Cassazione penale, Sentenza n. 17305 del 2011 Stupefacenti. La crisi di astinenza non incide sulla capacità di intendere e volere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Ritenuto in fatto

[OMISSIS] ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 8 aprile 2009 della Corte di appello di Firenze che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Livorno, ha ridotto la pena a mesi 10 di reclusione per i reati ex art. 337 e 582 c.p., deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1) le conformi sentenze dei giudici di merito in punto di colpevolezza.
Con sentenza del 9 gennaio 2007, all’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Livorno ha affermato la responsabilità di [OMISSIS] in ordine ai delitti di lesioni aggravate e resistenza a pubblico ufficiale, a lui ascritti al capo A) della rubrica, nonché di danneggiamento aggravato, di cui al capo B) e, concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, ed applicata la diminuente dei rito, lo ha condannato alla pena di anni 1, mesi 4 di reclusione, interamente condonata a sensi della legge 241/2006.

La Corte di appello di Firenze con sentenza 8 aprile 2009 accertati i fatti, ha escluso la circostanza che l’imputato fosse affetto da una permanente alterazione dei processi intellettivi, assimilabile alla malattia mentale ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu determinato da un contingente stato di agitazione da crisi di astinenza, in assenza di “psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti”.

La corte distrettuale peraltro, avuto riguardo ai complessivi criteri di valutazione di cui all’art. 133 c.p., ha ritenuto eccessiva la sanzione inflitta, pur considerando la non trascurabile gravità dei fatti ascritti, avuto riguardo: al particolare stato emotivo del soggetto al momento dei fatti e l’incidenza dello stato di agitazione determinato dalla crisi di astinenza sulle sue condizioni intellettive e volitive in quella situazione; all’omessa valutazione delle attenuanti generiche non essendo stata contestata, relativamente al più grave delitto di cui all’art. 337 c.p., alcuna aggravante.

Considerato in diritto

1) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di rigetto della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo della mancata applicazione nella specie del disposto dell’art. 89 c.p. ed avuto riguardo alla pronuncia delle S.U. in tema di disturbi gravi di personalità.
Il motivo è infondato attesa la corretta motivazione del giudice del gravame.
Come già detto, la corte distrettuale – in punto di invocata seminfermità di mente dell’imputato – ha ritenuto che nella specie, non vi sia prova che l’imputato fosse affetto da una permanente alterazione dei processi intellettivi, assimilabile alla malattia mentale e rilevante ex art. 89 c.p., essendo solo desumibile dagli atti, con evidenza, che il suo comportamento violento fu determinato da un contingente stato di agitazione da crisi di astinenza, in assenza di “psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti”.

Premesso che per “crisi di astinenza”, si intende usualmente quello stato di sofferenza psicofisica (idoneo a causare anche reazioni organiche) che colpisce la persona la quale sospende oppure riduce bruscamente il consumo abituale di sostanze (quali alcool, farmaci o droga), idoneo a creare stati di dipendenza, il tenore del gravame impone una breve rassegna delle regole rilevanti sul tema ed avuto riguardo alle pronunce della Corte di legittimità la quale ha più volte ribadito:

a) che non tutti gli stati di tossicomania, la quale è una dipendenza meramente psichica alla droga, o di tossicodipendenza, che è una assuefazione cronica alla stessa, producono di per sé alterazione mentale o disagio psichico rilevante agli effetti di cui agli artt. 88 e 89 c.p., ma solo quegli stati di grave intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in grado di determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico dell’imputato, incidendo profondamente sui processi intellettivi o volitivi di quest’ultimo (Cass. pen. sez. 6, 6357/1996 Rv. 205097);

b) che la situazione di tossicodipendenza, in grado di influire sulla capacità di intendere e di volere, è solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie e consistenti disagi che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione A strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica. (Cass. pen. sez. 3, 35872/2007 Rv. 237284);

c) che per escludere (o diminuire) l’imputabilità, l’intossicazione da sostanze stupefacenti non solo deve essere cronica (cioè stabile), ma deve produrre un’alterazione psichica permanente, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie e disagi che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti; lo stato di tossicodipendenza non costituisce, pertanto, di per sé, indizio di malattia mentale o di alterazione psichica (Cass. pen. sez. 6,7885/1999 Rv. 214757);

d) che, in ogni caso, in tema di intossicazione acuta dovuta all’uso di sostanze stupefacenti, per la sussistenza del vizio di mente (totale o parziale) non è sufficiente che il giudice di merito riconduca l’azione dell’imputato ad un modello di infermità apoditticamente affermata, ma, proprio ai fini della corretta qualificazione del vizio, è necessario che indichi e valuti motivatamente i dati anamnestici, clinici, comportamentali, evincibili dalle stesse modalità del fatto, ragionevolmente rivelatori dell’asserito quadro morboso, agli effetti della sua “graduabilità” rispetto all’imputabilità. Cass. pen. sez. 6, 31483/2004 Rv. 229793 );
Orbene, nella specie, la Corte di appello con un giudizio di merito – rispettoso delle regole sub a), b) e c) – in questa sede insindacabile, ha ritenuto che la crisi di astinenza, nei termini rilevati nella condotta dell’accusato, sia stata inidonea a realizzare quella grave compromissione dei processi di intelligenza e volontà richiesta dal legislatore, il quale ha dato all’interprete un grado di misura espresso con l’inequivoca espressione “scemare grandemente”.

Nella vicenda comunque, provata l’esistenza di una crisi di astinenza, difetta invece la diversa prova di una realtà di cronica intossicazione o comunque di un disagio psichico capace di indurre una infermità di mente grandemente efficace sulla funzionalità dell’intendere e/o di volere.
Conclusione questa che non può essere invalidata dalla richiamata decisione delle S.U. 9163 del 25 gennaio 2005.
In termini va subito premesso che, secondo la più accreditata e sensibile dottrina psichiatrico – forense e medico legale, nonché per le scienze del comportamento in genere, è ormai pacifico che le nozioni di “capacità di intendere e di volere” e quella di “vizio di mente” non corrispondono a categorie scientifico-naturalistiche. Esse altro non sono che convenzioni giuridiche, nate in un periodo storico dominato dall’ideologia positivista ed ancorato a una psichiatria biologica che non è conforme alle moderne correnti psicodinamiche e fenomenologiche: esse peraltro hanno un contenuto sostanziale che la dottrina e la prassi giurisprudenziale necessariamente si sforzano di adeguare ai tempi, come avvenuto in tema di disturbi gravi di personalità.

Su tale tema infatti un punto nodale di riferimento è notoriamente dato dalla sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite, la quale ha stabilito che anche i “disturbi della personalità”, come quelli da nevrosi e da psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa.

Peraltro la portata dell’affermazione è stata dalla stessa Corte tarata e ridimensionata con le ulteriori precisazioni che sono state date dalle regole-corollario secondo cui non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre “anomalie caratteriali” o gli “stati emotivi e passionali”, i quali non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente. È inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.
Per riassumere: i disturbi della personalità (nevrosi e psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle norme degli artt. 88 ed 89 C.P., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, a condizione che essi abbiano, riferiti alla capacità di intendere e di volere, le seguenti qualità, globalmente in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito e cioè:
consistenza e intensità, intese come valore concreto e forte; rilevanza e gravità pesate come dimensione importante del disagio stabilizzato; c) rapporto motivante con il fatto commesso, apprezzato come correlazione psico – emotiva rispetto al fatto illecito (cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6, 43285/2009 Rv. 245253).

Orbene, venendo al caso di specie, l’affermata mera condizione di un generico stato di agitazione da crisi da astinenza, in capo all’autore della condotta illecita (di resistenza violenta, di lesioni e di danneggiamento), non accompagnata da altre provate indicazioni in termini di grande e grave disassamento, da infermità, delle funzioni noetiche e volitive dell’agente, non integra lo schema dogmatico dell’art. 89 c.p., dato che essa realizza una mera condizione di stato emotivo e passionale, non incidente ex art. 90 c.p. sugli ambiti dell’intendere e del volere, anche se utilizzabile, come avvenuto nella gravata sentenza in termini di graduazione del trattamento sanzionatorio.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta la mancata applicazione nel massimo delle ritenute e riconosciute circostanze attenuanti generiche.

Il motivo per come formulato è inammissibile: i giudici di merito, con argomentazione non censurabile in questa sede, hanno applicato le circostanze attenuanti generiche per il reato più grave in misura diversa da quella massima, avuto riguardo ai reati satelliti e ai pesanti precedenti penali dell’imputato.

Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 5 maggio 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-12-2010) 20-01-2011, n. 1578 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con ordinanza in data 7.11.2009 – la cui esecuzione è stata sospesa ai sensi della L. 20 giugno 2003, n. 140, art. 4, comma 2 in attesa della autorizzazione da parte della Camera dei Deputati, negata il 10.12.2009 – il G.I.P. del Tribunale di Napoli dispose la custodia in carcere nei confronti di C.N., Deputato al Parlamento e Sottosegretario di Stato all’economia ed alle finanze, ritenendolo gravemente indiziato del reato di concorso esterno nell’associazione camorristica nota come clan dei casalesi.

Avverso tale ordinanza fu proposto ricorso per cassazione dall’indagato, ai sensi dell’art. 311 c.p.p., comma 2, ma la Corte Suprema di cassazione, Sezione 1^ penale, con sentenza n. 8158/2010 in data 28.1.2010 dep. 2.3.2010, rigettò il ricorso.

Nelle more, in data 19.11.2009 fu presentata dalla difesa richiesta di revoca della misura, limitatamente alla dedotta cessazione delle esigenze cautelari. Il G.I.P. respinse l’istanza con ordinanza in data 27.11.2009, ritenendo non superata la presunzione stabilita dall’art. 275 c.p.p., comma 3. Detta ordinanza non fu impugnata.

In data 25.5.2010 la difesa dell’indagato presentò ulteriore istanza di revoca della misura cautelare, sempre limitata alla ritenuta insussistenza delle esigenze cautelari, sull’assunto che fosse superata la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. Il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli respinse l’istanza con ordinanza in data 26.5.2010 depositata il 27.5.2010.

Avverso tale ordinanza fu proposto appello, ma il Tribunale di Napoli, con ordinanza 28.9.2010, depositata il 7.10.2010 rigettò l’impugnazione.

Ricorrono per cassazione, contro l’ordinanza del Tribunale, i difensori della persona sottoposta ad indagini, deducendo violazione della legge sostanziale e processuale, nonchè vizio di motivazione in relazione alla falsa applicazione della presunzione relativa di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, ultima parte, alla violazione dell’obbligo di delibazione e motivazione sui temi e gli argomenti posti a fondamento della domanda difensiva, alla elusione del contraddicono ed alla omessa considerazione degli specifici punti di doglianza.

Dopo aver richiamato la "narrativa" che apriva l’appello, si sottolineava che la seconda decisione del G.I.P. non aveva preso in considerazione le richieste della difesa, laddove lo si invitava a valutare le ulteriori deduzioni difensive "… in sinergia con fatti e circostanze già dedotte" nella precedente istanza e valutate nel rigetto della stessa, dolendosi del fatto che i vecchi elementi non fossero stati valutati insieme a quelli nuovi, con un apprezzamento globale.

Il Tribunale di Napoli avrebbe effettuato un’arbitraria delimitazione del devolutum, ritenendo di poter esaminare esclusivamente (e neppure tutti avendo trascurato, sia il G.I.P. che il Tribunale, due dei quattro punti nuovi sottoposti al loro esame), gli elementi nuovi, sul presupposto che le altre argomentazioni erano state oggetto di valutazione dell’ordinanza di rigetto del 27.11.2009.

Peraltro la richiesta difensiva era di valutare contemporaneamente tutti gli elementi offerti, in un giudizio globale.

Il Tribunale avrebbe errato nel momento in cui ha ritenuto che al G.I.P. fosse precluso il potere di riconsiderare gli elementi di fatto già qualificati insufficienti al superamento della presunzione di pericolosità, dal momento che il "giudicato cautelare" non impedisce di valutare nuovi elementi insieme a quelli precedenti.

Sono inoltre state trascurate alcune specifiche doglianze formulate nell’impugnazione quali:

– la contraddittorietà della motivazione rispetto alla qualità di Parlamentare, valutata negativamente, mentre nell’ordinanza di custodia cautelare era stata ritenuta indice di elisione di pericolosità;

– la trasformazione della pericolosità relativa di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 in una presunzione di fatto assoluta, legata allo status di Parlamentare (status che, ove l’indagato si fosse dimesso, avrebbe fatto rivivere il pericolo originariamente eliso);

– la contraddittorietà argomentativa del G.I.P. relativa alla valorizzazione delle dichiarazioni di tre nuovi collaboratori di giustizia ( F., Fr. e P.) che nella prima ordinanza reiettiva il G.I.P. aveva ritenuto immeritevoli di considerazione in quanto evanescenti e per le quali erano necessari approfondimenti investigativi;

– l’individuazione di una soglia di esigibilità della prova contraria di fatto irraggiungibile, posto che si pretenderebbe la dimostrazione dell’impossibilità astratta di reiterazione;

– l’omessa considerazione dello scadimento del peso politico di C. in ragione e per l’effetto dell’indagine e della misura adottata nei suoi confronti e della intervenuta dismissione della carica di Sottosegretario di Stato, ritenuta dal G.I.P. ostativa al superamento della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3.

In sostanza era richiesto di valutare se la presunzione di pericolosità fosse superata dall’insieme degli elementi rappresentati e cioè:

1. il fatto che le condotte contestate, secondo l’ordinanza di custodia cautelare, risalivano al (OMISSIS);

2. l’intervenuto fallimento della ECO4 S.p.A. ritenuta oggetto, occasione e strumento del contributo penalmente rilevante;

3. il comportamento politico di C. a far tempo dal (OMISSIS) e le sue iniziative pubbliche di contrasto alla camorra;

4. il comportamento processuale e le reiterate richieste di essere interrogato e la produzione di una memoria a far tempo dal (OMISSIS);

5. il sopravvenuto arresto di tutti gli esponenti malavitosi con i quali, secondo l’accusa, C. avrebbe contratto un debito di riconoscenza;

6. le modifiche delle meccaniche elettorali che renderebbero superflui i pretesi appoggi elettorali;

7. le iniziative pubbliche anticamorra assunte in epoca antecedente il disvelamento dell’esistenza delle indagini;

8. la cessazione dal (OMISSIS) delle relazioni camorristiche tra gli O., diretti referenti di C., e gli ambienti della criminalità organizzata, dichiarata giudizialmente;

9. la irreversibile riduzione del peso politico di C. in conseguenza della misura cautelare;

10. la dismissione dell’incarico di Sottosegretario di Stato all’economia e finanze;

11. la rinunzia da parte dell’indagato, alla candidatura alla Presidenza della Regione Campania.

Il ricorso non è fondato e svolge anche talune doglianze inammissibili.

Benchè le questioni sottoposte a questa Corte riguardino solo il superamento della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, è opportuno richiamare la ricostruzione dei fatti operata dalla Sezione 1^ penale di questa Corte, con sentenza n. 8158/2010 in data 28.1.2010 dep. 2.3.2010, citata, che ha rigettato il ricorso per saltum. Ciò sia per una migliore comprensione della vicenda che per la corretta valutazione delle doglianze esposte nel ricorso.

La 1^ Sezione penale di questa Corte ha osservato che, secondo l’ipotesi accusatoria, sin dall’inizio degli anni (OMISSIS) C. N. avrebbe stretto un patto con esponenti dei gruppi dell’associazione camorristica facenti capo alla famiglia Bidognetti e, in una seconda fase, a quelli facenti capo alla famiglia Schiavone, patto che lo avrebbe portato a fornire con continuità un contributo al rafforzamento dei suddetti gruppi camorristici in cambio di sostegno nelle competizioni elettorali cui partecipò, quali quella per l’elezione a consigliere provinciale di (OMISSIS) nelle liste del P.S.O.I. nel (OMISSIS) e, dopo il passaggio al partito di Alleanza Nazionale, quella per consigliere regionale della Campania nel (OMISSIS) e per deputato nel (OMISSIS) per la lista di Forza Italia. In particolare, il sostegno prestato ai sodalizi camorristici sarebbe stato realizzato creando e cogestendo monopoli di impresa, come la ECO4 S.p.A., in attività, dagli stessi controllate, che pure sfruttava per scopi elettorali anche mediante l’assunzione di personale e per diverse utilità, ed, ancora, garantendo il permanere dei rapporti tra imprenditoria mafiosa e amministrazioni pubbliche, nonchè assicurando il perpetuarsi delle dinamiche criminali economiche con indebite pressioni su strutture pubbliche. La ECO4 S.p.A. – società che, operando nel campo della raccolta e smaltimento dei rifiuti nella provincia di (OMISSIS), aveva acquisito l’affidamento diretto del servizio di raccolta in numerosi Comuni di quel bacino consortile – era una società mista, formata il 28.8.2000, in cui accanto al partner pubblico, rappresentato dal consorzio denominato CE4 raggruppante diciotto Comuni dell’area (OMISSIS), presieduto da V.G., vi era l’impresa, operante soprattutto in campo edilizio, dei fratelli O.M. (ucciso in data (OMISSIS)) e O.S. accanto ai quali, secondo la ricostruzione degli inquirenti, era stato inserito come socio occulto per volontà di B.F., capo dell’omonimo gruppo camorristico, l’imprenditore Va.Ga., il quale vantava maggiore esperienza nel campo dei rifiuti.

Sulla base delle dichiarazioni rese nel corso del (OMISSIS) da Va., divenuto collaboratore di giustizia, gli inquirenti hanno ricostruito la genesi e le attività poste in essere, anche con metodi intimidatori, le strategie espansive e le vicende della ECO4.

Secondo l’ordinanza cautelare, dette dichiarazioni sono state confermate da riscontri documentali, intercettativi e dichiarativi desunti da quanto riferito da altri collaboratori, soprattutto D. L. e D.A., dagli stessi fratelli O., da V. e da F.N., concorrente degli O. che ebbe a subire pressioni per lasciare loro il campo libero. Da tali elementi di prova gli inquirenti hanno tratto argomento per ritenere che la società ECO4 era stata strumento di penetrazione di gruppi camorristici che intendevano collocarsi in posizione di monopolio nel campo della gestione dei rifiuti. C., secondo Va., sarebbe divenuto, oltre che referente politico anche cogestore.

Va. ha dichiarato che:

– aveva conosciuto C. prima del (OMISSIS) tramite C. B., parente di B.F.;

– Ci. gli aveva detto che B. voleva che presentasse C. al personale della sua impresa di (OMISSIS) in vista delle elezioni provinciali, cosa che Ci. asseriva di avere fatto sponsorizzando poi anche altre campagne elettorali dell’indagato;

– nel (OMISSIS) era stato presente alla consegna di una busta contenente la somma di Euro 50.000 Euro (importo poi rettificato in L. 50.000.000 e quindi il fatto sarebbe da collocare prima della cessazione della circolazione della lira) da parte di O.S. a C., il quale, essendo consapevole del suo inserimento nella ECO4, avrebbe pronunciato la frase "quella società … song ‘io" e aveva ringraziato entrambi;

– in occasione di tale incontro, avvenuto nell’abitazione di (OMISSIS) del Parlamentare, O.S. aveva manifestato a C. il progetto di espandersi in altri bacini consortili dell’area (OMISSIS) (quelli denominati CE2 e CE3) perorando il suo interessamento con i Comuni e C. gli aveva risposto che doveva pazientare perchè era necessario operare gradualmente;

– nel (OMISSIS), dopo essere stato estromesso dalla ECO4, aveva avuto un altro incontro con C., sempre nella sua abitazione di (OMISSIS), in cui costui gli aveva spiegato che ciò era avvenuto perchè gli interessi economici del "clan dei casalesi" nella gestione dei rifiuti si erano focalizzati nell’area controllata dagli Schiavone, per cui il gruppo Bidognetti era stato tenuto fuori ed egli aveva dovuto adeguarsi a questa scelta.

In ordine alle assunzioni clientelari a fini di aggregazione del consenso elettorale e di conseguimento degli affidamenti comunali del servizio di raccolta rifiuti, che secondo l’ipotesi accusatoria costituivano uno dei termini essenziali del rapporto di scambio instaurato tra la ECO4 e l’indagato, nell’ordinanza impugnata sono state valorizzate le dichiarazioni di O.M., di O. S., di V. e di esponenti del clan dei "casalesi" divenuti collaboratori di giustizia, ed in particolare S.C., D.S.D., B.D., Fe.Ra. e Fr.Do..

Contro l’ordinanza che aveva disposto la misura coercitiva, con il ricorso per saltum, erano stati proposti sette motivi di gravame deducendo:

1. la nullità dell’ordinanza impugnata ex art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c-bis) per mancata esposizione delle ragioni per le quali erano stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa in una memoria datata 11.12.2008;

2. la nullità dell’ordinanza impugnata ex art. 178 c.p.p., lett. c) per mancata audizione dell’indagato, che il 21.10.2009 ne aveva fatto richiesta al P.M., ai sensi dell’art. 374 cod. proc. pen.;

3. la violazione dell’art. 273 c.p.p., comma 1-bis e art. 292 c.p.p., lett. c) in punto di valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia;

4. la inutilizzabilità di tutti gli atti investigativi, ed in particolare delle dichiarazioni del collaboratore Va., per violazione dell’art. 335 cod. proc. pen.; C. era stato iscritto nel registro delle notizie di reato solo il (OMISSIS), pochi giorni prima della richiesta cautelare, mentre le dichiarazioni a suo carico di Va. erano del (OMISSIS) e alcune dichiarazioni di "casalesi" divenuti collaboratori, menzionate nell’ordinanza, erano state rese negli anni (OMISSIS); nei motivi nuovi era precisato che in realtà Cosentino era stato già iscritto nel registro delle notizie di reato il (OMISSIS) per fatti di corruzione, aggravata ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 per i quali pure è stata avanzata richiesta di emissione di misure coercitiva che non era stata però accolta dal G.I.P.;

5. la inutilizzabilità, per violazione dell’art. 270 cod. proc. pen., delle intercettazioni telefoniche eseguite in altri procedimenti;

6. la violazione dell’art. 273 c.p.p., comma 1 e art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) in ordine all’esistenza dei gravi indizi;

7. la inesistenza della esigenza cautelare di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c), segnalando l’inesigibilità, anche in astratto, della prova positiva di un recesso dal concorso esterno nell’associazione mafiosa al fine di considerare superata la presunzione di pericolosità e di inadeguatezza di ogni misura diversa dalla custodia in carcere di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 e che, in concreto, non era stato tenuto conto del lungo tempo trascorso dai fatti cui è stata attribuita rilevanza penale, collocabili al più tardi nel (OMISSIS), del successivo comportamento di C., improntato ad iniziative di contrasto alla criminalità organizzata, del suo leale atteggiamento processuale, dell’arresto degli esponenti dei gruppi camorristici nei cui confronti secondo l’ipotesi accusatoria il predetto avrebbe un debito di riconoscenza, nonchè degli attuali meccanismi elettorali che avrebbero tolto importanza alla ricerca di voti di preferenza, avendo assegnato decisivo rilievo alla designazione ad opera dei partiti.

La 1^ Sezione penale della Corte Suprema di cassazione, ricordato che il ricorso per saltum era consentito solo per violazione di legge, rilevava che:

1. il primo motivo di ricorso era infondato poichè la memoria di C. era stata acquisita agli atti del procedimento ed era stata trasmessa al G.I.P., che l’aveva esaminata e ne aveva fatto menzione in numerosi passi dell’ordinanza impugnata;

2. il secondo motivo di ricorso era infondato non essendovi obbligo del P.M. di interrogare l’indagato;

3. il terzo motivo di ricorso era inammissibile in quanto relativo a vizio di motivazione;

4. il quarto motivo di ricorso era infondato in quanto il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito;

5. il quinto motivo era generico ed infondato trattandosi di atti di indagine riguardanti l’attività dell’associazione camorristica denominata clan dei casalesi, rispetto alla quale è stato addebitato a C. il concorso esterno;

6. il sesto motivo di ricorso era inammissibile perchè relativo a vizio di motivazione;

7. il settimo motivo di ricorso era infondato in quanto, nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che, in forza della disposizione in esame, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per l’indicata categoria di delitti giustifica l’applicazione della più grave misura cautelare, considerata, ope legis, l’unica adeguata rispetto alle esigenze cautelari riconducibili alla commissione dei suddetti delitti, sicchè la presunzione legale di pericolosità può ritenersi superata soltanto in presenza di concreti e specifici elementi in base ai quali risulti dimostrata l’insussistenza di qualsiasi periculum in liberiate (Cass., Sez. 6, 3.10.2008, Cenami, rv 241484; Sez. 1, 28.5.2008, Gabriele, rv. 240810); tale linea interpretativa ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite, le quali hanno riconosciuto che, ricorrendo gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione di stampo mafioso, deve essere senz’altro applicata la misura della custodia cautelare in carcere, senza necessità di accertare le esigenze cautelari, che sono presunte per legge, sicchè al giudice di merito incombe solo l’obbligo di dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione, mentre l’obbligo della motivazione diventa più rigoroso nell’ipotesi in cui l’indagato abbia posto in evidenza elementi idonei a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari, dovendosi allora addurre o, quanto meno, dedurre gli elementi di fatto sui quali la prognosi positiva può essere fatta (Cass., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, rv. 199387); l’esistenza di una simile presunzione è stata giudicata compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento, avendo la Corte costituzionale dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27 Cost., in quanto, fermo restando il potere del giudice di merito di apprezzare la sussistenza in concreto delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge, la previsione dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo la quale per i reati aggravati dalla finalità di agevolazione di associazioni di tipo mafioso la sola misura cautelare applicabile è la custodia in carcere, non costituisce nè irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore, nè violazione del principio di eguaglianza, in considerazione dell’elevato e specifico coefficiente di pericolosità per la convivenza e la sicurezza collettiva inerente a tali reati, nè, risultando rispettata la riserva di legge, violazione dell’art. 13 Cost., mentre l’art. 27 Cost. non è applicabile alle misure coercitive personali adottate per finalità cautelari (Corte Cost., ord. 18.10.1995, n. 450); le argomentazioni dell’ordinanza di custodia in tema di esigenze cautelari integravano una motivazione adeguata, sicchè la pronuncia non era censurabile sotto il profilo del vizio di violazione di legge. L’ordinanza del G.I.P. in data 27.11.2009, di reiezione dell’istanza di revoca dell’ordinanza di custodia cautelare presentata in data 19.11.2009, non impugnata, aveva preso in esame (e ritenuto insufficienti a superare la presunzione di pericolosità di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3) i seguenti elementi:

– il fatto che le condotte ascritte non supererebbero l’anno (OMISSIS);

– il superamento delle meccaniche elettorali pregresse e la decisiva importanza delle designazioni ad opera dei partiti;

– il comportamento leale e disponibile dell’indagato verso l’autorità giudiziaria, attraverso l’istanza di presentazione;

– la sopravvenuta detenzione degli esponenti di spicco del clan dei casalesi;

– l’incensuratezza dell’indagato;

– le prese di posizione di C. (desunte da alcuni articoli giornalistici) contro la camorra.

Nella ulteriore istanza di revoca della misura coercitiva presentata in data 14.5.2010 e rigettata con ordinanza 26.5.2010, dopo aver richiamato le precedenti decisioni della 1^ Sezione penale di questa Corte e dello stesso G.I.P. nella precedente ordinanza reiettiva, si dava atto di due nuovi elementi:

– l’annullamento con rinvio da parte della 4^ Sezione penale di questa Corte dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli, che aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di O.S.; l’annullamento era avvenuto sotto il profilo della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, poi ritenuta superata in sede di giudizio di rinvio; peraltro il G.I.P. non riteneva estensibili le argomentazioni a C.;

– le prese di posizione pubbliche dell’indagato contro la camorra, anteriori alla presentazione della memoria difensiva (e quindi non riconducibili all’intento di contrastare le accuse), che sono state ritenute troppo generiche e astratte.

Nell’appello avverso tale ordinanza venivano dedotte tre censure alla motivazione del G.I.P.:

– la trasformazione della presunzione relativa di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 in una presunzione assoluta; in ogni caso non sarebbe sufficiente il titolo di reato a fondare la presunzione in presenza di circostanze che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità del soggetto, anche alla luce della revoca dell’ordinanza cautelare nei confronti di O.S.; inoltre in ipotesi di concorso esterno il recesso sarebbe inesigibile;

– l’attualità delle esigenze cautelari erroneamente ricollegate alle medesime nuove emergenze investigative ritenute, in occasione del primo rigetto, inconsistenti in chiave indiziaria, nonchè alla qualità di Parlamentare e di Sottosegretario di Stato di C.; peraltro sulla scorta di tale qualità era stato escluso il pericolo di fuga;

– l’ininfluenza degli elementi sopravvenuti indicati dalla difesa, ai fini del giudizio di pericolosità sociale.

Della motivazione dell’ordinanza qui impugnata si tratterà esaminando le singole doglianze.

Nel ricorso viene anzitutto lamentata l’errata applicazione del ed. giudicato cautelare da parte del Tribunale.

In proposito va premesso che le ordinanze in materia cautelare, quando siano esaurite le impugnazioni previste dalla legge, hanno efficacia preclusiva "endoprocessuale" riguardo alle questioni esplicitamente o implicitamente dedotte, con la conseguenza che una stessa questione, di fatto o di diritto, una volta decisa, non può essere riproposta, neppure adducendo argomenti diversi da quelli già presi in esame. (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 7375 del 3.12.2009 dep. 24.2.2010 rv 246026).

Nel caso in esame, pertanto, non potevano essere riproposte le questioni della pretesa trasformazione della presunzione relativa di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 in una presunzione assoluta; del fatto che non sarebbe sufficiente il titolo di reato a fondare la presunzione richiamata in presenza di circostanze che facciano ragionevolmente escludere la pericolosità del soggetto ed il fatto che, in ipotesi di concorso esterno il recesso sarebbe inesigibile.

Tali doglianze erano già state rigettate nella sentenza della 1^ Sezione penale di questa Corte, sotto il profilo della violazione di legge, che è quello per il quale vengono nuovamente dedotte.

Peraltro tali doglianze, quand’anche fossero riguardate sotto il profilo del vizio di motivazione, sono comunque manifestamente infondate, avendo questa Corte chiarito che, in tema di revoca della custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis cod. pen.), l’art. 275 c.p.p., comma 3 pone una presunzione di pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione. Ne deriva che la prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che rendono impossibile (e perciò stesso in assoluto e in astratto oggettivamente dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la presunzione di pericolosità. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 305 del 15.12.2006 dep. 10.1.2007 rv 235367).

Anche per il concorso esterno in associazione di stampo mafioso scatta la presunzione di pericolosità prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, in ordine alle esigenze cautelari, in quanto integra pur sempre una partecipazione nel reato associativo e comunque persegue il fine di agevolare l’attività di tali sodalizi. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 48444 del 18.11.2004 dep. 16.12.2004 rv 230512).

Neppure può dirsi che in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso sia impossibile il recesso, risolvendosi questo in percepibili segnali di discontinuità del comportamento (v., sia pure nel diverso ambito delle misure di prevenzione Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1023 del 2006).

Le associazioni di tipo mafioso infatti per un verso presentano un elevato grado di stabilità e permanenza nel tempo e per altro verso non sono circoli dei quali si possa cessare di far parte semplicemente non rinnovando l’iscrizione o comunicando la disdetta, ma uscire dai quali, il più delle volte comporta rappresaglie o gravi conseguenze per l’interessato ed i suoi familiari.

Queste considerazioni possono valere anche per il concorrente esterno, dal quale l’associazione ha ricevuto un apporto e sul quale, secondo le sue regole e le prassi comportamentali, ritiene di poter continuare a contare in caso di bisogno, quando, come nel caso in esame, si assume che l’apporto sia stato fornito per un notevole arco temporale, dando origine a rapporti stabili.

Sono perciò necessari inequivoci segnali di discontinuità del comportamento da parte del concorrente esterno che evidenzino la presa di distanza dall’associazione di tipo mafioso.

Inammissibile è altresì la doglianza secondo la quale il G.I.P. prima ed il Tribunale poi non avrebbero considerato due dei quattro punti nuovi sottoposti a loro esame, dal momento che nel ricorso non sono indicati espressamente i punti trascurati, con conseguente genericità del ricorso sul tema in questione.

E’ peraltro vero che il fatto che alcune doglianze siano state ritenute inidonee ad elidere la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, non implica che le stesse non debbano essere valutate unitamente ad ulteriori elementi rappresentati, al fine di tranne un giudizio globale sulla persistenza o meno di un giudizio di pericolosità.

Si deve quindi esaminare se sia vero che il G.I.P. non aveva preso in considerazione le richieste della difesa, laddove lo si invitava a valutare le ulteriori deduzioni difensive "… in sinergia con fatti e circostanze già dedotte" nella precedente istanza e valutate nel rigetto della stessa e che il Tribunale di Napoli avrebbe effettuato un’arbitraria delimitazione del devolutum, ritenendo di poter esaminare esclusivamente gli elementi nuovi, sul presupposto che le altre argomentazioni erano state oggetto di valutazione dell’ordinanza di rigetto del 27.11.2009.

Dall’esame dell’ordinanza 26.5.2010 emerge che il G.I.P. non ha affatto omesso di valutare unitariamente gli elementi rappresentati, ma li ha esaminati in parte richiamando la pronunzia della 1^ Sezione di questa Corte (p. 1 – 3), in parte richiamando la propria precedente ordinanza (p. 3 – 6) ed in parte svolgendo ulteriori argomenti sui nuovi elementi dedotti (p. 6-10).

Si tratta in buona sostanza, per la parte relativa alle precedenti deduzioni difensive già valutate, di motivazione per relationem, pacificamente legittima (V. Cass. Sez. Un. Sentenza n. 17 del 21.6.2000 dep. 21.09.2000 Rv. 216664).

Il Tribunale nell’ordinanza qui impugnata ha richiamato l’ordinanza di custodia cautelare per la parte relativa alle esigenze cautelari (p. 1 – 3), il ricorso e la decisione della 1^ Sezione penale di questa Corte (p. 3 – 11), l’istanza 19.11.2009, il parere del P.M. e l’ordinanza di rigetto 27.11.2009 (p. 11 – 16) per poi esaminare gli ulteriori elementi dedotti con l’appello (p. 16 – 18). Il predetto giudice di appello non ha affatto rinunziato a valutare unitariamente gli elementi dedotti e neppure ha affermato che il G.I.P. non era legittimato a farlo, ma ha motivato per relationem affermando che "gli elementi fattuali" espressi nell’ordinanza 27.11.2009, non impugnata, dovevano ritenersi non contestati.

Quanto alle doglianze relative al supposto mancato esame di specifiche doglianze va anzitutto ricordato che è giurisprudenza consolidata di questa Corte che, nella motivazione del provvedimento, il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, (in questo senso v. Cass. Sez. 4 sent. n. 1149 del 24.10.2005 dep. 13.1.2006 rv 233187).

Del resto questa Corte ha chiarito che "In sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicchè, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione". (Cass. Sez. 2 sent. n. 29434 del 19.5.2004 dep. 6.7.2004 rv 229220. Nella specie la Corte ha ritenuto che la semplice circostanza che alcuno dei collaboranti avesse taciuto in ordine alla presenza di uno dei coimputati in seno all’associazione per delinquere, non incrinava la logicità della motivazione della Corte di merito che aveva confermato la responsabilità dell’imputato).

Si deve in secondo luogo ricordare che anche all’appello ex art. 310 cod. proc. pen. è applicabile il generale principio in forza del quale il provvedimento impugnato e quello di appello, quando non vi è difformità sul punto denunciato, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico e inscindibile. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5615 in data 8.10.1997 dep. 28.1.1998 rv 209515).

Esaminando quindi congiuntamente il provvedimento del G.I.P., quello del Tribunale e gli altri richiamati per relationem, si deve concludere che tutte le doglianze che si assumono trascurate sono in realtà state esaminate esplicitamente o implicitamente.

In particolare:

– è stata implicitamente disattesa la dedotta contrade)ittorietà della motivazione rispetto alla qualità di Parlamentare, valutata negativamente nel provvedimento di rigetto, mentre nell’ordinanza di custodia cautelare sarebbe stata ritenuta indice di elisione di pericolosità; infatti attraverso il richiamo ai precedenti atti si evidenzia che la qualità di Parlamentare e quella di Sottosegretario di Stato erano state ritenute idonee ad elidere il pericolo di fuga, ma non quello di reiterazione di reati e ciò esclude qualunque contraddizione;

– la trasformazione della pericolosità relativa di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 in una presunzione di fatto assoluta, legata allo status di Parlamentare (status che, ove l’indagato si fosse dimesso, avrebbe fatto rivivere il pericolo originariamente eliso), oltre ad essere preclusa per le ragioni sopra esposte è stata esaminata sotto il profilo del richiamo alla giurisprudenza di legittimità;

– la contraddittorietà argomentativa del G.I.P. relativa alla valorizzazione delle dichiarazioni di tre nuovi collaboratori di giustizia ( F., Fr. e P.) che nella prima ordinanza reiettiva il G.I.P. aveva ritenuto immeritevoli di considerazione in quanto evanescenti e per le quali erano necessari approfondimenti investigativi è stata implicitamente esclusa attraverso il richiamo testuale (p. 20) all’ordinanza 27.5.2010 del G.I.P., laddove si afferma che se tali dichiarazioni erano non erano state ritenute centrali nella ricostruzione dell’addebito di concorso esterno, esse "erano attendibile conferma di una relazione durevole di sostegno elettorale";

– l’individuazione di una soglia di esigibilità della prova contraria di fatto irraggiungibile, posto che si pretenderebbe la dimostrazione dell’impossibilità astratta di reiterazione, dedotta come violazione di legge è preclusa ed è comunque manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte; d’altro canto nel giudizio di legittimità il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito.

(Cass. Sez. 2, sent. n. 3706 del 21.1.2009 dep. 27.1.2009 rv 242634);

– l’omessa considerazione dello scadimento del peso politico di C. in ragione e per l’effetto dell’indagine e della misura adottata nei suoi confronti e della intervenuta dismissione della carica di Sottosegretario di Stato, ritenuta dal G.I.P. ostativa al superamento della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 è stata implicitamente disattesa attraverso il ritenuto persistere della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. In definitiva, tutti gli elementi di cui si chiedeva la valutazione unitaria al fine di verificare se la presunzione di pericolosità fosse superata dall’insieme degli elementi rappresentati sono stati esaminati.

Infatti:

1. il risalire delle condotte contestate al (OMISSIS) è stata valutata attraverso i richiami all’ordinanza di custodia cautelare e quanto ai profili della violazione di legge alla sentenza della 1^ Sezione penale di questa Corte;

2. l’intervenuto fallimento, avvenuto nel (OMISSIS), della ECO4 S.p.A. ritenuta oggetto, occasione e strumento del contributo penalmente rilevante è stato ritenuto non indicativo del superamento del pericolo di recidiva, essendo già emersa dagli atti la mutevolezza delle forme sociali attraverso le quali le strategie della camorra casalese nel settore dei rifiuti venne perseguita (p. 6 dell’ordinanza 26.5.2010 del G.I.P., che a sua volta richiama quella del 27.11.2009 entrambe richiamate dall’ordinanza del Tribunale qui impugnata);

3. il comportamento politico di C. a far tempo dal (OMISSIS) e le sue iniziative pubbliche di contrasto alla camorra sono state ritenute espressione di attività difensive, siccome C. era già al corrente delle indagini e comunque astratte (p. 6 dell’ordinanza 26.5.2010 del G.I.P., che a sua volta richiama quella del 27.11.2009 entrambe richiamate dall’ordinanza del Tribunale qui impugnata);

4. il comportamento processuale e le reiterate richieste di essere interrogato e la produzione di una memoria a far tempo dal (OMISSIS) è stato implicitamente valutato nelle argomentazioni di cui al punto precedente;

5. il sopravvenuto arresto di tutti gli esponenti malavitosi con i quali, secondo l’accusa, C. avrebbe contratto un debito di riconoscenza è stato valutato e disatteso dal G.I.P. sull’assunto che il coinvolgimento di C. nell’affare ECO4 era avvenuto mentre B.F. era già in carcere (p. 5 dell’ordinanza 26.5.2010 del G.I.P., che a sua volta richiama quella del 27.11.2009 entrambe richiamate dall’ordinanza del Tribunale qui impugnata);

6. le modifiche delle meccaniche elettorali che renderebbero superflui i pretesi appoggi elettorali sono state disattese in quanto il sostegno dei Casalesi poteva servire a sostenere candidati indicati da C. nelle competizioni minori aumentandone il peso politico (p. 5 dell’ordinanza 26.5.2010 del G.I.P., che a sua volta richiama quella del 27.11.2009 entrambe richiamate dall’ordinanza del Tribunale qui impugnata);

7. le iniziative pubbliche anticamorra assunte in epoca antecedente il disvelamento dell’esistenza delle indagini sono state ritenute generiche ed astratte (p. 11 ordinanza 26.5.2010 del G.I.P., richiamata dall’ordinanza del Tribunale qui impugnata);

8. la cessazione dal (OMISSIS) delle relazioni camorristiche tra gli O., diretti referenti di C., e gli ambienti della criminalità organizzata, dichiarata giudizialmente sono state oggetto di ampia disamina da parte del G.I.P. (p. 6 – 11 dell’ordinanza 26.5.2010, richiamata dal Tribunale nell’ordinanza qui impugnata, rilevando che sul punto non erano svolte valide censure);

9. la irreversibile riduzione del peso politico di C. in conseguenza della misura cautelare è stata implicitamente disattesa nell’argomento della persistenza dell’appoggio politico del clan dei casalesi di cui al punto 6; sul punto è peraltro analitica la motivazione del Tribunale alla p. 21 che richiama quella del G.I.P.;

10. la dismissione dell’incarico di Sottosegretario di Stato è elemento successivo alla decisione del G.I.P. impugnata sicchè non poteva essere valutata;

11. la rinunzia alla candidatura alla Presidenza della Regione Campania, è elemento, come la diminuzione del peso politico, implicitamente disatteso attraverso le ragioni esposte al punto 6.

In definitiva tutti gli argomenti svolti dalla difesa e che potevano o dovevano essere valutati sono stati esaminati ed ad essi è stata data risposta esplicita od implicita e nelle motivazioni del provvedimento impugnato ed in quelli richiamati per relationem non vi è alcuna violazione di legge nè, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

In presenza di doglianze in parte inammissibili ed in parte infondate il ricorso deve perciò essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31-01-2011, n. 697 Professori universitari associati

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia, sede di Brescia, il prof. N.B. impugnava il provvedimento in data 24 novembre 2000 con il quale il Rettore magnifico dell’Università di Brescia gli aveva negato la possibilità di continuare ad esercitare attività professionale extramuraria dopo la chiamata a ricoprire il posto di ruolo di sua spettanza a seguito della vittoria del concorso a professore associato per il settore scientifico disciplinare "malattie odontostomatologiche" indetto con D.M. 22 dicembre 1995 e 29 febbraio 1996.

Lamentava violazione dell’art. 5, commi 7, 8, 10 e 12 del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, ovvero incostituzionalità delle medesime disposizioni per contrasto con gli artt. 3, 41 e 77 della costituzione.

Con ulteriore ricorso impugnava il decreto in data 23 gennaio 2003 con il quale il Rettore magnifico dell’Università di Brescia dopo avere differito per tre volte l’entrata in servizio, e dopo averlo diffidato a prendere servizio, preso atto della mancata presa in servizio lo ha dichiarato decaduto.

Lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 9, terzo comma del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e contraddittorietà, chiedendo quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo della Lombardia, sede di Brescia, riuniva e respingeva i ricorsi.

Avverso la predetta sentenza insorge il prof. N.B. contestando le argomentazioni che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma e l’accoglimento dei ricorsi di primo grado.

Si è costituita in giudizio l’Avvocatura generale dello Stato per il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e per l’Università di Brescia, chiedendo il rigetto dell’appello.

La causa è stata assunta in decisione alla pubblica udienza del 10 dicembre 2010.
Motivi della decisione

1. L’appello è infondato.

L’appellante ha vinto un concorso per diventare professore associato presso l’Università di Brescia.

La relativa chiamata gli è stata notificata in data 27 ottobre 2000.

Egli ha accettato la nomina, dichiarando di optare per il regime a tempo definito, con lo svolgimento di attività libero – professionale extramuraria, ritenendo applicabile alla sua situazione l’art. 5, commi settimo ed ottavo, del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517.

L’Università gli negava tale possibilità; avviava peraltro un contraddittorio con l’appellante, alcuni atti del quale hanno comportato l’insorgere di contenzioso, al fine di discutere l’esatta portata della normativa da applicare, nel frattempo consentendo il differimento dell’entrata in servizio.

L’Università in data 27 novembre 2002 con il provvedimento impugnato in primo grado ha chiuso l’interlocuzione diffidando l’odierno appellante a prendere servizio, con regime a tempo pieno.

Non avendo l’appellante preso servizio lo ha dichiarato decaduto, con il secondo provvedimento impugnato.

2. La controversia concerne in primo luogo lo scioglimento dell’apparente antitesi fra l’ottavo ed il dodicesimo comma dell’art. 5 del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517.

Ai sensi dell’ottavo comma appena citato "entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto i professori e i ricercatori universitari, in servizio alla predetta data ovvero che saranno nominati in ruolo a seguito di procedure di reclutamento indette prima della predetta data, esercitano o rinnovano l’opzione ai sensi e per gli effetti di cui al comma settimo. In assenza di comunicazione entro il termine, si intende che abbia optato per l’attività assistenziale esclusiva".

Il dodicesimo comma dispone che "i professori e i ricercatori universitari nominati in ruolo successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto possono svolgere unicamente l’attività assistenziale esclusiva; gli interessati possono optare per l’attività libero professionale extramuraria nei casi ed alle condizioni di cui ai commi decimo ed undicesimo".

E’ pacifico che l’appellante non si torva nella situazione di cui ai richiamati commi decimo ed undicesimo.

Egli peraltro ritiene che il regime transitorio dettato dal quinto comma sia applicabile anche alla sua situazione, in quanto il concorso che ha portato alla sua assunzione era stato bandito assai prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo di cui ora si discute.

L’Università sostiene che la norma transitoria non può essere ulteriormente applicabile decorsi quarantacinque giorni dall’entrata in vigore dello stesso decreto.

Il Collegio condivide l’interpretazione seguita dall’Amministrazione, già fatta propria dalla Sezione (C. di S., VI, 11 ottobre 2007, n. 5333).

E’ vero che l’ottavo comma disciplina le modalità per la scelta fra tempo pieno e tempo definito per i ricercatori e professori già in servizio e quelli che verranno assunti a seguito di concorsi banditi prima della sua entrata in vigore.

Peraltro, viene fissato un termine, di quarantacinque giorni, decorso il quale la norma non è più applicabile.

Osserva il Collegio come a voler seguire il ragionamento dell’appellante la norma risulterebbe priva di senso.

L’enunciato della disposizione è chiaro nello stabilire che la disciplina dell’ottavo comma si applica per quarantacinque giorni, decorsi i quali si applica la normativa "a regime".

Senza il termine appena evidenziato, sarebbe impossibile porre un termine finale alla fase transitoria.

Giova osservare che, come già sottolineato da C. di S., VI, 11 ottobre 2007, n. 5333, appena citata, il legislatore con la normativa in commento ha manifestato un evidente preferenza per l’utilizzo esclusivo dei docenti universitari, ed ha conseguentemente circoscritto i casi in cui è possibile mantenere l’incarico a tempo definito.

In questo quadro, risulterebbe incoerente una norma transitoria di applicazione indefinita nel tempo, che provocherebbe evidenti problemi nella gestione della nuova disciplina.

La vicenda dell’appellante conferma l’impostazione appena riassunta, proprio perché il concorso al quale egli ha partecipato ha avuto una durata eccezionalmente lunga.

Egli quindi beneficerebbe della norma transitoria a distanza di anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina.

La prefissione, da parte del legislatore, di un termine preciso manifesta con chiarezza la volontà di evitare lunghi periodi di incertezza nell’applicazione della nuova normativa.

Tale scopo, deve essere ribadito, non potrebbe essere perseguito lasciando nell’incertezza la data nella quale terminerà il periodo transitorio.

L’argomentazione deve quindi essere respinta.

3. L’appellante sostiene la contrarietà alla costituzione dell’art. 5, ottavo e dodicesimo comma, del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, per violazione degli artt. 3, 41 e 97 della costituzione, nella parte in cui fanno decorrere il termine per l’opzione dall’entrata in vigore della nuova disciplina e non subordinano l’opzione alla creazione di strutture per l’attività intramuraria.

La questione proposta è manifestamente infondata nella parte in cui denuncia l’irragionevolezza della norma.

Invero, rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire modi e tempi dell’entrata in vigore della nuova disciplina introdotta (Corte costituzionale, 30 luglio 2008, n. 309, e 6 luglio 2004, n. 219).

Nell’ambito di tale valutazione, gli è certamente consentito sacrificare le aspettative di quanti hanno fatto affidamento sulla disciplina previgente, ed il contemperamento fra i diversi interessi operato dalla norma di cui si discute non appare manifestamente illogico.

Quanto alla necessità di subordinare l’opzione alla concreta disponibilità di strutture per l’esercizio dell’attività intramuraria, deve essere osservato che l’appellante non ha manifestato alcun interesse a tale tipo di attività – che peraltro non risulta nemmeno essergli stata in concreto preclusa – avendo sempre richiesto l’autorizzazione ad esercitare attività extramuraria.

La questione non è quindi rilevante nel presente giudizio, sotto il profilo dedotto.

4. L’appellante lamenta anche violazione dell’art. 76 della costituzione, avendo il legislatore delegato esorbitato dai limiti fissati dalla legge di delega, che non comprenderebbe la modificazione dello stato giuridico del personale universitario.

La questione è manifestamente infondata in quanto, come giustamente sottolineato dall’Avvocatura, il D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, attua una complessiva riforma dei rapporti fra il Servizio sanitario nazionale e le università, del quale costituisce elemento necessario il trattamento dei docenti impegnati in attività assistenziali.

5. L’ulteriore questione, con la quale l’appellante sostiene il contrasto dell’art. 5, commi settimo, ottavo e dodicesimo, del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, con gli artt. 33 e 76 della costituzione nella parte in cui subordinano l’attività intramuraria dei docenti universitari alla gestione degli organi del Servizio sanitario nazionale anziché a quella delle stesse università deve essere dichiarata irrilevante in quanto, come già sottolineato, l’appellante non ha manifestato alcun interesse allo svolgimento di attività intramuraria.

6. Sulla base delle considerazioni che precedono afferma il Collegio che giustamente l’Università con il primo provvedimento impugnato ha imposto all’appellante di prendere servizio in regime a tempo definito.

Come già sottolineato, l’appellante non ha dato esecuzione al provvedimento ed è stato dichiarato decaduto, con il secondo provvedimento impugnato.

7. L’appellante sostiene che nella specie ricorre un giustificato motivo per ritardare l’assunzione del servizio, costituito dall’incertezza circa l’interpretazione dell’art. 5 del D. Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, e lamenta la contraddittorietà del comportamento dell’Amministrazione, che dopo avergli accordato alcune proroghe del termine per l’assunzione in servizio gli ha poi immotivatamente negato l’ultima proroga richiesta.

Osserva il Collegio che l’Amministrazione ha tenuto ampiamente in conto gli interessi dell’appellante, consentendogli di procrastinare l’assunzione in servizio per oltre un anno.

Peraltro, una volta maturato il convincimento circa la portata della normativa da applicare – e le considerazioni esposte ai punti che precedono dimostrano come l’interpretazione elaborata fosse esatta – l’adozione dei provvedimenti conseguenti costituiva un obbligo per l’Università, alla quale non era più consentito (ammesso che lo fosse mai stato) concedere ulteriori proroghe.

8. L’appello deve in conclusione essere respinto.

Le spese del presente grado del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento, in favore delle Amministrazioni costituite, in solido, di spese ed onorari del presente grado del giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila/00) oltre agli accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 27-01-2011) 23-02-2011, n. 6881 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza del 29.1.2009 il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, condannava L.G., ritenuta l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 ed applicata la diminuente per la scelta del rito, alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa per il reato di cui all’art. 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 1 bis.

La Corte di Appello di Milano, in data 25.9.2009, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, riteneva la prevalenza della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sulla contestata recidiva e confermava nel resto. Nel disattendere le doglianze difensive, assumeva la Corte territoriale che, stante la diversità delle condotte, sussistesse il concorso di reati e che non fossero concedibili le circostanze attenuanti generi che.

2) Ricorre per Cassazione il L., a mezzo del difensore, denunciando, con il primo motivo, la inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonchè la mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al ritenuto concorso di reati.

La Corte territoriale erroneamente ha scomposto la condotta unitaria, posta in essere dal ricorrente, in due distinte condotte avvinte dal vincolo della continuazione.

La circostanza, cui fa riferimento la Corte di merito, della diversa qualità della sostanza non può avere alcuna incidenza in relazione alla unicità della condotta.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione la contiguità temporale tra le condotte di detenzione e cessione (come nel caso di specie) consente di ritenere l’unicità della condotta contestata.

Con il secondo motivo denuncia la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, avendo la Corte territoriale fatto un labile riferimento ai precedenti penali.

3) Il ricorso è infondato.

3.1) Secondo la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dallo stesso ricorrente, il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ha natura giuridica di norma a più fattispecie; ne consegue che deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dal medesimo soggetto ed aventi come oggetto materiale la medesima sostanza stupefacente (Fattispecie in tema di acquisto, detenzione e trasporto di una stessa sostanza stupefacente nell’ambito di un unitario progetto di spaccio in località diversa dal luogo di deposito)". cfr. ex multis Cass. pen. sez. 6 n.9477 dell’11.12.2009). E’ necessario quindi, per escludere il concorso formale di reati, che la sostanza stupefacente sia la medesima, che l’agente sia lo stesso e che vi sia contestualità temporale.

3.1.1) La Corte territoriale ha accertato che al L. era stato contestato di aver detenuto hashish a fini di spaccio e di aver ceduto cocaina. Si era in presenza quindi di una pluralità di condotte, "distinte sul piano ontologico, psicologico e funzionale".

Correttamente, pertanto, i giudici di merito hanno ritenuto che fosse configurabile il concorso di reati.

3.2) Quanto alle circostanze attenuanti generiche, con valutazione in fatto congrua ed immune da vizi, come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, la Corte territoriale ha ritenuto che il L. non fosse meritevole della concessione dell’invocato beneficio, non solo per i precedenti penali, ma anche per aver commesso il reato mentre si trovava affidato in prova ai servizi sociali.

3.3) Il ricorso va quindi rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.