Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 09-03-2011, n. 5519 ICI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La controversia concerne l’impugnazione di un avviso di accertamento ICI con il quale il Comune di Genova riteneva di dover determinare l’imposta con applicazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6, relativamente ad un immobile di interesse storico-artistico per il quale la proprietaria aveva intrapreso un importante intervento di ristrutturazione.

La Commissione adita, ritenuto che il Comune avesse correttamente operato, sollevava eccezione di legittimità costituzionale della norma applicata, evidenziando, da un lato, che la spesa sostenuta dalla contribuente non fosse indice di capacità contributiva, ma conseguenza necessitata di interventi manutentivi su immobile soggetto a vincoli storici e ambientali, e, dall’altro, che la norma discriminerebbe tra i contribuenti in ragione del possesso di un immobile che necessiti di onerosi interventi di manutenzione.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 6 del 2003, dichiarava la questione manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, sottolineando come il giudice rimettente non avesse considerato l’esistenza di altra norma, il D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, specificamente riguardante la base imponibile per i fabbricati di interesse storico e artistico.

Riassunta la controversia, la Commissione Provinciale accoglieva il ricorso della contribuente affermando come la Corte costituzionale avesse sostanzialmente indicato a quale norma dovesse farsi riferimento nella fattispecie e il giudice d’appello, con la sentenza in epigrafe, confermava la decisione.

Avverso tale sentenza il Comune di Genova propone ricorso per cassazione con tre motivi. Resiste la contribuente con controricorso, illustrato anche con memoria, proponendo, con lo stesso atto, ricorso incidentale con due motivi.

Chiamata la causa innanzi alla Sezione Tributaria di questa Corte, il Collegio, con ordinanza n. 14363/10 del 5 maggio – 15 giugno 2010, ha disposto la rimessione della causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, innanzi alle quali la causa è, quindi, chiamata all’odierna udienza.

MOTIVAZIONE
Motivi della decisione

1. Preliminarmente occorre disporre la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, definita questione di massima di particolare importanza, è il rapporto di specialità tra le norme di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6, e al D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, rapporto che è "alla base della soluzione della questione coinvolta dal terzo motivo proposto nel ricorso principale (nella parte in cui censura violazione di legge)". Tale censura, infatti, denuncia la violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6, per aver il giudice di merito escluso che la norma fosse applicabile nella fattispecie, risolvendo, invece, la controversia mediante l’applicazione del D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, nemmeno interpretando correttamente l’ ordinanza n. 6 del 2003 della Corte costituzionale.

3. La sostanza della controversia sta, quindi, nella individuazione della norma applicabile: se, cioè, ai fini della determinazione della base imponibile di un immobile di interesse storico-artistico, che sia oggetto di uno degli interventi di recupero di cui alla L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lettere c), d) ed e), debba farsi riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6 o al D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5. 4. Il D.Lgs. n. 540 del 1992, art. 5, stabilisce quale sia la base imponibile dell’ICI e lo identifica nel valore dei fabbricati, delle aree fabbricabili e dei terreni agricoli posseduti dal contribuente.

Nel caso di specie la categoria che interessa è quella dei "fabbricati", relativamente ai quali, quando iscritti in catasto, il comma 2 della citata disposizione stabilisce che "il valore è costituito da quello che risulta applicando all’ammontare delle rendite risultanti in catasto, vigenti al 1 gennaio dell’anno di imposizione, i moltiplicatori determinati con i criteri e le modalità previsti dal primo periodo dell’art. 52, u.c., del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131". 5. La base imponibile è, tuttavia, determinata secondo una diversa regola allorchè su un fabbricato soggetto ad ICI si svolgano interventi di restauro e di risanamento conservativo, o di ristrutturazione edilizia o di ristrutturazione urbanistica. A definire quali siano questi interventi che "modificano" la regola di determinazione della base imponibile provvede la L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lettere c), d) ed e). Giusta tale norma:

– interventi di restauro e di risanamento conservativo sono "quelli rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio";

– interventi di ristrutturazione edilizia sono "quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti";

– infine interventi di ristrutturazione urbanistica sono "quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale". 6. Il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6, stabilisce, in tal modo, una diversa base di calcolo dell’imposta, che tiene conto di una particolare – e transitoria – situazione nella quale si trova il fabbricato, situazione che ne pregiudica la "normale redditività", giustificando il riferimento della base imponibile non più al fabbricato, ma al valore dell’area sulla quale il fabbricato insiste.

Stabilisce, infatti, la disposizione in esame che: "In caso di utilizzazione edificatoria dell’area, di demolizione di fabbricato, di interventi di recupero a norma della L. 5 agosto 1978, n. 457, art. 31, comma 1, lett. c), d) ed e), la base imponibile è costituita dal valore dell’area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell’art. 2, senza computare il valore del fabbricato in corso d’opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato". 7. La norma ora esaminata si riferisce con tutta evidenza ad ogni fabbricato, che non sia altrimenti qualificato, ed è esclusivamente attenta ad una situazione "esterna", che non concerne una caratteristica o ad una qualità propria del fabbricato, ma esclusivamente la condizione temporanea nella quale un "comune" fabbricato si trovi allorquando vengano eseguiti i lavori descritti dalle ricordate dalla L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lett. c), d) ed e).

8. Qualora il fabbricato di cui si tratti sia soggetto ad un vincolo storico-artistico, secondo le disposizioni di cui alla L. n. 1089 del 1939, art. 3 (ed attualmente secondo le disposizioni cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 10, e segg.), la base imponibile ai fini ICI è determinata da una apposita norma, il D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5 (convertito con L. n. 75 del 1993).

Tale norma stabilisce: "Per gli immobili di interesse storico o artistico ai sensi della L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 3 e successive modificazioni, la base imponibile, ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), è costituita dal valore che risulta applicando alla rendita catastale, determinata mediante l’applicazione della tariffa d’estimo di minore ammontare tra quelle previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è sito il fabbricato, i moltiplicatori di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 5, comma 2". Della norma in questione il legislatore ha dato una interpretazione autentica con la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 6, stabilendo che "le disposizioni di cui al D.L. 23 gennaio 1992, n. 16, art. 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 1993, n. 75, si interpretano nel senso che, ai soli fini del medesimo decreto, tra le imposte dirette è inclusa anche l’imposta comunale sugli immobili (ICI)". 9. In questa prospettiva appare ineludibile verificare come sia regolata la tassazione degli immobili di interesse storico-artistico.

In proposito, ormai con orientamento consolidato, questa Corte ha affermato che la norma di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, "individua per gli immobili storico-artistici una sorta di regime tributario sostitutivo prevedendo non un’esenzione o una riduzione di imposta (secondo una fissata percentuale), bensì una peculiare modalità di imposizione astrattamente determinata senza alcun rapporto con il valore reale (locativo o fondiario) del bene tassato, dato che il reddito dei predetti immobili è determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato" (Cass. n. 2332 del 2009, in motivazione).

Esaminando la lettera della norma, appare immediatamente evidente che l’oggetto dell’imposizione è individuato tout court negli immobili soggetti a vincolo storico-artistico, senza che sia aggiunta alcuna altra aggettivazione o qualificazione che autorizzi l’interprete a darne una specificazione, ulteriore rispetto alla qualità – carattere storico-artistico – che il legislatore ha ritenuto determinante al fine di sottoporre gli immobili in questione ad uno speciale regime impositivo, tanto più che la norma in questione espressamente dispone che tale regime si applica "in ogni caso". 10. La scelta del legislatore di far riferimento ad un criterio astratto – "in ogni caso il reddito… è determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato" -, non consente all’interprete di introdurre una limitazione all’applicabilità della norma che ridurrebbe il valore dell’espressione "in ogni caso" utilizzata dal legislatore e svaluterebbe anche la qualità, il carattere storico-artistico dell’immobile, che rappresenta, nell’insindacabile scelta legislativa, l’unica ragione giustificatrice dell’applicazione di un regime impositivo speciale.

11. D’altro canto, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 346 del 2003, la scelta del legislatore appare "tutt’altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9 Cost., comma 2". Ed è chiaro che questo "complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9 Cost., comma 2", non muta, nè nella sostanza, nè nella gravosità, a seconda della destinazione, ad uso abitativo o ad uso diverso, o anche della categoria catastale di classificazione dell’immobile che ne sia specificamente oggetto, costituendo gli immobili di interesse storico-artistico, sotto l’indicato aspetto, una categoria omogenea.

12. Nè può ritenersi irragionevole la scelta del legislatore laddove "prevede che il reddito imponibile sia in ogni caso determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato": ciò perchè "una volta esclusa… la comparabilità della disciplina fiscale degli immobili di interesse storico o artistico con quella degli altri immobili, la censura di irragionevolezza risulta priva di consistenza, in uno con quella, ad essa connessa, di violazione del principio di eguaglianza, essendo l’una e l’altra basate sull’erroneo presupposto della sostanziale omogeneità delle due categorie di beni". E evidente che la disomogeneità che distingue gli immobili di interesse storico o artistico, da un lato, dagli immobili che non siano tali, dall’altro, e che legittima il diverso trattamento fiscale degli uni e degli altri, prescinde necessariamente dalla destinazione d’uso ed anche dalla classificazione catastale che abbiano gli immobili di interesse storico o artistico, essendo tale destinazione, o classificazione, ininfluente al fine di determinarne l’appartenenza alla categoria "protetta". A tanto si aggiunge l’estrema difficoltà di una precisa determinazione del reddito degli immobili in questione "per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni". Da tali affermazioni si ricava che la ratio legis della disposizione di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, è data dalla necessità di tenere conto del fatto che i proprietari degli immobili appartenenti alla tipologia considerata dalla norma in questione debbono affrontare, nell’interesse pubblico alla conservazione dei beni culturali, costi di manutenzione, così rilevanti da rendere non sicuramente determinabile il reddito effettivo: una riprova può essere data dalla disposizione di cui alla L. n. 133 del 1999, art. 18, lett. c), che conferma il principio stabilito dalla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, per il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi della L. n. 1089 del 1939, art. 3, "inteso a tenere conto dei vincoli gravanti su di essi nonchè dell’interesse pubblico alla loro conservazione". Se ciò è vero, come è vero, ha affermato questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e conferma, "non avrebbe senso logico introdurre, all’interno dell’unitaria categoria degli immobili di interesse storico-artistico, una distinzione tra detti immobili secondo la loro destinazione d’uso o la loro classificazione catastale: nè l’interesse pubblico alla conservazione dell’immobile di interesse storico-artistico, nè i costi di manutenzione, finalizzati alla tutela di tale interesse, nè l’incertezza sulla determinazione del reddito effettivo che l’incidenza di tali costi causa, dipende (nè può dipendere) dalla diversa destinazione, abitativa o meno, o dalla diversa classificazione catastale dell’immobile. Sicchè limitare l’applicazione della disposizione di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, ai soli immobili di interesse storico-artistico destinati ad uso abitativo o a quelli classificati in una determinata categoria catastale (ad es. la categoria A), significherebbe introdurre nel sistema una distinzione non ragionevole – tenuto conto della ratto legis della norma speciale e optare, di conseguenza, per un’interpretazione della stessa norma che non sarebbe costituzionalmente orientata" (Cass. n. 14149 del 2009, in motivazione).

13. L’aver chiarito che la tassazione degli immobili di interesse storico o artistico, ai fini delle imposte sui redditi, non è ispirata ad una regola di "agevolazione", bensì ad una regola di "specialità", cioè all’istituzione di "un regime tributario sostitutivo" di quello ordinario, non può non aver conseguenze anche con riferimento alla tassazione dei medesimi immobili con riferimento all’ICI, anche alla luce della ricordata esistenza di una apposita disposizione – il D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5 (convertito con L. n. 75 del 1993) – che disciplina la tassazione dei predetti immobili ai fini ICI e della ricordata norma di interpretazione autentica – la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 6 – di tale disposizione. In altri termini, anche ai fini ICI, la tassazione degli immobili risponde ad una regola "speciale" che istituisce un "regime tributario sostitutivo" di quello cui soggiacciono gli immobili che non abbiano quella particolare "qualità" – il vincolo di interesse storico o artistico -, costitutiva della ratio della specialità della disciplina.

14. Una ratio quest’ultima assolutamente diversa da quella che sorregge la regola stabilita dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6, che fa riferimento, con tutta evidenza, ad una situazione "eccezionale (ma) transitoria", conseguente alla esecuzione su un immobile soggetto a "tassazione ordinaria" di particolari lavori (quelli specificati alla L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lett. c), d) ed e)). Si tratta, cioè, di una "eccezione (o agevolazione fiscale) interna" al regime ordinario di tassazione ai fini ICI degli immobili non altrimenti qualificati, che non può avere, per sua natura e collocazione, applicazione in altri "regimi di tassazione", che si caratterizzano per "specialità" propria, connessa ad una qualità specifica (e sostanzialmente intrinseca) dell’immobile (non da altri immobili posseduta) oggetto dell’imposta. Il "valore", ai fini della tassazione, di un immobile di interesse storico o artistico è considerato dalla legge "minore", con carattere permanente (stante la peculiare situazione "soggettiva" dell’immobile stesso, per i pesanti oneri manutentivi che il riconoscimento della specifica qualità comporta), e non "occasionalmente" per l’esecuzione di lavori, che diminuiscono temporaneamente (cioè fino alla loro ultimazione) il valore "ordinario" del bene: tanto più se si considera che il "valore diminuito" in ragione dello svolgimento dei lavori di cui si parla, sarebbe comunque "maggiore" di quello che la legge attribuisce, indipendentemente da ogni altra circostanza, all’immobile di interesse storico o artistico.

15. Sicchè deve affermarsi il seguente principio di diritto: "In materia di tassazione ai fini ICI degli immobili di interesse storico o artistico è applicabile esclusivamente la regola stabilita dal D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, convertito con L. n. 75 del 1993, come interpretato dalla L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 6, anche qualora per tali immobili fossero effettuati interventi di restauro e di risanamento conservativo o interventi di ristrutturazione edilizia o interventi di ristrutturazione urbanistica, quali indicati dalla L. n. 457 del 1978, art. 31, comma 1, lett. c), d) ed e)". 16. Poichè la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, il ricorso principale deve essere rigettato:

resta assorbito il ricorso incidentale. La novità della questione giustifica la compensazione delle spese della presente fase del giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 18-02-2011, n. 1028 Conservatori di musica

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Svolgimento del processo

Con la sentenza gravata il T.A.R. ha accolto il ricorso n. 1386 del 1990, proposto dall’odierno appellato avverso il decreto del Ministero della pubblica istruzione 18 novembre 1989 recante l’approvazione della graduatoria definitiva del concorso a cattedre a posti di docente di pianoforte nei conservatori di musica, bandito con D.M. 12 luglio 1989.

Nel dettaglio, con il ricorso di primo grado l’odierno appellato ha censurato l’omessa valutazione del servizio reso per tre anni come supplente annuale- esperto di pianoforte nel quinquennio sperimentale ad indirizzo musicale presso il Liceo Ginnasio Petrarca di Arezzo.

Il primo giudice, nell’accogliere il ricorso, ha concluso per la equiparabilità del suddetto servizio prestato dall’odierno appellato al servizio prestato nei Conservatori di musica o negli Istituti musicali pareggiati, così ritenendo illegittima la mancata valutazione dello stesso ad opera dell’Amministrazione in sede di elaborazione dell’impugnata graduatoria.

Propone gravame l’Amministrazione., ritenendo l’erroneità della sentenza impugnata di cui chiede l’annullamento, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado.

L’appellato non si è costituito nel secondo grado del giudizio.

All’udienza del 18 gennaio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

1 L’appello va accolto.

La questione posta all’attenzione del Collegio attiene alla valutabilità o meno (in sede di partecipazione ad una sessione riservata di esami) del servizio svolto da un docente in materia di discipline musicali presso un Liceo classico sperimentale, in presenza di apposita disposizione contenuta in una ordinanza ministeriale, che, ai detti fini – con una formulazione che in effetti riproduce quella già contenuta nell’art. 3, comma 3, della L. n. 124 del 1999 – fa riferimento specificamente al solo servizio espletato nei Conservatori di musica e negli Istituti musicali pareggiati.

La questione è stata già esaminata dalla Sezione dal cui indirizzo interpretativo il Collegio non ritiene di doversi discostare.

Come osservato, invero, da Cons. Stato., sez. VI, 21 ottobre 2005, n. 5950, stante il chiaro dettato della normativa indicata, non può intravedersi nella specie la pretesa omogeneità tra i differenti menzionati titoli di servizio, non rinvenendosi in essi elemento alcuno di equipollenza che possa far ritenere come non tassativa la qualificazione dei servizi valutabili, limitata dalla richiamate fonti normative a quelli svolti nei soli Conservatori di musica o Istituti musicali pareggiati.

D’altra parte, come rimarcato nello stesso precedente richiamato, se si esaminano le caratteristiche dei due tipi di insegnamento considerati (quello prestato dai docenti dei Conservatori di musica o Istituti musicali pareggiati e quello prestato da docenti presso un Liceo classico sperimentale ad indirizzo musicale) appare di tutta evidenza la differenza tra essi esistente, con riguardo sia alle ore di lezione delle varie materie musicali, sia alla diversa portata dei programma di studi.

Infatti, l’istruzione musicale costituisce, per i detti Conservatori o Istituti, un elemento peculiare ed assolutamente prevalente dell’iter formativo degli allievi e che termina con il rilascio di apposito diploma, diversamente da ciò che avviene per l’istruzione presso Istituti diversi, tra i quali i Licei ad indirizzo musicale, il cui percorso di studio termina con il rilascio di un diploma di maturità ad indirizzo musicale, che, se va considerato come titolo di istruzione secondaria di secondo grado, per quanto riguarda la possibile continuazione degli studi presso un Conservatorio, consente soltanto – sulla base del D.M. in data 1.9.1993 – l’accesso ad una classe intermedia delle scuole strumentali.

2. Alla stregua delle esposte ragioni va dunque accolto l’appello, sicché, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado n. 1386 del 1990.

Segue la condanna dell’appellato al pagamento delle spese processuali dei due gradi del giudizio, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 74 del 2006, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado n. 1386 del 1990.

Condanna l’appellato al pagamento delle spese processuali dei due gradi del giudizio, liquidate in complessivi 1000 euro.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 03-03-2011, n. 144 Procedimento

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Svolgimento del processo

Con ricorso al T.A.R. Palermo, l’odierna appellata rappresentava che, in applicazione del regolamento per il servizio di volontariato nei settori della circolazione, del turismo, dell’igiene e della sanità – approvato con deliberazione n. 31 del 5.2.1986 – e a seguito di apposite deliberazioni e procedure selettive, veniva assunta annualmente dal Comune di Cefalù, insieme ad altri, formalmente come "vigile volontario" a tempo determinato, con compiti di supporto e collaborazione in affiancamento al personale del Corpo di Polizia municipale.

Esponeva, altresì:

– di avere svolto la propria attività lavorativa secondo turni prestabiliti, in base a precisi ordini di servizio del Comandante del Corpo di Polizia municipale dell’intimata Amministrazione – la cui inosservanza, peraltro, poteva essere sanzionata con apposito provvedimento disciplinare – senza godere formalmente né di un periodo di congedo ordinario, né di alcuna indennità;

– di avere percepito, per l’espletamento di tale attività, la retribuzione mensile di Lire 750.000 al lordo della ritenuta d’acconto.

Sosteneva, quindi, che il Comune di Cefalù, pur avendo formalmente instaurato un rapporto di "volontariato" con la ricorrente e indipendentemente dal "nomen iuris" utilizzato, in applicazione delle menzionate deliberazioni, di fatto avrebbe instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, per l’espletamento del quale avrebbe dovuto corrispondere la retribuzione, più elevata, prevista dal C.C.N.L. all’epoca applicato, per il vigile urbano inquadrato nella ex V qualifica funzionale.

Stante il mancato riscontro dell’Amministrazione comunale al tentativo di conciliazione dalla stessa formalmente esperito, chiedeva che detto rapporto venisse qualificato di "pubblico impiego", sussistendone tutti gli elementi normativamente richiesti, con la conseguente condanna del Comune di Cefalù al pagamento della somma pari a Lire 20.779.222 oltre agli accessori di legge, con relativa regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale.

In data 28 novembre 2000 si costituiva in giudizio il Comune di Cefalù per resistere al ricorso del quale, con successiva memoria, deduceva l’inammissibilità per mancata impugnazione degli atti amministrativi di nomina dei vigili volontari, nonché l’infondatezza nel merito, con contestuale eccezione di prescrizione dei crediti vantati dalla ricorrente.

Con memoria depositata il 28 luglio 2008, la ricorrente eccepiva la decadenza dell’intimata Amministrazione a proporre le eccezioni sollevate con la memoria dell’8 ottobre 2001, in asserita applicazione dell’art. 416 c.p.c.; nel merito, insisteva per la condanna del Comune alla corresponsione delle differenze retributive, in applicazione dell’art. 2126 c.c., anche limitatamente al riconoscimento della prestazione lavorativa nell’ambito della ex III qualifica funzionale, secondo i conteggi riportati nell’allegato prospetto.

Con memoria depositata in data 9 settembre 2008, l’intimata Amministrazione ribadiva l’eccezione di inammissibilità del gravame per omessa impugnativa degli atti amministrativi di costituzione del rapporto di volontariato con la ricorrente, insistendo, altresì, per il rigetto del ricorso in quanto infondato; con successiva memoria depositata il 30 luglio 2009, il Comune controdeduceva, altresì, in ordine all’eccezione di decadenza sollevata da parte ricorrente in applicazione dell’art. 416 c.p.c., insistendo per la reiezione del gravame.

Con memoria depositata il 10 settembre 2009, parte ricorrente riformulava le domande e le eccezioni già esposte e ribadiva la richiesta di accoglimento del gravame.

Con sentenza n. 1664/09, il Tribunale adito, respinte le eccezioni di rito proposte da ambo le parti:

– accoglieva il ricorso e, per l’effetto, dichiarava il diritto della ricorrente alla corresponsione della retribuzione corrispondente allo svolgimento, di fatto, di mansioni riconducibili alla soppressa terza qualifica funzionale di cui al C.C.N.L. approvato con D.P.R. 25 giugno 1983 n. 347, per i periodi di interesse;

– condannava l’Amministrazione resistente al pagamento a favore della ricorrente delle differenze retributive risultanti dovute per il suddetto titolo, con gli accessori di legge, nonché alla conseguente regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale per l’attività prestata nei medesimi periodi.

Con l’appello in epigrafe, il Comune di Cefalù ha eccepito l’omesso accoglimento della superiore censura di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e, nel merito, ha chiesto di dichiarare prescritte e/o infondate le domande ivi proposte dall’odierna parte appellata.

Conclusivamente, ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata, previa sospensione degli effetti della stessa.

Con controricorso ed appello incidentale, parte appellata ha impugnato la sentenza n. 1664/09, sopra richiamata, nella parte in cui non ha indicato i periodi temporali, specificati nella circostanza, per l’attività prestata per i quali il Comune di Cefalù è stato condannato al pagamento delle relative differenze retributive in favore della stessa.

Ha, quindi, replicato ai motivi di appello dedotti dall’Amministrazione comunale e ne ha chiesto il rigetto.

Con apposita memoria difensiva depositata l’8 aprile 2010, parte appellata ha ulteriormente dedotto circa i motivi dell’appello incidentale e replicato in ordine alle censure sollevate con l’appello principale, del quale ha ribadito la richiesta di rigetto.

Alla pubblica udienza del 28 aprile 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

Il Comune di Cefalù impugna la sentenza di cui in epigrafe, con la quale il T.A.R. Palermo ha accolto il ricorso dell’odierna appellata finalizzato ad ottenere il riconoscimento della natura di pubblico impiego del rapporto di lavoro instaurato con l’Amministrazione comunale nonché il conseguenziale riconoscimento delle differenze retributive maturate, con la regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale.

L’appellata – riproposta la questione dell’effettiva natura pubblica del proprio rapporto di lavoro, instaurato in forza di contratti a tempo determinato – insiste nel rivendicare le predette pretese patrimoniali, riconosciute dal primo giudice con la sentenza ex adverso impugnata.

L’appello è solo parzialmente fondato, nei sensi di cui appresso.

Il rapporto di lavoro tra l’appellata e l’Amministrazione ricorrente è stato disciplinato, nel riferito periodo temporale, da contratti di lavoro a tempo determinato.

Va premesso che – per costante giurisprudenza, dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi – qualora sia proposta in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva un’azione di accertamento, il giudice può accertare d’ufficio se siano nulli od inefficaci gli atti sui quali il ricorrente abbia fondato la sua domanda di accertamento (Cons. di Stato, sez. V, 1 dicembre 1997, n. 1459; sez. V, 3 giugno 1996, n. 618).

Ciò posto, va rilevata la nullità dei contratti conclusi tra l’originaria ricorrente ed il Comune di Cefalù.

Tali contratti, infatti, hanno dato luogo allo svolgimento di una attività lavorativa che presentava i caratteri del lavoro dipendente, in quanto sussistono, nel caso all’esame, tutti quegli indici rivelatori che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente ritenuto sintomatici del rapporto di pubblico impiego (retribuzione fissa e periodica, eterodirezione, obbligo di osservare orari prestabiliti, nonché, nel caso di specie, tutti gli elementi distintivi del rapporto lavorativo in concreto svolto e puntualmente indicati nel ricorso originario).

Tuttavia, quanto alle conseguenze giuridiche della conclusione dei suddetti contratti e della loro esecuzione, va sancita la loro nullità in quanto volti ad instaurare rapporti di lavoro subordinato in casi non consentiti dalla legge (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 6605).

Vanno pertanto richiamati i seguenti principi più volte enunciati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e di questo C.G.A per i casi in cui l’Amministrazione abbia violato un divieto di assunzione e si avvalga della prestazione lavorativa avente i caratteri del lavoro dipendente:

– "quando la legge sancisce la nullità degli atti di assunzione nel pubblico impiego, si è in presenza di una nullità in senso tecnico, sicché, qualora un soggetto assuma che un rapporto è sorto sulla base di atti o comportamenti diversi da quelli presi in considerazione dalla legge, il giudice amministrativo non può accertare un rapporto che non è sorto, non sussiste e non può giuridicamente sussistere (Cons. di Stato, sez. V, 17 dicembre 2001, n. 6246; sez. V, 13 novembre 1997, n. 1293; sez. V, 23 giugno 1997, n. 709; sez. V, 17 maggio 1997, n. 514; sez. V, 13 agosto 1996, n. 907; sez. V, 3 giugno 1996, n. 618)";

– " l’art. 2126 del codice civile consente di chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei soli emolumenti indicati nel titolo nullo nonché la regolarizzazione delle posizioni previdenziali ed assicurative, in base alla fictio iuris della sussistenza del rapporto di lavoro, ma non dà titolo a percepire una retribuzione superiore a quella prevista nel titolo nullo o annullato, ad esempio parametrata su quella spettante ai dipendenti di ruolo che svolgano analoghe funzioni" (Cons. di Stato, sez. V, 3 giugno 1996, n. 618; sez. V, 21 ottobre 1995, n. 1462).

Alla luce di tali principi giurisprudenziali (espressi dal Consiglio di Stato, nei termini suindicati, anche nella decisione n. 5912 del 20 ottobre 2005, adottata in causa analoga a quella in esame), l’appello del Comune merita solo parziale accoglimento, dato che, comunque, vanno accolte le rivendicazioni della ricorrente originaria volte ad ottenere la regolarizzazione della posizione lavorativa sul fronte assicurativo e previdenziale, non ostandovi peraltro – vertendosi in tema di azione di accertamento relativa a diritti soggettivi devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – la mancata tempestiva impugnativa dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato.

Non può essere accolta, invece, la pretesa relativa al riconoscimento delle differenze retributive maturate, sia perché vi osta – come anticipato – il dettato dell’art. 2126 del cod. civ., sia perché ciò postulerebbe a sua volta il riconoscimento della rilevanza alle mansioni di fatto nel pubblico impiego; il che è da escludere, almeno per i periodi antecedenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 387/1998, in forza della giurisprudenza consolidatasi al riguardo (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 28.1.2000, n. 10 e 23.2.2000, n. 11).

Per la regolarizzazione delle posizioni previdenziali ed assicurative dell’odierna appellata rilevano i periodi per i quali la stessa, svolgendo prestazioni lavorative assimilabili a quelle proprie del lavoro dipendente, ha percepito la relativa retribuzione.

In relazione a tali periodi, pertanto, l’Amministrazione comunale dovrà regolarizzare la posizione dell’odierna appellata mediante versamento, presso i competenti enti previdenziali e assicurativi, dei contributi di legge corrispondenti alla retribuzione in concreto erogata nei suddetti periodi.

Per le ragioni che precedono, l’appello va in parte accolto, con conseguenziale riforma sul punto dell’impugnata sentenza, ed in parte respinto.

Consegue, altresì, il rigetto dell’appello incidentale proposto da parte appellata.

Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie in parte e per l’effetto, in parziale riforma della gravata pronuncia, respinto l’appello incidentale, dispone la regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale della ricorrente originaria per il periodo indicato in parte motiva.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso, in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 28 aprile 2010, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Chiarenza Millemaggi Cogliani, Gabriele Carlotti, Filippo Salvia, Pietro Ciani, estensore, componenti.

Depositata in Segreteria il 3 marzo 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-06-2011, n. 12457 Diritti e doveri del lavoratore Sanzioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società Poste Italiane appellava la sentenza del Tribunale di Monza, che aveva ritenuto inefficace la sanzione disciplinare irrogata al dipendente A.A., per essere stata proposta la richiesta all’u.p.l.m.o. per la convocazione della commissione di conciliazione ex art. 410 c.p.c., oltre il termine di dieci giorni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, penultimo comma.

Il primo giudice riteneva infatti che, al fine di conciliare il rispetto delle regole di cui all’art. 7 (avendo l’ A. promosso la costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7) con quelle dell’art. 410 c.p.c., il datore di lavoro, ricevuta la comunicazione della direzione provinciale del lavoro, con invito a nominare il proprio rappresentante, qualora avesse inteso agire in giudizio aveva l’onere di far pervenire alla commissione di cui all’art. 410 c.p.c., la richiesta del tentativo di conciliazione nei 10 giorni successivi.

L’appellante sosteneva di aver rispettato i termini come risultava documentalmente, avendo ricevuto l’invito a nominare l’arbitro da parte della D.P.L. il 2 agosto 2002; che nel termine di dieci giorni, intendendo adire l’autorità giudiziaria, aveva inviato la richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione alla commissione, non ritenendo peraltro che in tale termine l’atto dovesse anche giungere a destinazione; nel merito, sosteneva che la sanzione doveva ritenersi legittima e congrua avendo il lavoratore fruito delle ferie al di fuori di ogni programmazione e senza autorizzazione. Si costituiva l’ A., resistendo al gravame. La Corte d’appello di Milano, all’udienza del 2 marzo 2005, confermava la sentenza di primo grado.

Propone ricorso per cassazione la società Poste, affidato a due motivi, poi illustrati con memoria. Resiste l’ A. con controricorso.
Motivi della decisione

1. -Con il primo motivo la società Poste denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 410 c.p.c., ritenendo che la corte di merito aveva erroneamente ritenuto che il termine di 10 giorni (previsto per la nomina del proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione ed arbitrato di cui all’art. 7 ed applicato anche per la proposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione) non fosse stato rispettato, laddove la società, declinando la definizione arbitrale della controversia, aveva inteso adire l’autorità giudiziaria, ai sensi dell’ultimo periodo del comma 7 del citato art. 7 L. n. 300 del 1970.

Si doleva la società Poste che la corte territoriale aveva ritenuto tardiva la sua richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, datata 9 agosto 2002, dovendo aversi riguardo al momento in cui essa era pervenuta alla commissione.

La corte milanese, in sostanza, ritenne la società decaduta dalla proposizione dell’azione giudiziaria, non avendo essa rispettato il termine perentorio di 10 giorni decorrente dalla ricezione della richiesta dell’ufficio del lavoro di nomina del proprio arbitro (datata 24 luglio 2002), per manifestare la volontà di adire il giudice promovendo (a sua volta) il prescritto tentativo di conciliazione (con lettera del 9 agosto 2002).

La corte di merito, interpretando la L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 7, in relazione alla nuova disciplina di cui all’art. 410 c.p.c., aveva erroneamente ritenuto che, ai fini del computo del termine di 10 giorni si dovesse fare riferimento al momento della ricezione da parte dell’UPLMO della richiesta del tentativo di conciliazione e non al suo invio.

2. -Con secondo motivo la società Poste lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., deducendo che la corte di merito ritenne gravare su di essa l’onere di fornire la prova del mancato rispetto dei termini di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 7, affermando in particolare che sarebbe stato suo onere provare: a) la data di ricezione della lettera 24 luglio 2002 dell’ufficio del lavoro, da cui fare decorrere il termine di dieci giorni (pur avendo accertato che su tale lettera risultava apposto un timbro della stessa società con data del 2 agosto 2002, sicchè la comunicazione alla commissione di conciliazione del 9 agosto 2002 risultava tempestiva), ed inoltre, b), la data di effettivo ricevimento della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

3. – I motivi, stante la loro connessione, possono essere congiuntamente trattati e risultano fondati.

Seppure è vero, (cfr. C. Cost. n. 586 del 1989, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità dell’art. 7 nella parte in cui non prevede alcun termine di decadenza per l’impugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni disciplinari, interpretandolo nel senso che il datore di lavoro ha l’onere di ricorrere al giudice ordinario entro 10 giorni dall’invito dell’u.p.l.m.o. a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione ed arbitrato), che il datore di lavoro destinatario della richiesta di decisione arbitrale ex art. 7 ha l’onere di ricorrere al giudice ordinario entro i detti 10 giorni, non v’è dubbio che tale onere sia soddisfatto con la sola richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione (ex art. 410 c.p.c.), non occorrendo che nello stesso lasso di tempo essa pervenga alla commissione.

Secondo la corte di merito la irritualità derivava dalla circostanza che il termine "comunicazione", di cui all’art. 410 c.p.c. (a differenza del termine presentazione di cui all’art. 410 bis), significava "dare notizia, partecipare e presupponeva, quindi, l’avvenuta ricezione da parte del destinatario".

Osserva di contro la Corte che, a seguito della nota pronuncia della Corte Cost. n. 477 del 2002, alla parte può essere chiesto il compimento solo dell’attività a sè riferibile, rimanendo fuori del suo controllo l’eventuale inerzia o ritardo di soggetti diversi (nella specie l’ufficio postale). Il giudice delle leggi ha ritenuto palesemente irragionevole che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al notificante, ma a soggetti diversi, e perciò del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo.

Sotto questo profilo giova richiamare la recente sentenza delle sezioni unite di questa Corte (n. 8830 del 14 aprile 2010), secondo cui l’impugnazione del licenziamento ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorchè la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine, atteso che – in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale – l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza.

Inoltre, con più specifico riferimento al caso di specie, questa Corte, superando un precedente contrario orientamento (Cass. 5 maggio 2006 n. 11116), ha ritenuto che alla luce di una lettura costituzionalmente orientata (v. Corte cost. n. 276 del 2000 e n. 477 del 2002) delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, non è necessario che l’atto di impugnazione giunga a conoscenza del destinatario nel predetto termine, ovvero, in particolare, che esso pervenga all’indirizzo del datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, in quanto, ai sensi dell’art. 410 cod. proc. civ., secondo comma (così come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 36), il predetto termine (processuale con riflessi di natura sostanziale) si sospende a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione e divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione. Cass. 22 luglio 2010 n. 17231, Cass. 19 giugno 2006 n. 14087.

A parti invertite, lo stesso principio deve applicarsi nella specie, sicchè, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, la comunicazione da parte della società Poste del tentativo obbligatorio di conciliazione doveva valutarsi con riferimento al momento della richiesta (avvenuta entro i prescritti dieci giorni) e non già a quello della ricezione.

Risulta peraltro fondato anche il secondo motivo, inerente l’onere della prova, non potendosi addossare alla medesima parte l’onere di fornire la prova della violazione, da parte sua, dei termini di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 7, trattandosi evidentemente di eccezione di cui doveva fornire la prova la parte eccepiente (nella specie il lavoratore), tanto più avendo la corte di merito accertato che sulla lettera 24 luglio 2002 dell’ufficio del lavoro risultava apposto un timbro della società con data del 2 agosto 2002.

Avendo la società ricorrente inviato la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione il 9 agosto 2002, spettava al lavoratore dimostrarne la tardività, restando in ogni caso irrilevante la data di ricevimento della richiesta, rilevando solo quella di invio.

Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio, anche per le spese, ad altro giudice, in dispositivo indicato, il quale procederà all’ulteriore esame della controversia alla luce del seguente principio: "La L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 7, – nel prescrivere al datore, che abbia inflitto al prestatore di lavoro una sanzione disciplinare, di nominare un proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione ed arbitrato entro dieci giorni dall’invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro- impone al medesimo datore di lavoro che intenda declinare la competenza arbitrale ricorrendo al giudice ordinario, di promuovere entro lo stesso termine di dieci giorni il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., comminando una decadenza che viene impedita con la tempestiva consegna della lettera all’ufficio postale, restando irrilevante la data di ricezione".
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.