Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-06-2011) 12-07-2011, n. 27081

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 9 luglio 2010 la Corte d’appello di Catania confermava la sentenza emessa il 21 marzo 2001, all’esito di giudizio abbreviato, dal gup del locale Tribunale che aveva dichiarato P. A., N.M., D.E., M.L. colpevoli del delitto di concorso in tentata estorsione aggravata, consumata e tentata ( art. 56 c.p., art. 629 c.p., comma 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7) in danno di L.A. e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, dichiarate prevalenti sulle aggravanti per P. ed equivalenti per gli altri imputati, tenuto conto della diminuente per il rito, aveva condannato P. alla pena di due anni, quattro mesi di reclusione e Euro mille di multa e N., D. e M. a quella di tre anni, quattro mesi di reclusione e Euro mille di multa ciascuno.

2. I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità degli imputati sulla base delle dichiarazioni della parte offesa, L. A., delle individuazioni fotografiche da quest’ultimo effettuate, della chiamata in correità di P.A., del contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Dal complesso di questi elementi emergeva che P.A. – già condannato con sentenza definitiva per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso facente capo al fratello G., detto " (OMISSIS)" – in qualità di mandante e di esecutore, e D., N. e M., in veste di esecutori materiali, avevano, mediante minacce consistite nella prospettazione di pericoli per l’attività imprenditoriale della parte offesa, costretto L. a pagare loro la somma di due milioni e a rinunciare al corrispettivo (L. 800.000) dovutogli dai familiari di N. in pagamento della preparazione di un banchetto e, inoltre, avevano compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a costringere il suddetto L. a versare loro l’ulteriore somma di L. 5.700.000. 3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, gli imputati.

P. lamenta violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla dosimetria della pena.

N. e D. deducono entrambi: a) carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli elementi posti a basa dell’affermazione di penale responsabilità: b) violazione di legge e carenza della motivazione circa la sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7; c) mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Messina, a sua volta, si duole del difetto di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato, all’omesso giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, nonchè dell’omesso riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

Motivi della decisione

I ricorsi sono manifestamente infondati.

1. Il ricorso di P. è all’evidenza privo di pregio, in quanto i giudici, in ossequio ai principi costantemente enunciati da questa Corte, hanno fornito una corretta motivazione in ordine alla dosimetria della pena, valorizzando in particolare il leale comportamento processuale dell’imputato e la sua piena confessione per giustificare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche e adeguare la pena al fatto contestato e alla personalità del suo autore.

2. Manifestamente infondati sono anche il primo motivo di censura dedotto da N. e D. e il motivo di ricorso prospettato da M..

2.1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Al giudice di legittimità resta, infarti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2.2. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha evidenziato gli univoci e concordanti elementi probatori (dichiarazioni della parte offesa, esito positivo delle individuazioni fotografiche, chiamata in correità di P.A., contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali) che hanno consentito di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità degli imputati e ha, inoltre, illustrato lo specifico, consapevole e causalmente rilevante apporto fornito da ciascuno degli imputati alla realizzazione degli illeciti, consistito nel formulare le richieste estorsive e nel riscuotere i relativi importi dalla parte offesa, dopo che quest’ultima era stata in prima parte contattata da P.A., mandante di tutte le attività estorsive ed esecutore di alcune di esse.

3. Manifestamente privo di pregio è anche la seconda censura prospettata da N. e M..

La L. n. 203 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, laddove ha evidenziato, sulla base in particolare della chiamata in correità di P.A., del contenuto delle intercettazioni, delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, che l’effetto di intimidazione nei confronti di L., avuto riguardo alle complessive modalità dell’azione, venne accentuato dall’evocazione, nei confronti della parte offesa, della provenienza della pretesa estorsiva da P.A., noto appartenente al sodalizio capeggiato dal fratello G., detto " (OMISSIS)", perante nella zona di Catania, di per sè amplificatrice della valenza criminale della richiesta estorsiva e della sua idoneità intimidatrice.

4. Manifestamente infondate sono le ulteriori doglianze formulate da D. e N. in tema di dosimetria della pena e fondate sull’erroneo assunto dell’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, in realtà già concesse dal giudice di primo grado.

5. Manifestamente privi di pregio sono gli altri motivi di ricorso dedotti dalla difesa di M..

5.1. L’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 1, è configurabile solo quando l’opera del concorrente abbia avuto "minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato". A tal fine non basta, infatti, che l’apporto del concorrente abbia avuto una minore rilevanza rispetto a quello degli altri concorrenti, ma occorre che tale apporto abbia avuto una importanza obbiettivamente minima, così da risultare nell’economia generale del fatto e in termini assoluti del tutto marginale, superfluo, non indispensabile (cfr. ex plurimis Cass., sez. 6, 30 novembre 2005, n. 45248; Cass., sez. 1, 10 marzo 2004, n. 19069). La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi escludendo la suddetta attenuante, tenuto conto del ruolo svolto dal ricorrente e del rilevante contributo da costui fornito alla commissione degli illeciti.

5.2. La sentenza impugnata è altresì esente, con ogni evidenza, dalle altre censure riguardanti la dosimetria della pena e il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle aggravanti contestate, avendo, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, valorizzato, ai fini del diniego del giudizio di prevalenza, la gravità dei fatti, l’intensità del dolo ad essi sottesa, il comportamento serbato dall’imputato dopo la commissione dei fatti.

6. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue di diritto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di Euro mille ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille ciascuno.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-05-2011) 25-07-2011, n. 29779

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza impugnata veniva confermata la sentenza del Tribunale di Gorizia in data 9.7.2009, con la quale M. A. veniva condannato alla pena di mesi nove di reclusione per il reato continuato di cui agli artt. 337, 582 e 612 cod. pen., commesso il (OMISSIS). Al M., accompagnato nell’occasione presso la Stazione dei Carabinieri di Grado con la moglie G. L. e alcuni familiari della stessa dopo che i militari erano intervenuti presso l’abitazione della coppia a seguito della segnalazione da parte della G. di atti violenti e minacciosi posti in essere dal marito, si addebita in particolare l’aver reagito agli accertamenti svolti dai militari scagliandosi contro la moglie, la suocera R.M.E., il padre M.O. ed il vicino di casa Ma.Ma. brandendo un’asta di legno, strattonando i Carabinieri G. e D.V. e, allorchè questi ultimi lo conducevano nella camera di sicurezza, opponendosi alla perquisizione personale, colpendo con calci e pugni il D.V. e cagionandogli trauma contusivo alla regione auricolare sinistra e trauma distorsivo a due dita della mano destra.

2. Il ricorrente deduce:

2.1. violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento, per il reato di cui all’art. 337 cod. pen., della scriminante della reazione ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali, nella specie ravvisabili nella restrizione dell’imputato nella camera di sicurezza e nella sottoposizione dello stesso a perquisizione domiciliare, non giustificate dalla situazione in atto laddove in particolare la perquisizione non era stata eseguita all’ingresso del M. nella caserma, e comunque alla riconduzione di tali atti ad un legittimo esercizio di pubbliche funzioni rispetto al quale possa configurarsi la condotta di resistenza;

2.2. violazione di legge ed illogicità della motivazione in ordine alla configurabilità per il reato di minaccia della forma aggravata e della conseguente procedibilità d’ufficio, osservando che la minaccia non poteva esser ritenuta grave in assenza di effettivo turbamento delle persone offese;

2.3. violazione di legge ed illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena sull’erroneo presupposto che l’imputato ne avesse già goduto due volte.

Motivi della decisione

1. Il motivo di ricorso relativo al mancato riconoscimento della scriminante della reazione ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali è infondato. La sentenza impugnata motivava invero congruamente sul punto evidenziando la legittimità dell’accompagnamento del M. nella camera di sicurezza, a seguito del tentativo del predetto di aggredire la moglie in caserma strattonando i militari, e l’insorgenza solo a quel momento dell’opportunità di eseguire la perquisizione personale per verifica re l’eventuale possesso di oggetti pericolosi.

2. Infondato è anche il motivo di ricorso relativo alla configurabilità per il reato di minaccia della forma aggravata. A parte il fatto che sul punto non vi era specifico motivo di appello, l’aggravante è comunque contestata non nella fattispecie della gravità della minaccia, ma in quella dell’uso dell’arma impropria, pacificamente ravvisabile nell’asta di legno brandita dal M. contro la moglie e le altre persone presenti.

3. Infondato è infine il motivo di ricorso relativo alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale. Il diniego del beneficio era motivato nella sentenza di primo grado per precedente duplice concessione dello stesso, circostanza in effetti risultante dal certificato penale in atti; e comunque la sentenza impugnata giustificava adeguatamente la decisione anche con generale riferimento ai precedenti penali in quanto ostativi alla prognosi favorevole sul pericolo di reiterazione dei reati.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 16-09-2011, n. 706

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con il ricorso all’esame il ricorrente espone di prestare servizio alle dipendenze del comune di Frosinone nel corpo di polizia municipale con la qualifica di istruttore di vigilanza e con il grado di ispettore superiore.

2. Egli premette che: a) nell’ambito del corpo di polizia municipale vi sono un ufficiale di polizia con la qualifica di funzionario direttivo di vigilanza e il grado di colonnello, tre istruttori di vigilanza (tra cui lui stesso) con il grado di ispettore superiore, e 39 istruttori di vigilanza con il grado di agente, sovrintendente, ispettore e ispettore principale; b) gli istruttori di vigilanza (tutti inquadrati nella categoria C) sono tra loro differenziati in base al grado (in ordine decrescente sono previsti i gradi di ispettore superiore, ispettore principale e ispettore).

Di conseguenza, egli – prima della delibera impugnata – era gerarchicamente collocato al quarto posto nel corpo di polizia, dopo il vicecomandante e i due colleghi aventi (come lui) il grado di ispettore superiore (ma maggiore anzianità di servizio).

3. Con il ricorso all’esame, il signor F. impugna la delibera indicata in epigrafe con cui la giunta municipale – modificando l’articolo 25 del vigente regolamento del corpo di polizia municipale – ha disposto di conferire: a) il grado di ispettore superiore agli istruttori di vigilanza C5 con almeno 20 anni di servizio (a fronte di una precedente normativa che prevedeva il conferimento del grado in questione agli ispettori principali con almeno 5 anni di permanenza in quest’ultimo grado); b) il grado di ispettore principale agli istruttori di vigilanza C4 con 5 anni di permanenza nel grado di ispettore; c) il grado di ispettore agli istruttori di vigilanza C4 con almeno 15 anni di servizio complessivo nell’area di vigilanza.

Sostiene il ricorrente che l’effetto pratico della modifica in questione (in particolare di quella sub a) consiste nell’attribuzione del grado di ispettore superiore a 21 suoi colleghi prima aventi grado di ispettore principale e anzianità di servizio superiore a 20 anni; questi suoi colleghi – che nel sistema precedente avrebbero conseguito il grado di ispettore superiore al compimento di 5 anni di servizio nel grado di ispettore principale – per effetto della modifica hanno ottenuto il suo medesimo grado ma sono divenuti a lui gerarchicamente superiori perchè l’articolo 28 del regolamento stabilisce che, a parità di grado e funzione, la posizione gerarchica è determinata dalla maggiore anzianità di servizio e, in subordine, dalla maggiore anzianità anagrafica.

4. Sostiene il ricorrente che il provvedimento in questione – e i consequenziali atti con cui sono stati attribuiti ai suoi colleghi i gradi di ispettore superiore – sono illegittimi: a) per incompetenza della giunta municipale; b) per eccesso di potere sotto vari profili.

5. Il comune di Frosinone si è costituito e resiste al ricorso. Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica ha eccepito l’inammissibilità del ricorso avendo il ricorrente notificato quest’ultimo ai suoi colleghi presso la sede del corpo e non essendosi tali notifiche perfezionate a mani proprie (il comune si richiama al noto principio giurisprudenziale che, nel caso di notifica del ricorso a dipendenti pubblici, nega la validità della notifica eseguita presso l’ufficio salvo che la stessa si sia perfezionata a mani proprie; cfr. ad es. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 3 novembre 2010, n. 33125).

Motivi della decisione

1. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso.

2. Come accennato, infatti, il comune di Frosinone eccepisce che il ricorrente non ha ritualmente instaurato il contraddittorio nei confronti di (almeno uno dei) controinteressati, cioè dei suoi colleghi che, per effetto del provvedimento impugnato, hanno conseguito il grado di ispettore principale; il ricorso a questi soggetti è stato infatti notificato non presso la loro residenza ma – a mezzo posta – presso il comando della polizia locale. Tutte le 21 notifiche non si sono perfezionate "a mani proprie" perché dalle relative "cartoline verdi" risulta che esse sono state ricevute da un "impiegato" (sulla cartolina nello spazio individuante la persona che ha ricevuto il plico risulta "spuntata" la casella "al servizio del destinatario").

Ciò premesso il comune si richiama alla nota e consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui "la notifica al controinteressato del ricorso presso l’ufficio pubblico presso il quale presta servizio, non a mani proprie, ma con consegna dell’atto ad altra persona, pur se addetta all’ufficio stesso, è inammissibile (rectius nulla), atteso che la possibilità prevista dall’art. 139 comma 2, c.p.c. di procedere alla notifica a mani di "persona addetta all’ufficio" si riferisce esclusivamente agli uffici dove l’interessato tratta i propri affari – per cui può affermarsi un’immedesimazione di principio tra ufficio e destinatario – e non anche quello presso il quale il dipendente pubblico controinteressato presti lavoro subordinato. Una siffatta interpretazione restrittiva, oltre a rispondere alle già delineate esigenze peculiari del processo amministrativo, è confortata anche dal parallelo e alternativo riferimento, operato dallo stesso comma 1 dell’art. 139 c.p.c., al luogo di esercizio, evidentemente in proprio, dell’industria o del commercio, nonché dalla previsione del secondo e comma 3 circa le persone idonee a ricevere la notificazione, che postula la sussistenza di un rapporto strettamente fiduciario tra esse e il destinatario della notificazione stessa; presupposizione non riferibile ad un ufficio, la cui organizzazione non rientra nella disponibilità del destinatario medesimo" (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 3 novembre 2010, n. 33125).

L’eccezione è infondata.

Costituisce infatti giurisprudenza amministrativa consolidata che, in caso di impugnazione di atti regolamentari o di atti generali, non sono configurabili controinteressati in senso formale ma solo controinteressati in senso sostanziale; di conseguenza, pur quando, come avviene nel caso in esame, siano individuabili i soggetti aventi un interesse alla conservazione degli effetti dell’atto, il ricorso non deve essere a questi soggetti (o meglio ad almeno uno di essi) notificato a pena di inammissibilità (Consiglio di Stato, sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3717), fermo restando la legittimazione degli stessi ad intervenire nel processo.

3. Diverso sarebbe ovviamente il discorso in relazione ai singoli atti con cui, in applicazione della nuova disciplina regolamentare impugnata, sono stati conferiti i nuovi gradi (di ispettore superiore) ai 21 colleghi del ricorrente in possesso del grado di ispettore principale.

Senonchè l’impugnazione di questi atti, in quanto atti di gestione dei singoli rapporti di lavoro, è inammissibile, prima ancora che per la nullità della notificazione, per carenza di giurisdizione del giudice amministrativo ex articolo 63 del d.lg. 30 marzo 2001, n. 165.

4. Può quindi passarsi all’esame del merito dell’impugnazione della delibera G.M. n. 305 del 9 giugno 2010.

5. Il ricorrente anzitutto denuncia che tale delibera è illegittima per incompetenza della giunta, in quanto, venendo in rilievo la modifica di un regolamento, la relativa competenza spetterebbe al Consiglio comunale.

Il motivo è fondato.

Va premesso che il regolamento del corpo di polizia municipale del comune di Frosinone – modificato dalla delibera impugnata – è stato approvato dal Consiglio comunale con la delibera n. 108 del 19 dicembre 2001. Del resto la competenza all’approvazione del regolamento disciplinante il servizio di polizia municipale, previsto dall’articolo 4 della legge 7 marzo 1986, n. 65 e dall’articolo 12 della legge regionale 13 gennaio 2005, n. 1, non può che appartenere al consiglio posto che: A) in generale la competenza all’approvazione dei regolamenti è attribuita ai consigli dall’articolo 42, comma 2, lett. a), del d.lg. 17 agosto 2000, n. 267; B) il regolamento disciplinante il servizio di polizia locale è un regolamento diverso dal regolamento degli uffici e dei servizi la competenza all’approvazione del quale è riservata alla giunta (dagli articoli 42, comma 2, lett. a), e 48, comma 3).

Alla luce di queste premesse si ritiene che le modifiche al regolamento disciplinante il servizio di polizia locale siano riservate alla competenza del consiglio comunale, trattandosi di modifiche incidenti su un regolamento diverso dall’unico regolamento rientrante nella competenza della giunta (cioè il regolamento degli uffici e dei servizi di cui all’articolo 48, comma 3, del d.lg. n. 267 citato); questa impostazione trova indiretta e implicita conferma nell’articolo 132 del regolamento in questione che contempla la possibilità che, con un regolamento della giunta, sia possibile modificare "l’organizzazione, la denominazione e le funzioni di tutte le unità e dei servizi operativi"; questa possibilità infatti si raccorda con l’articolo 48, comma 3, del d.lg. n. 267 dato che la disposizione in questione si riferisce a "oggetti" omogenei a quelli da disciplinare nel regolamento degli uffici e dei servizi (in pratica il regolamento della giunta previsto dall’articolo 132 è una sorta di equivalente del regolamento generale degli uffici e dei servizi relativo al corpo di polizia locale); nella fattispecie però viene in rilievo una modifica relativa all’ordinamento del personale direttamente incidente sullo stato giuridico del medesimo, un oggetto rientrante, ad avviso del Collegio, nella competenza del consiglio.

6. Quanto precede implica l’annullamento per incompetenza della delibera impugnata, con assorbimento di ogni altro motivo in applicazione della prima parte dell’articolo 34, comma 2, cod. proc. amm..

7. In conclusione il ricorso è accolto per quanto riguarda l’impugnazione della delibera G.M. n. 305 del 9 giugno 2010 mentre deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione l’impugnazione degli atti di conferimento dei gradi ai signori P.U.G., A.L.P., L.C., F.M., E.G., G.C., S.B., G.L., G.T., F.S.T., G.S., G.D., M.C., A.C., P.T., G.G., E.D., L.C., E.B., L.D., I.P., salva l’applicazione dell’articolo 11, comma 2 cod. proc. amm..

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la delibera G.M. n. 305 del 9 giugno 2010.

Condanna il comune di Frosinone al pagamento delle spese di giudizio che liquida in complessivi euro quattromila.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 21-09-2011) 23-09-2011, n. 34524 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Lecce ha confermato la condanna inflitta con la sentenza di primo grado a Z.A. per il delitto D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 di detenzione per uso non esclusivamente personale di 28 grammi lordi di eroina, con principio attivo pari a mg. 2606, utili per il ricavo di circa 103 dosi medie singole.

Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo violazione di legge e vizio della motivazione in ordine:

1.- alla esclusione della destinazione della droga al suo uso esclusivamente personale, siccome basata – in assenza di altri elementi significativi – sul mero e non decisivo dato quantitativo e sulla circostanza, del tutto compatibile anche con il detto uso, non privo comunque di conseguenze pregiudizievoli per l’interessato, dell’occultamento della sostanza nello scarico del bagno;

2.- al diniego dell’attenuante di cui al cit. art. 73, comma 5 siccome basato in sostanza sul mero e non eccessivo dato ponderale.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è infondato.

La Corte di merito ha, infatti, motivato in modo non illogico, tale da resistere alle censure mosse sulla esclusione della destinazione della droga all’uso esclusivamente personale dell’imputato, col riferimento all’entità, non giustificata in alcun modo, del quantitativo detenuto nella propria abitazione, di gran lunga superiore al minimo legale consentito per il detto uso, e alla modalità di custodia della sostanza, indicativa di una prudenza correlabile alla consapevolezza della illiceità della sua detenzione.

Fondato è invece il secondo motivo di ricorso. La motivazione posta dalla Corte di merito a base del diniego dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 è infatti carente e illogica, in quanto si basa sul mero dato quantitativo, di per sè obiettivamente non incompatibile con la detta attenuante e su un riferimento, del tutto generico, a "tutte le componenti oggettive e soggettive dell’azione".

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alla configurabilità dell’attenuante predetta.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla applicabilità dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce. Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.