T.A.R. Puglia Lecce Sez. II, Sent., 28-06-2011, n. 1193 Atti amministrativi diritto di accesso

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I ricorrenti – coeredi della Sig.ra R.M.A., titolare della pensione di reversibilità I.N.P.S. n° 2374325/SO con decorrenza dal 1° Agosto 1967 – impugnano il silenzio rigetto opposto dall’I.N.P.S. sede provinciale di Tricase alla loro richiesta di accesso presentata, ai sensi dell’art. 54 della Legge 9 Marzo 1989 n° 88, (da ultimo) in data 13 Novembre 2010, con cui hanno chiesto il rilascio della seguente documentazione: a) certificazione/dichiarazione attestante che sul predetto trattamento pensionistico è stata applicata la sentenza della Corte Costituzionale n° 314/1985 ovvero l’integrazione al trattamento minimo e la sentenza della Corte Costituzionale n° 495/1993 ovvero il ricalcolo della pensione originaria ovvero il 60 per cento del maturato economico fruito dal dante causa compensivo della quota di integrazione al trattamento minimo e sentenza n° 240/1994 ovvero cristallizzazione del maturato economico alla data del 30 Settembre 1983; b) certificazione/dichiarazione attestante la decorrenza della revoca del trattamento minimo; c) certificazione/dichiarazione attestante l’importo mensile corrisposto al dante causa alla data della morte dello stesso ovvero alla rata di Luglio 1967, con l’indicazione della pensione adeguata (o a calcolo) e della quota di integrazione. Chiedono, altresì, di accertare e dichiarare che nel caso in esame trova applicazione l’articolo 54 della Legge 9 Marzo 1989 n° 88 e per gli effetti di dichiarare il loro diritto ad ottenere dall’I.N.P.S. intimato i dati pensionistici descritti nella istanza del 13 Novembre 2010, con conseguente ordine all’I.N.P.S. di Tricase di comunicare i dati pensionistici richiesti con istanza del 13 Novembre 2010.

Dopo avere illustrato il fondamento in diritto della domanda ostensiva azionata (pur non rubricando specifici motivi di gravame), i ricorrenti concludevano come sopra riportato.

Si è costituito in giudizio l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, depositando una breve memoria difensiva con la quale ha replicato alle argomentazioni delle controparti, concludendo per la reiezione del ricorso.

Alla Camera di Consiglio del 20 Aprile 2011 la causa è stata introitata per la decisione.

Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione dell’adito T.A.R..

Innanzitutto, si rileva – in linea generale – che il diritto di accesso, nell’ipotesi in cui sia diretto ad ottenere il rilascio di documenti già formati e fisicamente esistenti presso gli archivi della P.A., può essere legittimamente esercitato dal soggetto pensionato I.N.P.S. (o dai suoi eredi) utilizzando il combinato disposto (perfettamente compatibile) dell’art. 54 della Legge 9 Marzo 1989 n° 88 ("E’ fatto obbligo agli agenti previdenziali di comunicare, a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica. La comunicazione da parte degli Enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta") e degli artt. 22 e seguenti della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm. poichè, essendo stata oramai superata – in dottrina e giurisprudenza – la tesi pluralistica (propensa ad intravedere tanti diritti di accesso ontologicamente differenti quante sono le fonti normative legittimanti), si deve invece concludere nel senso che la griglia dei principi generali fissati dalla Legge 7 Agosto 1990 n° 241 (costituenti principi generali dell’attività amministrativa attinenti a livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti a tutti gli amministrati sull’intero territorio nazionale), ivi compreso lo speciale rito creato in tema di "actio ad exhibendum", è destinata a regolare l’universo intero dell’accesso ai documenti amministrativi, inteso come istituto unitario (pur nelle specifiche connotazioni di dettaglio che possono riguardare talune materie), sicchè, sul versante processuale, soggiacciono (necessariamente) al rito speciale delineato dall’art. 25 della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 (rectius: dall’art. 116 c.p.a.) tutte le controversie in tema di accesso ai documenti amministrativi proposte nei confronti della Pubblica Amministrazione e dei soggetti gestori di servizi pubblici.

Va, ancora preliminarmente, rammentato che l’art. 25 della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm., al comma primo, stabilisce che "Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge", e che il quarto comma del predetto articolo 25 individua i rimedi, amministrativi e giurisdizionali, consentiti dall’ordinamento giuridico a fronte del silenziodiniego opposto dalla Amministrazione.

L’art. 22, primo comma lett. d), della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm. qualifica, poi, come documento amministrativo "ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una Pubblica Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale".

Ciò premesso, osserva il Collegio che, per costante e condivisibile giurisprudenza, il rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 25, quarto comma, della Legge n° 241/1990 non può essere utilizzato per costringere la Pubblica Amministrazione a formare documenti amministrativi o a compiere un’attività di elaborazione di dati e documenti, ma può essere impiegato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie e di documenti già formati e fisicamente esistenti presso gli archivi dell’Amministrazione (Consiglio di Stato Sezione VI^ 10 Aprile 2003 n° 1925; 19 Settembre 2000 n° 4882; Consiglio di Stato Sezione V 1° Giugno 1998 n° 718; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 21 Settembre 2004 n° 712; T.A.R. Sicilia, Palermo Sezione II, 6 Febbraio 2004 n° 278; T.A.R. Puglia Bari, 31 Maggio 2001 n° 2032).

Ora, nel caso di specie, i ricorrenti non chiedono la presa visione o la estrazione di copia degli atti già esistenti negli archivi dell’Ente relativi alla posizione previdenziale della loro dante causa, ma si dolgono del fatto che l’I.N.P.S. di Tricase non abbia loro rilasciato le certificazioni richieste (certificazione/dichiarazione attestante che sul trattamento pensionistico di che trattasi è stata applicata la sentenza della Corte Costituzionale n° 314/1985 ovvero l’integrazione al trattamento minimo e la sentenza della Corte Costituzionale n° 495/1993 ovvero il ricalcolo della pensione originaria ovvero il 60 per cento del maturato economico fruito dal dante causa compensivo della quota di integrazione al trattamento minimo e sentenza n° 240/1994 ovvero cristallizzazione del maturato economico alla data del 30 Settembre 1983; certificazione/dichiarazione attestante la decorrenza della revoca del trattamento minimo; certificazione/dichiarazione attestante l’importo mensile corrisposto al dante causa alla data della morte dello stesso ovvero alla rata di Luglio 1967, con l’indicazione della pensione adeguata o a calcolo e della quota di integrazione) relative alla pensione di reversibilità, di cui la loro dante causa era titolare.

Stando così le cose, la domanda giudiziale formulata nel ricorso, non essendo applicabile l’art. 25 della Legge n° 241/1990 e ss.mm. (poiché non è stato chiesto il rilascio di copia dei documenti già formati e fisicamente esistenti presso gli archivi della P.A.), deve essere dichiarata inammissibile, perché non può in questa sede farsi applicazione dell’art. 54 della Legge 9 Marzo 1989 n° 88, pure invocato dagli odierni ricorrenti.

Quest’ultima disposizione di legge configura, infatti, un obbligo degli Enti previdenziali di fornire, a richiesta degli interessati, comunicazioni di carattere certificativo relative alla loro posizione previdenziale e pensionistica.

A fronte di questo obbligo, sussiste un vero e proprio diritto dell’assicurato alla corretta informazione circa la posizione previdenziale, sicchè, trattandosi di un diritto soggettivo, l’inadempimento dell’Ente previdenziale deve essere fatto valere, secondo l’ordinario criterio di riparto della giurisdizione, davanti al Giudice Ordinario (esulando, con ogni evidenza, dalla giurisdizione esclusiva del G.A. prevista unicamente in materia di accesso alla documentazione amministrativa disciplinato dalla Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm.).

Conseguentemente, nel caso di specie, la domanda giudiziale dei ricorrenti diretta alla declaratoria dell’obbligo dell’I.N.P.S. di Tricase di provvedere ai sensi dell’art. 54 della Legge n° 88/1989, in quanto correlata ad una posizione giuridica soggettiva di diritto soggettivo, deve essere dichiarata inammissibile, ricadendo nella giurisdizione dell’A.G.O. (in tal senso: T.A.R. Puglia Lecce, II Sezione, 23 Febbraio 2011 n° 350).

Comunque, ove mai si dovesse opinare nel senso dell’applicabilità del rito di cui all’art. 25 della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm. (rectius: di cui all’art. 116 c.p.a.), il ricorso introduttivo del presente giudizio sarebbe manifestamente irricevibile per tardività, in quanto intempestivamente proposto (con atto consegnato all’Ufficiale Giudiziario per la notifica solo in data 7 Febbraio 2011) ben oltre il termine decadenziale di trenta giorni dal silenzio rigetto (formatosi il 13 Dicembre 2010) sull’istanza di accesso presentata dai ricorrenti il 13 Novembre 2010.

E’ appena il caso, infatti, di rammentare, da un lato che, ai sensi dell’art. 25 quarto comma della Legge 7 Agosto 1990 n° 241 e ss.mm., "decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta" e, dall’altro, che l’art. 116 primo comma del Codice del Processo Amministrativo dispone testualmente che: "contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione alla Amministrazione e agli eventuali controinteressati".

Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo.

Sussistono gravi ed eccezionali motivi (anche tenuto conto della novità della questione giuridica e delle particolari condizioni personali e sociali dei ricorrenti) per disporre la compensazione integrale tra le parti delle spese processuali.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-11-2011, n. 25581 Assicurazione della responsabilità civile

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Svolgimento del processo

Il G. ha citato in giudizio l’Autocarrozzeria Nuova Levante s.n.c. per il risarcimento del danno alla persona che sostiene d’aver subito a causa di un incendio sprigionatosi da una vettura stazionata nei locali della convenuta. Questa ha chiamato in garanzia la Universo Ass.ni. Il primo giudice condannò la compagnia al diretto pagamento nei confronti dell’attore di una somma di danaro, nonchè in solido, l’Autocarrozzeria.

A seguito di gravame della compagnia, la Corte d’appello di Bari ha riformato la prima sentenza e respinto la domanda. Il ricorso per cassazione del G. è svolto in tre motivi. Non esistono le intimate società. Il ricorrente ha depositato memorie per l’udienza.

Motivi della decisione

Il primo motivo (vi si sostiene che si tratterebbe di cause scindibili, sicchè l’appello della sola compagnia non avrebbe potuto coinvolgere gli altri rapporti) è infondato in ragione del consolidato principio (che va qui ribadito) secondo cui: "con riferimento alla posizione dell’assicuratore della responsabilità civile (fuori dell’ambito dell’assicurazione obbligatoria), quale è configurata dall’art. 1917 cod. civ., ricorre una ipotesi di garanzia propria, atteso che il nesso tra la domanda principale del danneggiato e la domanda di garanzia dell’assicurato verso l’assicuratore è riconosciuto sia dalla previsione espressa della possibilità di chiamare in causa l’assicuratore sia dallo stesso regime dei rapporti tra i tre soggetti contenuto nell’art. 1917 c.c., comma 2. Infatti, nelle ipotesi in cui sia unico il fatto generatore della responsabilità come prospettata tanto con l’azione principale che con la domanda di garanzia, anche se le ipotizzate responsabilità traggono origine da rapporti o situazioni giuridiche diverse, si versa in un caso di garanzia propria che ricorre, solo ove il collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall’attore e quella del terzo chiamato in garanzia sia previsto dalla legge disciplinatrice del rapporto (Cass. S.U. n. 13968/04).

Altrettanto infondati sono il secondo ed il terzo motivo (che attengono al valore probatorio e confessorio della cartella clinica) in quanto la sentenza, nel rilevare il contrasto tra la ricostruzione del fatto contenuta nell’atto di citazione e le dichiarazioni rilasciate dall’infortunato all’atto del ricovero ospedaliero e trascritte nella cartella clinica (prodotta in giudizio anche dall’infortunato stesso) procede alla ricostruzione del fatto ed all’accertamento di merito intorno alla genesi delle lamentate lesioni (cfr. pag. 5 della sentenza), fornendone una motivazione immune da vizi logico-giuridici.

Il ricorso deve essere pertanto respinto, senza alcun provvedimento in ordine alle spese del giudizio di cassazione in considerazione della mancata difesa degli intimati.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-12-2011, n. 27387

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con gli artt. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate. La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr, per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Il caso in esame deve quindi essere deciso in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Ciò comporta che il ricorso deve essere accolto perchè la violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, la quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio. Il collegio ha deliberato che la presente sentenza venisse redatta con motivazione semplificata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

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Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-07-2011) 17-08-2011, n. 32157 Pena pecuniaria Sanzioni sostitutive

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 19 giugno 2009 il Tribunale di Torino in composizione monocratica dichiarava P.V. colpevole del delitto di tentato furto aggravato e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate e alla recidiva,lo condannava alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 200 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere.

A P.V. era stato contestato il reato di cui agli artt. 56, 624, art. 625 cod. pen., n. 2 e 5, perchè, al fine di trame profitto, aveva posto in essere atti diretti in modo non equivoco ad impossessarsi di due confezioni di Coppa di Parma e di sette pezzi di Parmigiano reggiano, consistiti nel prelevare i suddetti prodotti dai banchi di vendita di un supermercato e, dopo averli occultati sotto la propria giacca, nel varcare la barriera delle casse senza pagare il relativo prezzo, non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà, in quanto bloccato subito dopo il superamento delle casse da un addetto alla sicurezza del supermercato, in Torino il 10 novembre 2007, con la recidiva reiterata ed infraquinquennale.

Avverso la decisione del Tribunale di Torino ha proposto appello l’imputato.

La Corte di Appello di Torino in data 2.11.2010, con la sentenza oggetto del presente ricorso, in parziale riforma della sentenza emessa dal giudice di primo grado, gli riduceva la pena a mesi due di reclusione ed Euro 60 di multa; confermava nel resto.

Avverso la predetta sentenza P.V., a mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per Cassazione chiedendone l’annullamento e la censurava per il seguente motivo:

violazione di legge ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. b), per erronea applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 58. Osservava sul punto il ricorrente che, nell’atto di appello, era stata richiesta la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria ai sensi della L. n. 689 del 1981, artt. 58 e 53. La Corte di appello di Torino, secondo il ricorrente, aveva errato allorquando aveva negato la sostituzione della pena detentiva inflitta inferiore a sei mesi con la corrispondente pena pecuniaria, nella considerazione che l’imputato non sembrerebbe essere nelle condizioni di dare garanzie di pagamento, soprattutto alla luce di un difetto di motivazione concreta sul punto, atteso che il giudice di merito deve, tener conto dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

La sentenza impugnata ha negato la sostituzione della pena detentiva inflitta con la corrispondente pena pecuniaria, sulla base della considerazione che l’imputato non era in condizione di dare garanzie di pagamento. Tanto premesso si osserva che, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (cfr., Cass., Sezioni Unite, Sent. n. 24476 del 22.04.2010, Rv.247274)," la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, in quanto la prognosi di inadempimento, ostativa alla sostituzione in forza della L. 24 novembre 1981, art. 58, comma 2 ("Modifiche al sistema penale" art. 689, si riferisce soltanto alle pene sostitutive di quella detentiva accompagnate da prescrizioni, ossia alla semidetenzione e alla libertà controllata, e non alla pena pecuniaria sostitutiva, che non prevede alcuna particolare prescrizione".

Il giudice infatti, nell’esercitare il potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, deve tenere conto dei criteri enunciati nell’art. 133 cod. pen., tra i quali è compreso quello delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato, ma non quello delle sue condizioni economiche.

La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con rinvio limitatamente al punto concernente la sostituzione della pena detentiva con rinvio su tale punto ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino limitatamente alla mancata sostituzione della pena.

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