gara d’appalto indicata. E’ altresì acclarato che tale esclusione è stata disposta mediante una violazione grave delle regole partecipative poste in base alla normativa comunitaria e nazionale sui contratti pubblici, giacché il conferimento del mandato collettivo speciale con rappresentanza ad una delle imprese riunite doveva ritenersi elemento sufficiente (ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 17 marzo 1995, n. 158 di attuazione delle direttive 90/531/CEE e 93/38/CEE sulle procedure di appalti nei settori esclusi) a garantire la partecipazione alla gara del costituendo organismo plurisoggettivo, senza che in contrario valesse la riserva di costituzione dell’associazione soltanto in caso di aggiudicazione (Cons. Stato, VI, 9 maggio 2006 n. 2556).

Sul piano dell’imputabilità della violazione va ribadito, anche sulla base dei richiamati precedenti giurisprudenziali, che – nonostante la natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione – non è richiesto al danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo l’adempimento ad un particolare onere probatorio circa la colpa dell’amministrazione medesima. Infatti, anche se non è configurabile una qualche generalizzata presunzione di colpa dell’amministrazione per questo tipo di danni, valgono comunque, nell’atteggiarsi del caso concreto, le regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 Cod. civ., desumibile dalla singola fattispecie.

L’illegittimità del provvedimento, in questo quadro,rappresenta un possibile indice presuntivo di quella colpa; così come altre circostanze, che risultino idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Di fronte a siffatte evenienze, spetta allora all’amministrazione eccepire e dimostrare che si è trattato di errore scusabile, come ad esempio può essere in caso di oggettiva incertezza circa la portata di una norma, specie se da poco entrata in vigore, o di particolare complessità dei fatti, o di influenza determinante di comportamenti altrui, o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Nel caso qui in esame, l’Amministrazione non sembra poter invocare una giustificazione utile ad elidere la colpa che può essere desunta dall’evidenza della regola fondamentale che ha violato in danno dell’interessata e l’inerente grave negligenza imputabile alla stazione appaltante. Tanto conduce a ritenere sussistente l’elemento della colpa.

Venendo alla quantificazione del danno, poiché la ricorrente non ha fornito la prova che il corretto esito della gara avrebbe condotto senz’altro alla aggiudicazione in suo favore, si deve ritenere che la lesione sia da contenere nella mera perdita di chance, posto che la partecipazione alla gara avrebbe potuto essere di base alla possibilità di restarne aggiudicataria.

Questa perdita di chance va rapportata in termini percentuali all’utile in astratto conseguibile in ipotesi di aggiudicazione della gara ed esecuzione dell’appalto: utile che, secondo un consolidato criterio, va presuntivamente stimato nel 10% dell’importo posto a base d’asta, ribassato dall’offerta presentata (Cons. Stato, V, 8 luglio 2002, n. 3796; IV, 6 luglio 2004, n. 5012). Tale quantificazione va qui poi congruamente ridotta, vuoi perché si tratta di risarcire una mera chance di aggiudicazione, vuoi perché l’interessata non ha dimostrato di essere stata nell’impossibilità di utilizzare, durante il tempo di esecuzione del servizio per cui è giudizio, mezzi e maestranze per l’espletamento di altri e diversi servizi (Cons. Stato, V 24 ottobre 2002, n. 5860; VI, 9 novembre 2006, n. 6607).

Invero, come di recente rilevato da questa Sezione (Cons. Stato, VI, 18 marzo 2011, n. 1681), ad evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa locupletare un effetto finanziario addirittura migliore rispetto a quello in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dal decimo dell’importo così stimato va detratto quanto percepito dall’impresa grazie allo svolgimento di attività lucrative diverse, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione. Nondimeno, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l’id quod plerumque accidit, che l’imprenditore normalmente diligente (cfr. art. 1227 Cod. civ.) non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile.

4. In definitiva, alla luce delle considerazioni che precedono, il risarcimento dovuto alla ricorrente può essere determinato alla stregua dei seguenti criteri di calcolo: a) attesa la presenza di due soli concorrenti in gara, la chance di aggiudicazione in capo all’appellante può essere determinata nella misura percentuale del 50%; b) l’utile dalla singola impresa (da determinare presuntivamente, come detto, nel 10% del ribasso offerto) va corrispondentemente ridotto della metà rispetto alla misura ordinaria, di tal che all’appellante può essere riconosciuto come danno risarcibile il 5% della sua offerta in ribasso (risultata pari, detta offerta, ad euro 187.700,00); c) questa somma merita di essere ulteriormente ridotta in ragione della mancata prova dell’inesistenza di un aliunde perceptum; d)nondimeno, il Collegio ritiene che non si debba, in pratica, far luogo a tale ulteriore diminuzione di calcolo in considerazione della compensazione tra siffatta sottrazione e quanto spettante alla ricorrente a titolo di danno curriculare, di cui pure essa ha domandato il ristoro.

In effetti, appare al Collegio che anche tale ultimo elemento di danno sussista, in relazione alla maggiore qualificazione professionale che sarebbe derivata alla ricorrente dall’esecuzione dell’appalto in questione, anche ai fini della spendibilità in altre e ulteriori gare pubbliche di un più significativo profilo curriculare (es. Cons. Stato, VI, 9 giugno 2008, n. 2751; VI, 11 gennaio 2010, n. 20; 21 settembre 2010, n. 7004; VI, 18 marzo 2011, n. 1681): elemento che equitativamente può essere stimato, come entità, corrispondente al presumibile uso che l’impresa può aver fatto presso altri cantieri delle maestranze e dei mezzi durante il tempo relativo alla esecuzione (mancata) dell’appalto in questione. Ne consegue che queste due voci risarcitorie (perdita di chance e danno curricolare), pur distintamente considerate si compensano, tanto più che sono entrambe fondate su elementi presuntivi e probabilistici: da un lato l’arricchimento curriculare può derivare soltanto da un’effettiva esecuzione della commessa, il che presuppone la certezza – che qui manca- dell’esito della gara in favore dell’odierna appellante (ciò che invece qui si è ammesso in meri termini probabilistici, nella misura del 50%); da un altro, l’aliud perceptum vel percipiendum è anch’esso fondato su elementi presuntivi (che valgono in casi, come il presente, dove è mancata la dimostrazione di non aver effettivamente lavorato), posto come detto che, per comune esperienza, un imprenditore di media diligenza non usa restare inoperoso ma ricerca commesse alternative per non immobilizzare mezzi e maestranze. Non vi è contraddizione nel riconoscimento delle due (contrapposte) voci risarcitorie perché entrambe si fondano su dati presuntivi tratti dalla comune esperienza, e la presunzione di aliunde perceptum non può ragionevolmente essere spinta fino a darvi per scontato come altrove acquisito anche un simile arricchimento curricolare. Inoltre, nella liquidazione del danno curriculare, il quantum va come detto ridotto perché va tenuto conto che qui non va risarcito il danno da mancata aggiudicazione, ma quello da perdita di chance di aggiudicazione.

D’altra parte, per escludere in radice il danno curriculare occorrerebbe che la stazione appaltante fornisca in positivo la dimostrazione di un aliunde perceptum da parte dell’impresa, con tanto di eguale qualificazione curricolare: in presenza del che, effettivamente, una tal voce di danno non spetterebbe perché si risolverebbe in una iniusta locupletatio.

Per effetto di tutto quanto detto,il danno qui da risarcire è conclusivamente determinato nel 5% dell’offerta prodotta in gara dalla appellante.

In definitiva, dato che il ribasso offerto dalla ricorrente è risultato pari a euro 187.700,00 ne viene che le spetta per risarcimento dei danni per mancato guadagno (lucro cessante), la somma di euro 9.385,00 (cioè il 5% di euro 187.700,00). Questa somma va poi maggiorata per rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dì del fatto (i.e., dalla data del provvedimento di esclusione) al soddisfo.

5. Quanto al c.d. danno emergente, vale a dire alle spese sostenute per la partecipazione alla gara, il Collegio considera che non sono di loro risarcibili in favore dell’impresa che lamenti la mancata aggiudicazione dell’appalto (o anche la sola perdita della relativa chance). Invero, la partecipazione alle gare pubbliche di appalto comporta per le imprese costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Detti costi di partecipazione, come questa Sezione ha avuto modo di precisare (Cons. Stato, VI, 4 settembre 2002, n. 4435; 9 giugno 2008, n. 2751), si colorano come risarcibile danno emergente solo se l’impresa illegittimamente esclusa lamenti (e chieda di essere tenuta indenne in relazione a) questo profilo dell’illegittimità procedimentale, perché in tal caso viene in considerazione soltanto la pretesa risarcitoria del contraente che si duole del fatto di essere stato coinvolto in trattative inutili. Tali danni, peraltro, vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle operazioni di gara e solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per equivalente. Per converso, nel caso in cui l’impresa ottenga il risarcimento del lucro cessante per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione.

6 In conclusione, il ricorso in appello va accolto nei sensi e limiti di cui innanzi e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto negli stessi limiti il ricorso proposto in primo grado.

Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e limiti di cui in motivazione.

Condanna la appellata C. srl al pagamento in favore dell’appellante delle spese e competenze del doppio grado di giudizio che liquida in complessivi euro 7.500,00 (settemilacinquecento/00), oltre IVA e CAP come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 06-04-2011) 22-09-2011, n. 34481

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- F.G. ricorre avverso la sentenza della corte di appello di Napoli del 18 maggio 2010, che, per quanto qui interessa, aveva confermato la condanna pronunciata a suo carico in primo grado, in esito a giudizio abbreviato, per i delitti di ricettazione di un autocarro e di furto pluriaggravato di notevole quantità di salumi ed insaccati in danno di M.C., asportati dall’autotreno del predetto che era stato precariamente parcheggiato su apposita piazzuola di sosta.

La penale responsabilità era stata ritenuta sulla base dell’intervento eseguito da personale della polizia giudiziaria, che aveva sorpreso in quasi flagranza l’imputato, riuscendo a fermare l’autocarro, a bordo del quale la refurtiva era stata portata, dopo un serrato e movimentato inseguimento, nel corso del quale erano stati inutilmente esplosi anche colpi di arma da fuoco a scopo intimidatorio e l’imputato aveva tentato di spingere fuori strada l’auto inseguitrice, dandosi infine alla fuga a piedi dopo essere stato costretto a fermare l’autocarro; era stato tuttavia raggiunto e tratto in arresto.

Deduce il ricorrente l’inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione dei fatti ed all’affermazione di responsabilità, a suo avviso fatta sulla base di elementi indizianti non univoci, atteso che quanto alla ricettazione dell’autocarro non c’era prova che il mezzo fosse di provenienza illecita, nè la mancanza dei dati identificativi del telaio poteva surrogare la prova; quanto al furto dei salumi, non v’era prova che quelli rinvenuti dalla P.G. a bordo dell’autocarro fossero proprio quelli rubati al M..

2.- Il ricorso è destituito di fondamento, in quanto i vizi di motivazione dedotti con il ricorso sono insussistenti.

E’ infatti agevole rilevare come la corte territoriale abbia dato piena contezza delle ragioni della decisione, esaminando puntualmente tutti i profili della vicenda, ed in particolare gli elementi fattuali in base ai quali era stato possibile ritenere inequivocamente che l’autocarro condotto dal ricorrente era di provenienza illecita.

Allo stesso modo doveva ritenersi accertato che i salumi rinvenuti a bordo dell’autocarro erano proprio quelli rubati, tanto che l’autotrasportatore dal cui mezzo erano stati asportati li aveva riconosciuti.

Dal comportamento del ricorrente la corte territoriale aveva tratto ulteriori significativi elementi di conferma del quadro probatorio, atteso che il ricorrente aveva tentato in tutti i modi di sottrarsi all’inseguimento dei carabinieri, non fermandosi neppure dopo l’esplosione di colpi di arma da fuoco, tentando di spingere fuori strada l’auto inseguitrice, tentando poi di fuggire a piedi; detto comportamento la corte territoriale ha ritenuto estremamente dimostrativo della consapevolezza che il F. evidentemente aveva di trovarsi in situazione gravemente illecita.

Il ricorso è pertanto infondato e merita rigetto.

Del resto ove il ricorrente intendesse proporre il riesame del merito, che in questa sede di legittimità è precluso, il ricorso sarebbe inammissibile.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 02-03-2012, n. 3254 Contratto

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Svolgimento del processo

Con atto 16 aprile 2007 M.A. ha convenuto in giudizio innanzi al tribunale di Pinerolo R.B. e M. P..

L’attore ha esposto che con scrittura privata 16 dicembre 2006 aveva promesso di vendere al R. (che aveva promesso di acquistare per sè o per altra persona da nominare in sede di rogito) un appezzamento di terreno in comune di San Secondo di Pinerolo al foglio 24, mapp. 62 per il prezzo di Euro 40 mila.

Ha riferito, ancora, l’attore che al fine di evitare che terzi confinanti potessero esercitare il diritto di prelazione loro spettante, contemporaneamente a tale contratto preliminare il R. aveva predisposto un contratto di affitto in favore della propria suocera Ma.Pi., con decorrenza dall’11 novembre 2006 e scadenza all’11 novembre 2021.

La Ma. – ha esposto ancora l’attore – non era presente presso la sede della Coltivatori diretti di Pinerolo ove il contratto era stato firmato unicamente da esso M..

Successivamente, peraltro, esso concludente aveva ricevuto, via fax, dal R. copia di tale contratto con la sottoscrizione della Ma. e correzione del canone annuale da Euro 600 a Euro 300.

Tutto ciò premesso, l’attore, evidenziato che i due contratti erano collegati e che siccome il contratto di affitto era simulato e privo di effetti perchè illecito, entrambi i contratti erano nulli.

Ha chiesto, pertanto, il M. che l’adito tribunale pronunciasse la nullità e inefficacia sia del contratto preliminare di vendita del terreno che di quello di affitto perchè illecitamente simulati e stipulati in frode alla legge.

Costituitisi in giudizio la Ma. ha eccepito la propria carenza di legittimazione passiva perchè evocata in giudizio in proprio e non quale rappresentante della società agraria Giorgia e Maddalena, società semplice, contraente del contratto di affitto del terreno (di cui l’attore aveva chiesto fosse dichiarata la nullità) e entrambi i convenuti hanno fatto presente che i due contratti non erano collegati essendo autonomi nei documenti e stipulati da soggetti distinti per cui nessuna rilevanza aveva la circostanza che la Ma. fosse suocera del R..

Hanno concluso i convenuti, pertanto, chiedendo che, disposta la estromissione dal giudizio della Ma., in via principale ogni domanda attrice fosse rigettata, in via riconvenzionale perchè fosse disposto il trasferimento, ex art. 2932 cod. civ. del terreno promesso in vendita in favore della società Giorgia e Maddalena s.s., previo saldo del dovuto, con ordine di trascrizione della sentenza e condanna dell’attore alla restituzione dell’assegno di Euro 20 mila.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito tribunale, dichiarata la carenza di legittimazione passiva della Ma., ha rigettato sia le domande attrici che quella riconvenzionale, dato atto che nel corso del giudizio la prestazione era divenuta impossibile, essendo stato il terreno oggetto di controversia donato dall’attore alla figlia e non essendo stato trascritto il preliminare di compravendita, mentre la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. era successiva alla donazione.

Gravata tale pronunzia dal M., nel contraddittorio dei convenuti R. e Ma. che, costituitisi in giudizio, hanno chiesto il rigetto della avversa impugnazione, la Corte di appello di Torino, con sentenza 25 maggio – 16 agosto 2010, ha rigettato l’appello, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite.

Per la cassazione di tale sentenza, notificata il 4 ottobre 2010, ha proposto ricorso con atto 2 dicembre 2010 e date successive M.A. affidato a 4 motivi e illustrato da memoria.

Resistono, con controricorso notificato il 17 dicembre 2010 R. B. e Ma.Pi..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione degli artt. 1417, 1571, 1615 e 1617 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Si assume, in particolare, che la Corte di appello avrebbe omesso di motivare – o comunque ha motivato in modo erroneo e insufficiente – sulla tesi svolta dall’appellante in base alla quale dagli stessi atti e documenti di causa risulta che il contratto di affitto è simulato, vale a dire che – indipendentemente dalla controdichiarazione – era manifesto che trattavasi di un contratto simulato.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia, ancora, erronea interpretazione dell’art. 1417 cod. civ., in relazione agli artt. 1343, 1344 e 1345 cod. civ., ed art. 2697 cod. civ.. Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – Mancanza ed erroneità della motivazione.

Si censura, in particolare, la sentenza nella parte in cui, dopo avere ritenuto non illecito nè in frode alla legge il contratto di affitto agrario in discussione, non ha dato ingresso alle prove testimoniali dedotte da esso concludente.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia illegittimità (della sentenza gravata per violazione degli artt. 1321 e 1322 cod. civ. Erroneità e contraddite torietà della motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Si assume, infatti, che erroneamente i giudici a quibus hanno ritenuto i due contratti non collegati, con ciò violando un principio ancora di recente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice (enunciato, in particolare, da Cass. 17 maggio 2010, n. 11974).

4. Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto non fondata la tesi (prospettata da esso concludente della legittimazione passiva della Ma.Pi. citata in giudizio in proprio e non quale legale rappresentante della società semplice Giorgia e Maddalena, pur essendo stata riconosciuta la sua legittimazione attiva in riconvenzione.

Il motivo, a sua volta, si articola in quattro punti:

– violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Erroneità della motivazione;

– violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 ed all’art. 2266 cod. civ., artt. 2267 e 2257 cod. civ.;

– violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

– violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Omessa motivazione.

5. A conclusione di ogni motivo – come di ogni profilo del quarto, complesso motivo – il ricorrente ha formulato un quesito di diritto, in applicazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ..

Osserva, al riguardo, il collegio che la L. 18 giugno 2009, n. 69 (Gazz. Uff. n. 140 del 19 giugno 2009, s.o. n. 95/L) mentre all’art. 47 ha abrogato l’art. 366-bis cod. proc. civ. al successivo art. 58, comma 5, ha previsto che le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato … successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge, cioè dopo il 4 luglio 2009.

La pacifica giurisprudenza di questa Corte regolatrice interpreta le sopra ricordate norme nel senso che ove sia oggetto di ricorso per cassazione un provvedimento pubblicato – come la sentenza ora investita di ricorso dal M., pubblicata il 16 agosto 2010 – successivamente al 4 luglio 2009 i vari motivi del ricorso stesso, soggetto alla nuova disciplina introdotta dalla L. n. 69 del 2009, non devono concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (in caso di ricorso proposto ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 1, 2, 3 e 4), nè con la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero che le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (in caso di ricorso ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5).

E’ palese, di conseguenza, che i quesiti, sopra ricordati devono ritenersi tamquam non essent e nell’esame dei vari motivi si prescinderà totalmente dagli stessi.

6. Sempre in termini generali e con riguardo a tutti i motivi sopra riassunti si osserva che gli stessi sono inammissibili sotto i seguenti, concorrenti, profili.

6.1. In primis e in via assorbente, si osserva che in tema di ricorso per cassazione, a seguito della novella introdotta dal decreto legislativo 2 febbraio a 2006, n. 40 (Gazz. Uff., n. 38 del 15 febbraio 2006, s.o. n. 40), il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità … 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda per essere assolto, postula che nel detto ricorso sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato dal ricorso stesso, risulta prodotto, in quanto indicare un documento significa, necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, dire dove è rintracciabile nel processo.

Pertanto:

– qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dal ricorrente, è necessaria la produzione del fascicolo di parte e l’indicazione dell’avvenuta produzione in ricorso con la specificazione che il documento è all’interno di esso;

– qualora sia stato prodotto dalla controparte, è necessaria l’indicazione della sua collocazione nel fascicolo di tale parte o la produzione in copia (Cass. 12 dicembre 2008, n. 29279; Cass. 4 settembre 2008, n. 22303).

Facendo applicazione del principio in questione al caso di specie è agevole osservare che tutti i motivi sostanzialmente censurano la interpretazione data dai giudici del merito vuoi del contratto preliminare di vendita inter partes, vuoi, del contratto di affitto agrario che si assume stipulato contemporaneamente a questo, ma non è dato rinvenire in ricorso nè alcuna indicazione dell’occasione in cui tali documenti sono stati prodotti in sede di merito, e della loro collocazione nel fascicolo della parte che li ha prodotti, ma – soprattutto – non sono stati trascritti i punti essenziali di essi e, in particolare, quanto al contratto di affitto, neppure le sue premesse e le parti di esso.

Non è dato – quindi – comprendere, allorchè il ricorrente invoca la legittimazione al presente giudizio della Ma., se tale contratto, certamente sottoscritto da parte della Ma., è stato stipulato da questa in proprio o, piuttosto, dalla società semplice Giorgia e Maddalena.

6. 2. Sempre con riferimento a tutti i motivi di ricorso si osserva – ancora – che quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 29 novembre 2005, n. 26048;

Cass. 8 novembre 2005, n. 21659; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145;

Cass. 2 agosto 2005, n. 16132, recentemente, Cass. 12 ottobre 2011, n. 20951).

Il vizio di violazione di legge – infatti – consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge, assegnata dalla Corte di cassazione).

Viceversa, la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Recentemente, in questo senso Cass. 27 settembre 2011, n. 19748; Cass. 9 agosto 2010, n. 18375;

Cass. 26 aprile 2010, n. 9908; Cass. 13 aprile 2010, n. 8730, tra le tantissime).

Non controverso quanto precede è agevole osservare che parte ricorrente ancorchè – almeno nella rubrica dei vari motivi e sub motivi (in cui si articola il complesso quarto motivo) – lamenti, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione di numerose norme di diritto (artt. 1417, 1571, 1615 e 1617 cod. civ., con il primo motivo; artt. 1417, 1343, 1344, 1345 e 2697 cod. civ., con il secondo; artt. 1321 e 1322 cod. civ., con il terzo; art. 100 cod. proc. civ., nonchè artt. 2266, 2667 e 2257 cod. civ., con il quadro motivo) nella parte espositiva dei singoli motivi si astiene, totalmente, sia dall’indicare quale sia stata la (erronea interpretazione di quelle norme di legge data dai giudici del merito, sia dal precisare quale sia la (corretta lettura che deve darsi a quelle norme, alla luce della giurisprudenza di questa Corte regolatrice o, della dottrina più autorevole o, almeno, a soggettivo parere della difesa del ricorrente.

Esaurendosi, in realtà, tutti i motivi – ancorchè asseritamente proposti al fine di denunciare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto – nella denunzia dell’apprezzamento espresso dai giudici del merito, in margine alle risultanze di causa, cioè nella prospettazione di (presunti vizi della motivazione della sentenza impugnata, è palese la loro palese inammissibilità sotto il profilo in questione (di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

6. 3. Oltre che sotto i profili sinora evidenziati i vari motivi di ricorso sono inammissibili, altresì, tenuto presente che giusta la stessa giurisprudenza di questa Corte regolatrice, richiamata dalla difesa del ricorrente, accertare la natura, l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. 17 aprile 2010, n. 11974).

Certo quanto sopra, si osserva che – contrariamente a quanto suppone la difesa del ricorrente – il motivo di ricorso per cassazione con il quale alle sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere inteso a far valere – a pena di inammissibilità in difetto di loro specifica indicazione – carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nella attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, o ancora, mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi.

Non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti.

Tali aspetti del giudizio, infatti, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi della norma in esame.

Diversamente il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di legittimità (cfr, Cass. 2 novembre 2010, n. 2512 7; Cass. 13 ottobre 2010, n. 22298; Cass. 26 aprile 2010, n. 9908; Cass. 30 marzo 2010, n. 7626; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394, tra le tantissime).

Pacifico quanto sopra, non controverso che nella specie i giudici del merito hanno escluso un collegamento negoziale tra i due contratti in discussione (preliminare di vendita e affitto) è palese – come anticipato – la inammissibilità delle censure sopra riassunte, atteso che con le stesse il ricorrenti lungi dal denunziare vizi, della motivazione della sentenza impugnata, rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si limita a contrapporre alla in-terpretazione dei vari negozi data dalla corte di appello, la propria soggettiva lettura degli stessi (a prescindere dal considerare, comunque, che non risultano in alcun modo censurate le affermazioni, in diritto, della corte di appello quanto alla impossibilità di ritenere in frode alla legge il contratto di affitto agrario posto in essere al fine di evitare l’esercizio della prelazione agraria da parte di terzi).

7. Quanto, da ultimo, al quarto motivo di ricorso, lo stesso non può trovare accoglimento sotto nessuno dei molteplici profili in cui si articola oltre che per i già rilevati profili di inammissibilità, tenuto presente che:

– contrariamente a quanto del tutto apoditticamente si assume con il primo e il terzo profilo del quarto motivo del ricorso la Corte di appello di Torino ben lungi dal negare la legittimazione passiva della Ma. quanto alla domanda principale e a riconoscerle la legittimazione attiva, quanto alla riconvenzionale, ha chiaramente evidenziato, da un lato, che, la Ma., come assolutamente pacifico in causa, era stata chiamata in giudizio esclusivamente in proprio e pertanto ben poteva eccepire la propria carenza di legittimazione passiva (recte di non essere titolare del rapporto dedotto in causa) e sollecitare la propria estromissione dal giudizio, dall’altro, che nessuna domanda riconvenzionale era stata da lei mai proposta, atteso che essendo il preliminare di vendita stipulato esclusivamente dal promittente acquirente R. solo quest’ultimo aveva la facoltà di fare l’electio amici nella specie in persona della società semplice G. e M. (senza che ciò implicasse la costituzione in giudizio della Ma. nella qualità di legale rappresentante di tale società, specie tenuto presente che non risulta in alcun modo nè che la stessa sia stata evocata in giudizio in tale veste, nè che in tale veste la stessa si sia costituita in giudizio). E’ di palmare evidenza, pertanto, contrariamente a quanto si assume nel prima e nella terza parte del quarto motivo, da un lato, che non sussiste alcuna erroneità della motivazione della sentenza impugnata, per avere escluso che la legittimazione passiva della Ma. al presente giudizio, dall’altro, che la Ma. non ha mai svolto alcuna domanda riconvenzionale (nè in proprio nè quale legale rappresentante della Società Agricola Giorgia e Maddalena);

– quanto al secondo profilo della doglianza di cui al quarto motivo lo stesso è palesemente inammissibile. atteso – da un lato – che pur censurandosi la sentenza impugnata per non avere risposto a quanto a quanto invocato nell’atto di appello in margine all’art. 2266 cod. civ., in ispregio del principio della autosufficienza del ricorso per cassazione non solo è riportato, nei suoi esatti termini, il motivo di appello che si assume non esaminato, ma non si fa alcun riferimento alle modalità e alle circostanze con cui la Ma. ha svolto le proprie difese nel giudizio di primo grado e da cui dedurre che l’attività è stata espletata nella qualità di socio amministratore della predetta società e non in proprio (cfr. Cass. 12 novembre 2004, n. 21520);

– quanto al quarto e ultimo profilo la censura deve essere dichiarata inammissibile atteso che si prospetta come vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3 o n. 5 una (presunta omessa pronunzia su un motivo di appello che può essere denunziata solo sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, cioè quale nullità della, sentenza o del procedimento (cfr. in termini, ad esempio, Cass. 21 marzo 2011, n. 6468. Tra le tantissime, nel senso che la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato è prospettabile, in sede di legittimità, a pena di inammissibilità, esclusivamente sotto l’aspetto della nullità della sentenza o del procedimento, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, Cass., 9 giugno 2011, n. 12968).

8. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 4.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

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