Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-03-2012, n. 3418 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata – in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 5 febbraio 2004 condanna G.C.M.P. al pagamento della somma di Euro 1.219,06, oltre agli accessori come riconosciuti dal Tribunale, in favore di V.N. e conferma per il resto la sentenza di primo grado.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) quanto alla legittimazione passiva – in assenza di una formale assunzione da parte della B. e in presenza di una partecipazione di più soggetti sia al momento della assunzione sia nel corso del rapporto – si è determinata una situazione di apparente co-titolarità del rapporto stesso, per la quale, in applicazione del principio dell’affidamento incolpevole, la V. ha tratto la convinzione che la reale datrice di lavoro fosse la G., dato che era costei a darle le direttive e la retribuzione (senza aver mai specificato di farlo per mero incarico della madre), oltre a farle regalie personali;

b) in questa situazione, è del tutto comprensibile che la V. abbia ritenuto che anche l’appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della G.;

c) in riferimento alla durata del rapporto, va confermata la decisione del Tribunale secondo cui, come dedotto nel ricorso introduttivo, il rapporto è cessato il 6 ottobre 2001, quando la B. è deceduta;

d) infatti, dall’istruttoria svolta è emerso che, anche dopo il ricovero ospedaliero, la V. si teneva comunque a disposizione per le esigenze dell’assistita, sicchè è da escludere che tale evento (originariamente non riferito dalla lavoratrice) abbia comportato, di per sè, la cessazione del rapporto, tanto più che è risultato che prima della morte dell’assistita la lavoratrice non è stata licenziata;

e) anche per l’orario di lavoro è corretta la statuizione del Tribunale sulla spettanza del compenso per lavoro straordinario fino al 30 agosto 2001 (data del suddetto ricovero ospedaliero) essendo stato accertato che la V., prima della suddetta data, rimaneva a disposizione (per tutti i giorni in cui non godeva di riposo) anche dopo le ore 20, superando le 10 ore di lavoro giornaliere previste dal c.c.n.l. per i lavoratori domestici conviventi;

f) poichè la relativa prova è emersa principalmente dalla deposizione della figlia della G., nonchè da quanto riferito dalla stessa G. e da suo fratello Br., bene ha fatto il Tribunale a non approfondire ulteriormente l’istruttoria sul punto, data l’esaustività e la provenienza qualificata delle suindicate dichiarazioni;

g) è, invece, fondato il motivo di appello relativo all’inquadramento da attribuire alla V., atteso che si ritiene l’inquadramento nel 1^ livello (riconosciuto dal Tribunale) inappropriato per eccesso e quello nel 3^ livello (proposto dalla G.) inadeguato per difetto;

1) ne consegue che l’inquadramento esatto appare essere quello nel 2^ livello, proprio di "coloro che svolgono mansioni relative alla vita familiare con la necessaria specifica capacità professionale";

m) quanto alla liquidazione dell’importo dovuto alla V., sulla base della disposta c.t.u. contabile, l’importo liquidato equitativamente in primo grado (in euro 2000) deve essere ridotto alla somma suindicata, comprensiva delle differenze retributive e dei compensi per lavoro straordinario (fino al 30 agosto 2001, giorno del ricovero ospedaliero citato), per festività, per ferie non godute oltre a tredicesima mensilità e t.f.r. (pacificamente non corrisposti).

2- Il ricorso di G.M.P. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste, con controricorso, V. N..

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia – in riferimento alla carenza di legittimazione passiva – violazione e falsa applicazione degli artt. 1388, 1398 e 2094 cod. civ., nonchè contraddittoria motivazione.

Si sottolinea che dopo che il Tribunale ha affermato la legittimazione passiva della G. come datore di lavoro di fatto, la Corte d’appello ha confermato la decisione ma sull’assunto dell’apparente co-titolarità della qualifica di datore di lavoro fra la G. e la di lei madre.

Conseguentemente la V. avrebbe legittimamente convenuto in giudizio la G. in base al principio di tutela dell’affidamento incolpevole, avendo la convenuta agito senza spendere in modo univoco il nome della rappresentata. Per la stessa ragione la Corte territoriale ha considerato comprensibile che la lavoratrice abbia ritenuto che anche l’appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della G..

La ricorrente sostiene, però, che sul punto la sentenza sia priva di idonea motivazione in quanto la Corte romana, dopo aver dato atto che la lavoratrice in sede di interrogatorio ha riferito di aver concordato con il figlio Br. della signora B. le condizioni contrattuali, non ha esteso la titolarità del rapporto a quest’ultimo ma alla sorella, concentrando la propria attenzione sulle modalità operative del rapporto.

Comunque la vera datrice di lavoro è la B., come conferma la circostanza che con la sua morte il rapporto si sia concluso, senza che possa valere in contrario il contraddittorio richiamo al principio di tutela dell’affidamento incolpevole operato dalla Corte romana.

2- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia – in riferimento alla conclusione del rapporto lavorativo alla data del 30 agosto 2001 e alla modifica della originaria causa pretendi – erronea applicazione degli artt. 414, 416 e 437 cod. proc. civ., degli artt. 1463 e 1256 cod. civ. e della L. n. 108 del 1990, art. 4, nonchè omessa motivazione.

Si contesta che la Corte territoriale pur avendo precisato che la V., nell’affermare nel ricorso introduttivo che il rapporto era cessato il 6 ottobre 2001 e che aveva avuto l’orario giornaliero dalle 8 alle 23, non aveva riferito del ricovero ospedaliero della B. avvenuto il (OMISSIS) (circostanza incompatibile con lo svolgimento della prestazione con le suddette modalità) – non ha dato rilievo alla suddetta omissione, sottolineando che in assenza di un formale atto di licenziamento ed essendo risultato che la lavoratrice si recava spontaneamente presso l’ospedale ove era ricoverata la B., si doveva ritenere che ella si tenesse comunque a disposizione per le esigenze dell’assistita.

In tal modo, ad avviso della ricorrente, la Corte romana avrebbe: a) compromesso il sistema delle decadenze e preclusioni processuali su cui si fonda il rito del lavoro, confermando la statuizione del primo giudice che aveva consentito la intervenuta manifesta modifica della domanda iniziale; b) negato che il ricovero ospedaliero ha determinato la automatica conclusione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi degli artt. 1463 e 1256 cod. civ., sul presupposto dell’esistenza di un nuovo accordo in merito a nuove mansioni affidate alla V., che peraltro non avrebbero mai potuto svolgersi con l’orario giornaliero indicato nel ricorso introduttivo; c) omesso di valutare che la L. n. 108 del 1990, art. 4, esclude i rapporti di lavoro domestico – disciplinati dalla L. n. 339 del 1958 – dalla sfera di applicazione delle disposizioni sul licenziamento individuale.

3.- Con il terzo motivo di ricorso si denuncia – in riferimento alla omessa valutazione in ordine all’accoglimento degli ulteriori mezzi istruttori richiesti in primo grado violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. ovvero omessa motivazione.

Si sostiene che sarebbe insufficiente la motivazione con la quale la Corte d’appello ha ritenuto superflua la ammissione della ulteriore prova testimoniale chiesta dalla G. per confermare l’effettiva durata del rapporto lavorativo e l’orario di lavoro reale.

4.- Con il quarto motivo di ricorso si denuncia – in riferimento all’accoglimento del compenso per il lavoro straordinario – violazione degli artt. 2108 e 2697 cod. civ..

Si rileva che la Corte romana ha desunto la protrazione delle prestazioni lavorative oltre le dieci ore giornaliere dalla testimonianza resa dalla nipote della B., senza considerare lo svolgimento complessivo della giornata di lavoro della V.(.

d.l.m.e.e.d.q.p.g.

a.p.d.f.n.d.Bellina).e.

n.r.i.p.s.c.i.l.c.a.p. o.i.c. r.p.d.q.r.p.i.a.s.l.

m.i.a.d.f.r.a.g.

d.m.i.q.n.p.a.f.d.p.d.

u.f.d.p.c.e.d.a.n.i.a.l.

c.q.d.i.l.r.d.p.c.s.

e.t.a.d.o.s.e.o.a.c.t.

l.d.d.d.r.i.d.

t.i.r.e.c.c.s.n.m.

s.s.l.i.c.l.d.

a.(.p.t.C.6.g.2.n.1.C.5.

o.2.n.2.C.2.l.2.n.1.C.1.

f.2.n.3.

6.Q.a.a.m.-.c.c.-.v.

o.c.-.n.i.f.r.a.v.d.

d.n.c.n.i.d.d.

m.-.i.r.t.l.c.s.r.i.d.d.v.

d.m.d.s.i.-.n.t.e.

r.i.p.d.d.r.p. c.-.p.e.v.d.m.p. a.a.f.d.r.d.f.

V.t.r.c.l.d.c.i.r.p. c.d.u.v.d.m.d.s.i.n. c.a.G.d.l.i.p.d.r.i.

m.d.v.p.b.l.s.f.d.

c.d.c.g.e.d.c.l.d.

a.s.d.G.d.m.n.e.c. a.C.d.c.d.p.a.u.a.v.

d.r.p.s.l.c.c.i.v.

d.m.n.p.r.n.s.u.l.

d.r.p.d.d.q.a.d.G. d.m.(.t.l.t.C.2.a.2.n.9.C. 1.g.2.n.3.C.3.g.2.n.3.C.3.o.

2.n.2.C.2.a.2.n.1.C.1.f.

2.n.3.C.2.a.2.n.8.

N.s.l.v.d.r.p.o.d.

G.d.a.s.c.m.e.l.l.

a.c.s.l.d.e.c.i.

n.p.a.p.d.m.i.o.i.

c. C.l.c.c.l.C.d.e.p. r.p.c.a.c.e.c.o.

d.q.C.a.s.l.m.d.s.v.c. n.s.t.

6.I.p.c.s.e.r.l.C.r.g.

a.d.c.d.d.

Ga. come legittimata passiva facendo riferimento al principio dell’apparenza del diritto.

Com’è noto il suddetto principio – riconducibile a quello, più generale, della tutela dell’affidamento incolpevole pur potendo avere molteplici applicazioni (sia nel diritto sostanziale, sia in quello processuale) tuttavia, al di fuori dei casi particolari nei quali ne sono espressamente disciplinati gli effetti (vedi: art. 534 c.c., commi 2 e 3, artt. 1189, 1415 e 1416 cod. civ.), non ha connotazioni definite e precise, in quanto opera nell’ambito dei singoli rapporti giuridici in modo differente a seconda di quanto e come ciascun rapporto sia compatibile con la prevalenza dello schema apparente su quello reale (vedi, per tutte: Cass. 1 marzo 1995, n. 2311).

Ad esso, in linea generale, si ricorre nelle situazioni in cui, in presenza di circostanze univoche ed obiettive, una data realtà appare come esistente – senza che sia imputabile alcun comportamento colposo al soggetto nei cui confronti si producono i relativi effetti (forma pura) oppure per il comportamento colposo di un soggetto, il quale avendo causato lo stato di apparenza, ne subisce gli effetti (forma colposa) – e ciò, conseguentemente, comporta la tutela del legittimo e incolpevole affidamento dei terzi nella situazione apparente, la quale, anche se non conforme alla realtà, non è ragionevolmente altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni (arg. ex Cass. 29 aprile 2010, n. 10297;

Cass. 23 aprile 2010, n. 9694; Cass. 7 ottobre 2010, n. 20811; Cass. 28 agosto 2007, n. 18191; Cass. 12 gennaio 2006, n. 408; Cass. 13 agosto 2004, n. 15743; Cass. 26 giugno 1978, n. 3146).

Data la sua generale applicazione, sia pure caratterizzata dall’anzidetta variabilità di connotazioni, il principio in argomento può trovare applicazione anche nel diritto del lavoro (come accade, ad esempio, in materia di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro), va, però, osservato che, nella presente fattispecie, è più appropriato fare riferimento al diverso principio di effettività del rapporto di lavoro.

Dalla sentenza impugnata risulta, infatti, che: 1) non vi è stata un formale atto di assunzione della lavoratrice da parte della madre dell’odierna ricorrente; 2) al momento della assunzione hanno partecipato tutti i figli della B. e con tutti la lavoratrice ha avuto un colloquio, pur avendo preso accordi sulle modalità della prestazione in particolare con il figlio Br.; 3) nel corso del rapporto, però, l’unica persona che ha provveduto a dare le direttive alla V., a corrisponderle la retribuzione – senza aver mai specificato di farlo per mero incarico della madre – è stata la G., la quale quindi ha avuto un ruolo di esclusiva datrice di lavoro (benchè la prevalente beneficiaria delle prestazioni sia stata la B.), tanto che la lavoratrice ha ritenuto che l’appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della G. stessa.

Ora è noto che il contratto di lavoro da origine ad un rapporto che, fondato sulla volontà delle parti, si protrae nel tempo, restando, tale volontà, inscritta in ogni atto di esecuzione del contratto.

L’esecuzione, esprimendo soggettivamente la suddetta volontà ed oggettivamente la causa contrattuale e protraendosi nel tempo, resta (ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., comma 2) lo strumento d’emersione della reale volontà delle parti e dell’assetto negoziale che queste intendono attribuire al rapporto stesso (volontà e assetto che. in ipotesi, possono anche essere diversi da quelli originari e determinare, nel corso dell’attuazione del rapporto, una modificazione di singole clausole contrattuali e talora della stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista), come più volte affermato da questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 18 agosto 2004, n. 16144; Cass. 21 ottobre 2005, n. 20361; Cass. 5 luglio 2006, n. 15327; Cass. 15 giugno 2009, n. 13858).

Inoltre, è principio consolidato che la nota caratteristica della subordinazione del rapporto di lavoro è rappresentata dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro.

Dai suddetti principi è agevole desumere che la Corte d’appello ha correttamente affermato la legittimazione passiva della G., però la giustificazione posta a base di tale affermazione non è da rinvenire nel principio dell’apparenza, ma nei principi dianzi riportati.

6.4.- Quanto al secondo motivo va precisato che non è condivisibile la premessa su cui poggiano tutte le censure, rappresentata dall’assunto secondo cui la Corte romana avrebbe illegittimamente consentito una modifica dell’originaria causa petendi in conseguenza della ritenuta irrilevanza dell’omesso richiamo, nel ricorso introduttivo, del ricovero ospedaliero della B. avvenuto il (OMISSIS).

Va, infatti, osservato che la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi e, quindi, una mutatio libelli, integrando, invece, una mera emendalio libelli, come tale ammissibile sia nel corso del giudizio di primo grado sia in grado di appello (Cass. 19 aprile 2010, n. 9266; Cass. 27 luglio 2009, n. 17457).

E’ del tutto evidente che, nella specie, non ricorrono gli estremi della mutatio libelli, avendo il Giudice del merito accertato – dandone adeguata e corretta motivazione – che comunque (a prescindere dalla rilevata iniziale omissione della lavoratrice, a proposito del ricovero ospedaliero) il rapporto ha avuto termine solo con il decesso della B. e che, durante il periodo del ricovero, la lavoratrice, pur tenendosi a disposizione per le esigenze dell’assistita, non svolgeva lavoro straordinario.

6.5 – Per ragioni analoghe sono da respingere il quarto e il quinto motivo, risultando che il Giudice del merito – esercitando il proprio potere di valutazione del materiale probatorio e dandone plausibile e logica motivazione – ha appurato che, nel periodo antecedente il suddetto ricovero, la giornata lavorativa della V. si protraeva oltre l’orario normale (di dieci ore) ed ha ritenuto che la lavoratrice fosse da inquadrare nella 2^ categoria contrattuale.

Al riguardo va ricordato che in tema di lavoro domestico – così come accade in generale in materia di rapporto di lavoro – la qualificazione giuridica del rapporto effettuata dal giudice del merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura (subordinata o autonoma) del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi che rivelano l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile da parte della Corte di cassazione (Cass. 27 luglio 2007, n. 16681; Cass. 4 maggio 2011, n. 9808).

Comunque, alla stregua della L. 2 aprile 1958, n. 339, art. 1, l’elemento caratterizzante il rapporto di lavoro domestico è la prestazione finalizzata al funzionamento della vita familiare per soddisfare un bisogno personale (cioè non professionale) del datore di lavoro (Cass. 14 dicembre 2005, n. 27578; Cass. 1 aprile 2005, n. 6824; Cass. 21 dicembre 2010, n. 25859).

Ed è noto che, in questa materia, quando si parla di "famiglia" ci si riferisce al "nucleo familiare" cioè alla "famiglia anagrafica" che – secondo la definizione del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 4, rimasta tuttora invariata – può essere costituita anche da una sola persona. A questo concetto fanno riferimento la normativa contributiva e fiscale sui datori di lavoro domestico, così come la normativa sulla regolarizzazione di badanti e collaboratori familiari stranieri.

Infine, anche per quel che riguarda il disposto inquadramento della lavoratrice nel 2^ livello contrattuale, la sentenza impugnata va esente da censure in quanto da essa risulta che la Corte romana, dando atto con motivazione logica e adeguata, è pervenuta alla relativa statuizione uniformandosi al consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui "nel procedimento logico- giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da tre fasi successive, e cioè, dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda" (vedi, per tutte:

Cass. 27 settembre 2010, n. 20272).

3- Conclusioni.

7- Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 20,00 per esborsi, Euro 1000,00 (mille/00) per onorari di avvocato, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali, con distrazione in favore dell’avvocato Ugo Ojetti, antistatario.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 16 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-04-2012, n. 5682 Indennità di buonuscita o di fine rapporto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il lavoratore indicato in epigrafe conveniva in giudizio l’istituto Poligrafico e Zecca dello Stato di cui era dipendente e chiedeva, sul presupposto dell’effettuazione di prestazioni di lavoro straordinario reso in modo costante, la declaratoria del diritto al computo dei relativi compensi nella base di calcolo dell’indennità di anzianità e del TFR nonchè il ricalcolo, mediante il computo dei detti compensi, della retribuzione corrisposta per 13A, 14A e periodo feriale.

L’adito giudice accoglieva la domanda relativa al ricalcolo dell’indennità di anzianità e del TFR e rigettava gli altri capi della domanda.

La Corte di Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza di primo grado,accoglieva anche il capo domanda relativo al ricalcolo della 13A e 14A mensilità ma sino al 1992.

Avverso questa sentenza l’Istituto in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di due censure.

La parte intimata non svolge attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di censura l’Istituto ricorrente, deducendo violazione delle norme del contratto collettivo e dell’art. 2120 c.c., assume che la Corte del merito ha erroneamente interpretato il CCNL del 1992 ritenendo, relativamente al TFR, prevista una nozione di retribuzione omnicomprensiva.

La censura, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio in ossequio anche al principio di nomofilachia reputa di aderire, è fondata.

Questo giudice di legittimità infatti ha sancito, nell’interpretare direttamente ex art. 360 c.p.c., n. 3, così come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 la denunciata norma collettiva che in tema di determinazione del trattamento di fine rapporto, il principio secondo il quale la base di calcolo va di regola determinata in relazione al principio della onnicomprensività della retribuzione di cui all’art. 2120 cod. civ., nel testo novellato dalla L. n. 297 del 1982, è derogabile dalla contrattazione collettiva, che può limitare la base di calcolo anche con modalità indirette purchè la volontà risulti chiara pur senza l’utilizzazione di formule speciale od espressamente derogatorie. Ne consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini e delle aziende editoriali (nella specie, dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), a partire dal c.c.n.l. del 1 novembre 1992, la quota annuale di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 1 per il calcolo del trattamento di fine rapporto concerne la retribuzione indicata, con definizione non onnicomprensiva, nell’art. 21 del c.c.n.l medesimo sulla nomenclatura, ossia quella "complessivamente percepita dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa, nell’orario normale", con esclusione delle prestazioni di lavoro straordinario (Cass. 13 gennaio 2010 n.365 e Cass. 27 maggio 2010 n. 13048).

Con la seconda censura l’Istituto ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1362 c.c. in relazione alla normativa collettiva, assume che erroneamente la Corte del merito, quanto al computo della retribuzione corrisposta per lavoro straordinario negli istituti c.d. indiretti (13A e 14A mensilità) non ha tenuto conto delle specifiche declaratorie contrattuali che disciplinano siffatti istituti dalle quali non è evincibile un concetto di retribuzione onnicomprensiva.

Il motivo è fondato.

E’ ormai principio consolidato (tra le tante Cass. n. 4341 del 3 marzo 2004) che "Nel vigente ordinamento, in materia di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non esiste un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività, e, pertanto, nella quantificazione della retribuzione spettante il compenso per lavoro straordinario di turno può essere computato esclusivamente qualora ciò sia previsto da specifiche norme mediante in riferimento alla "retribuzione globale di fatto", ovvero dalla disciplina collettiva, da interpretare nel rispetto dei canoni di cui all’art. 1362 c.c. e segg.".

In base al medesimo principio questa Corte con la sentenza n. 2781 del 06/02/2008 e con numerose altre conformi, rese in fattispecie del tutto analoghe, ha affermato che nell’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, assume una rilevanza particolare il criterio della interpretazione complessiva delle clausole, di cui all’art. 1363 cod. civ., ed ha annullato con rinvio la sentenza di merito sul presupposto che questa non avesse indagato a sufficienza le norme dei contratti collettivi per i dipendenti dell’Istituto Poligrafico dello Stato del 1989 e del 1992 in materia di incidenza dello straordinario sull’onnicomprensività della retribuzione ed in tema di modalità di determinazione della tredicesima e quattordicesima mensilità. Si è osservato con la citata decisione che "La sentenza impugnata ritiene che l’incidenza dello straordinario continuativamente prestato su tali istituti derivi dall’art. 21 del C.C.N.L. del 1989 il quale darebbe della retribuzione una nozione onnicomprensiva, senza che nello stesso contratto esistano altri parametri che consentano di scorporare da tale nozione alcuno degli elementi retributivi percepiti viene interpretata nel senso che retribuzione sarebbe quanto percepito non solo per l’orario contrattuale, ma anche per lo straordinario fisso e continuativo (che come tale entrerebbe a far parte nello "orario normale"). Tale ricostruzione è del tutto carente, in quanto manca l’esame delle disposizioni dedicate agli istituti retributivi in parola dai due contratti collettivi in esame, nonchè dal regolamento del personale, che dedica specifiche norme alle modalità di determinazione della tredicesima e quattordicesima mensilità e ne fissa il computo in maniera fissa ed invariabile. Tale difetto di indagine comporta la violazione del canone ermeneutico della valutazione complessiva delle clausole contrattuali ( art. 1363 c.c.), che la giurisprudenza di questa Corte ritiene di particolare rilievo nell’interpretazione dei contratti collettivi (Cass. 5.6.04 n. 10721 ed altre conformi)".

Ed infatti, una volta ripudiata la tesi della onnicomprensività della retribuzione, non resta all’interprete che esaminare le singole clausole della contrattazione collettiva, ed interpretarle le une per mezzo delle altre, per accertare quale fosse la reale volontà delle parti sul computo delle mensilità aggiuntive.

Nel caso di specie, poichè la sentenza è stata pubblicata dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, deve invece procedersi all’interpretazione diretta della normativa contrattuale, come previsto dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Le disposizioni contrattuali da applicare sono le seguenti: in primo luogo quelle di cui alla "nomenclatura". I CCNL del 1986 e del 1989 recano un’unica definizione (rispettivamente artt. 19 ed all’art. 21):

"Le dizioni stipendio, salario, retribuzione devono essere intese come segue:

Stipendio e salario è il corrispettivo spettante al quadro, all’impiegato e all’operaio in base ai valori base contrattuali di cui alla tabella dei minimi di stipendio e di salario riportato nella Parte Settima, ed all’indennità di contingenza;

Retribuzione è quanto complessivamente percepito dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa".

Le disposizioni in materia di tredicesima mensilità distinguono tra operai da una parte e quadri ed impiegati dall’altra e sono di identico tenore nel CCNL del 1986 ed in quello del 1989.

Per gli operai all’art. 8 si prevede: "La gratifica natalizia per gli operai e gli apprendisti è stabilita, per ciascun anno, nella misura di duecento ore di retribuzione …..".

Per gli impiegati all’art. 8 ( parte impiegati) si prevede:

"L’azienda corrisponderà una tredicesima mensilità pari al 30/26 della retribuzione mensile percepita dall’impiegato…".

Quanto alla quattordicesima, essa è prevista all’art. 30 del regolamento del personale, concernente quadri, impiegati ed operai e reca la seguente previsione" …. L’ammontare di essa per i quadri e gli impiegati è pari ad una mensilità di retribuzione ; per gli operai è pari al salario orario ragguagliato alla retribuzione ordinaria di un mese".

L’uso del termine "complessivamente" a cui si fa riferimento nella definizione di "retribuzione" vale a segnarne la distinzione rispetto al termine "stipendio o salario", perchè quest’ultimo è comprensivo solo di paga base e contingenza, mentre la "retribuzione" è comprensiva di voci ulteriori che possono competere, come gli scatti di anzianità, spettanti sia agli operai sia agli impiegati (cfr. art. 9 di entrambe le parti del CCNL del 1989), o come l’indennità di turno che spetta agli operai delle aziende grafiche, o anche come l’indennità di cassa spettante agli impiegati (art. 11 CCNL 1989).

Il termine "complessivamente" non indica quindi inequivocabilmente che la "retribuzione" cui far riferimento, per quanto riguarda la tredicesima degli impiegati, debba includere il compenso per lavoro straordinario, perchè essa si riferisce alla inclusione di voci stipendiali diverse.

Inoltre, nelle disposizioni concernenti compenso per il lavoro straordinario, che pure recano minuziose prescrizioni (art. 2 parte operai e art. 2 parte impiegati), non si prevede in alcun modo la inclusione dei relativi compensi nelle mensilità aggiuntive. Va poi considerato elemento significativo il fatto che le parti stipulanti abbiano omesso di indicare le modalità attraverso le quali inserire, nella base di calcolo degli istituti indiretti, i compensi percepiti per lavoro straordinario, i quali, sia pur ricorrenti, sono sicuramente di importo variabile per ciascun mese. Sarebbe allora indebito ogni intervento dell’interprete che dettasse una disposizione "di riempimento", per decidere in qual modo il compenso per lavoro straordinario dovrebbe essere inserito nella retribuzione spettante per le mensilità aggiuntive.

Il silenzio serbato dalle parti sul punto è ancor più significativo se si considera il disposto dell’art. 22 della parte generale del CCNL, laddove figura "Compensi perequativi per le aziende grafiche" ove si dispone che le maggiorazioni per lavoro a turno, e quelle previste dalle norme tecniche delle singole specializzazioni, salvo i casi in cui questo sia prestato occasionalmente, saranno computate per la tredicesima mensilità a la gratifica natalizia "in base alle media maturata nell’anno…". Segno quindi che nei casi in cui si è davvero voluto includere nella tredicesima un compenso di importo mensilmente variabile, lo si è previsto espressamente e si è anche determinata la modalità di calcolo, a differenza di quanto risulta per il compenso per lavoro straordinario, su cui, appunto le parti tacciono.

Ancor più arduo sarebbe ritenere incluso il compenso per lavoro straordinario nella tredicesima degli operai, questa infatti è determinata a ore, perchè, come sopra rilevato, spetta " per ciascun anno, nella misura di duecento ore di retribuzione ….." . Di talchè si dovrebbe preliminarmente determinare la retribuzione oraria comprendendovi il lavoro straordinario e quindi moltiplicare per duecento. Ma della applicabilità di questo tipo di conteggio non vi è traccia nel CCNL. Si deve quindi concludere, alla luce delle molteplici clausole collettive esaminate, per la infondatezza della pretesa di inclusione del compenso per lavoro straordinario nella tredicesima nel vigore dei CCNL del 1986 e del 1989.

E’ parimenti infondata la pretesa di inclusione del compenso per lavoro straordinario nella quattordicesima mensilità.

Invero nè nel CCNL del 1986, nè in quello del 1989 si fa menzione del diritto ad una quattordicesima mensilità, che si ravvisa, così sostengono le parti in causa, nell’art. 30 del Regolamento del personale. In detta disposizione, mentre per gli impiegati si fa riferimento ad una mensilità di retribuzione, per gli operai si richiama il "salario orario ragguagliato alla retribuzione ordinaria di un mese". Ed il riferimento alla "retribuzione ordinaria" conduce pianamente alla esclusione dal computo del compenso per lavoro straordinario, quanto meno per gli operai, rilevando peraltro che sarebbe incongruo ritenerlo invece incluso per gli impiegati, non essendovi ragioni per discriminare tra i due tipi di lavoratori e restando comunque fermo il ravvisato vuoto, nel contratto, del sistema con cui si dovrebbe procedere a detta inclusione.

La sentenza impugnata conseguentemente va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che farà applicazione dei principi sopra enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 14-12-2011, n. 6544 Contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso in appello notificato il 24 ed il 26 aprile 2003, la Regione Calabria esponeva che con sentenza n. 381 del 25 febbraio 2003 il TAR Calabria aveva accolto il ricorso dell’attuale appellato CEM, Centro Europeo Metodico, proposto avverso la nota prot. n. 14458 del 21.12.98: con tale atto l’Assessorato regionale alla formazione professionale aveva dichiarato non ammissibile il progetto presentato da CEM per la selezione del progetto di massima "europrogettisti beni culturali" per la non coerenza delle sedi indicate e per la mancata indicazione di sedi e locali.

Con sentenza in questione il TAR Calabria aveva affermato in sintesi che il ricorso era da considerarsi ammissibile anche a fronte della mancata impugnazione della definitiva aggiudicazione all’ANAP Calabria, Associazione Nazionale di addestramento professionale, poiché l’esclusione dalla gara era comunque atto interruttivo di procedimento selettivo a danno di CEM, che la valutazione sull’ammissibilità del progetto era stata svolta da organo diverso dalla commissione giudicatrice non previsto dal bando e che le ragioni della non ammissibilità non si rinvenivano con evidenza nella legge di gara e non erano giustificate da adeguata motivazione.

La Regione Calabria deduceva contro la sentenza 381/03 le seguenti censure:

1.Sulla dedotta inammissibilità del ricorso di primo grado. Il TAR Calabria ha respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa impugnazione di un atto successivo, l’approvazione della graduatoria del procedimento selettivo, perché l’esclusione dalla stessa procedura costituiva di già atto interruttivo di natura lesiva e non vi era per il CEM l’onere di seguire l’intera sequela procedimentale con l’impugnazione dei successivi atti. In realtà sussisteva l’onere di impugnare l’approvazione finale della graduatoria, poiché la carenza dell’impugnazione di questa avrebbe comportato l’inutilità dell’accoglimento del ricorso avverso la primitiva esclusione, accoglimento meramente strumentale all’aggiudicazione. Dall’annullamento dell’esclusione può derivare l’utilità di essere nuovamente ammessi, ma non il travolgimento dell’intera procedura, ivi comprese valutazione dei progetti ed aggiudicazione, da ritenersi autonomi rispetto alla fase dell’ammissione.

Nel merito.

2.La gara si è svolta con l’ausilio di una subcommissione tenuta a verificare l’ammissibilità dei progetti, mentre la commissione giudicatrice avrebbe vagliato quelli ammessi. Il lavoro della subcommissione era di natura istruttoria e senza il potere di assumere determinazioni di merito; gli atti della sub commissione sono stati fatti propri dalla commissione giudicatrice, senza una reale attribuzione di autonome competenze ad un altro organo.

I rilievi di incompetenza sono poi del tutto infondati, in quanto il lavoro del Dirigente del settore responsabile della sub commissione è stato approvato palesemente dalla commissione giudicatrice, la quale ha ratificato tutte le operazioni.

Quanto al mancato possesso dei requisiti in capo all’appellata, se questi non erano specificati nel bando o determinati dalla commissione giudicatrice, essi erano previsti dalla L. 845/78 e dalla legge reg. 18/85, le quali stabiliscono i requisiti che devono essere posseduti dagli enti che aspirino alle convenzioni e ad esse rinviava espressamente il bando.

La ricorrente concludeva chiedendo l’accoglimento dell’appello con vittoria di spese.

Le parti intimate non si sono costituite in giudizio.

Il Consiglio di Stato accoglieva in data 10 giugno 2003 la domanda di sospensione della sentenza impugnata.

Alla odierna udienza pubblica la causa è passata in decisione.

Motivi della decisione

L’appello deve essere accolto, data la fondatezza assorbente della prima censura, con la quale la Regione Calabria ribadisce l’eccezione di inammissibilità sollevata in primo grado sul ricorso proposto da CEM, in quanto lo stesso, notificato il 18 febbraio 1999, si è limitato a impugnare la nota n. 14458 in data 21 dicembre 1998 recante l’esclusione del proprio progetto dalla procedura selettiva, ma ha del tutto ignorato la graduatoria definitiva avente la stessa data, con cui veniva individuata l’ANAP Calabria quale assegnataria definitiva del finanziamento per il progetto esecutivo "euro progettisti beni culturali".

Il TAR della Calabria ha affermato in breve che non vi era l’onere per la ricorrente di impugnare formalmente i successivi atti della sequela procedimentale, in quanto questi sarebbero stati automaticamente travolti dall’annullamento del provvedimento di esclusione.

Si deve rilevare che già in sede di fase di sospensione dell’esecuzione della sentenza appellata, il Consiglio di Stato con ordinanza n. 2304/03 ha accolto la domanda ponendo in evidenza il fumus di fondatezza della censura inerente l’inammissibilità (rectius: improcedibilità) del ricorso di primo grado per omessa impugnazione del provvedimento contenente la graduatoria definitiva.

E ad ogni buon conto è anche utile porre in evidenza che la parte appellata si trovava nella piena conoscenza della scelta del progetto vincitore e di ciò ha dato prova nel ricorso introduttivo, rilevando con ciò la sostanziale contestualità della propria esclusione e dell’aggiudicazione (si veda per questo l’avviso dell’aggiudicataria ANAP pubblicato sulla "Gazzetta del Sud" del 31.12.98 per la presentazione delle domande di partecipazione al proprio progetto – pag. 3 del ricorso di CEM).

In ogni caso, conformemente a pacifica giurisprudenza amministrativa, l’interesse finale che si fa valere da parte di un soggetto escluso da una procedura come quella in questione non può che essere quello di agire per assicurarsi il bene della vita, ossia l’aggiudicazione:, poiché la rimozione dell’esclusione resta esclusivamente un passaggio strumentale. Vista l’anzidetta contestualità fra esclusione e aggiudicazione, questa ultima doveva essere anch’essa impugnata, eventualmente insieme alla prima, poiché il difetto di impugnazione dell’aggiudicazione ha come conseguenza la totale inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell’esclusione, la quale non permetterebbe più a questo punto un reinserimento di CEM all’interno della procedura esaurita ed inoppugnabile.

Per le considerazioni suesposte l’appello deve essere accolto, con il conseguente annullamento della sentenza impugnata e l’inammissibilità -rectius improcedibilità – del ricorso di primo grado.

Le spese di giudizio possono essere compensate, alla luce del contenuto dei motivi al tempo sollevati da CEM.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo accoglie annullando per l’effetto la sentenza impugnata e dichiarando improcedibile l’originario ricorso di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-06-2012, n. 9437 Nesso di causalità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A., in nome e per conto del figlio minore P. L., ha proposto domanda di risarcimento dei danni contro la Scuola di sci di (OMISSIS), a seguito della caduta del bambino durante un corso di sci.

La caduta, avvenuta il (OMISSIS) verso le ore 11,55, ha provocato la rottura della tibia, a cui è seguito un lungo periodo di ingessatura, con esiti permanenti fra cui il leggero accorciamento della gamba.

L’attore addebita la caduta al fatto che la maestra di sci ha fatto affrontare al piccolo, iscritto ad un corso per principianti ed al quarto giorno di lezione, una pista impegnativa, in un giorno in cui la neve era pesante ed in pessime condizioni, tanto che si erano verificate numerose cadute, anche da parte di sciatori esperti.

I danni sono stati quantificati in Euro 20.392,15.

Il Tribunale di Sondrio ha respinto la domanda.

Con la sentenza impugnata in questa sede la Corte di appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado.

Il P. propone quattro motivi di ricorso per cassazione.

Resiste l’intimata con controricorso.

Motivi della decisione

1.- La Corte di appello ha premesso che l’appellante non ha proposto la sua domanda a titolo contrattuale, ma ha fatto valere la responsabilità della Scuola di sci solo a titolo extracontrattuale, deducendo con l’atto di appello la violazione degli artt. 2048 e 2049 cod. civ.; che pertanto la domanda non poteva essere presa in esame sotto altro profilo, se non a rischio di incorrere in ultrapetizione.

Ha poi ritenuto inapplicabili l’art. 2048 cod. civ., perchè il danno non è stato provocato all’attore da altro allievo della scuola, ma si tratta di danno che il minore ha arrecato a se stesso; gli artt. 2049 e 2043 cod. civ., poichè non è stata sufficientemente dimostrata dall’appellante la colpa dell’insegnante.

2.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ., sul rilievo che la Corte di appello ha erroneamente omesso di applicare le norme in tema di responsabilità contrattuale.

Egli afferma di avere specificato, nell’atto di citazione in primo grado, che il minore era stato iscritto al corso di sci, producendo in giudizio la ricevuta relativa al pagamento del corrispettivo e di avere espressamente imputato la responsabilità dell’incidente alla Scuola "quale contraente del rapporto di insegnamento e quale preponente l’insegnante materialmente responsabile"; che la responsabilità avrebbe dovuto essere imputata a questo titolo, anche in mancanza di espresso accordo, in base all’affidamento di fatto del minore all’insegnante ed ai principi che ricollegano la disciplina del rapporto al c.d. contatto sociale; che con l’atto di appello ha censurato la sentenza del Tribunale, nella parte in cui gli ha addebitato di non avere fornito la prova del danno, richiamando le norme che prevedono per questi casi l’inversione dell’onere della prova, fra cui anche quelle degli artt. 2048 e 2049 cod. civ., ma senza circoscrivere la domanda di accertamento della responsabilità al titolo aquiliana, e che la Corte di appello avrebbe comunque potuto e dovuto qualificare la domanda sulla base della prospettazione dei fatti, che inequivocabilmente configurava una responsabilità contrattuale.

3.- Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., lamenta che la Corte di appello abbia omesso di applicare alla fattispecie le norme in tema di responsabilità contrattuale, in forza delle quali colui che abbia promesso la prestazione di un servizio è tenuto non solo a fornirlo, ma anche a garantire l’incolumità dell’altro contraente, e che, nel caso di inadempimento, grava a carico del debitore l’onere di dimostrare la propria mancanza di colpa.

4.- I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati perchè connessi, sono fondati.

4.1.- Debbono essere preliminarmente respinte le eccezioni della resistente di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza, quanto all’esposizione dei fatti di causa ed ai documenti richiamati nelle argomentazioni difensive.

Il ricorrente ha dettagliatamente riferito le modalità dell’incidente e le circostanze di fatto poste a base dei motivi di ricorso, richiamando testualmente il contenuto degli atti e dei documenti rileganti allo scopo.

4.2.- Quanto al merito, risulta inequivocabilmente dall’atto di citazione in primo grado – trascritto nel ricorso nelle parti rilevanti – che il ricorrente ha prospettato anche e soprattutto la responsabilità contrattuale della Scuola di sci convenuta, a fondamento della sua domanda.

Egli infatti ha premesso alle sue domande un’analitica espositiva in fatto, nella quale ha dato atto che il minore ha subito l’infortunio durante un corso di sci organizzato dalla Scuola di (OMISSIS), a seguito di regolare iscrizione, documentata dalla ricevuta di pagamento del corrispettivo, prodotta in giudizio; ha specificato che l’assegnazione del minore al corso – nella classe dei principianti – è avvenuta sulla base della selezione effettuata dalla maestra di sci indicata dalla Scuola, ed ha fondato l’azione di responsabilità sulla negligente esecuzione da parte di quest’ultima del dovere di vigilanza e di protezione dell’incolumità degli allievi, durante le ore di lezione.

Con l’atto di appello l’odierno ricorrente ha riproposto la domanda risarcitoria, respinta in primo grado, deducendo le medesime circostanze di fatto, le medesime doglianze ed i medesimi addebiti di colpa, che oggettivamente manifestano una fattispecie di responsabilità contrattuale.

Il fatto che i motivi di appello siano stati (poco felicemente) illustrati con particolare riferimento agli artt. 2048 e 2049 cod. civ., non autorizzava la Corte di appello a ritenere che l’appellante avesse voluto restringere e limitare a questo aspetto la valutazione della domanda e della sua fondatezza, in mancanza di ogni espressa dichiarazione in tal senso.

In primo luogo perchè le mere argomentazioni giuridiche della parte non precludono al giudice il potere di qualificare e di valutare diversamente la fattispecie, nell’ambito dei fatti dedotti in giudizio ed in termini congruenti con l’oggetto della domanda e con le finalità perseguite dalla parte.

In secondo luogo perchè l’obiettiva natura della fattispecie dedotta in giudizio – da cui risulta che il piccolo è stato affidato alla Scuola di sci e che l’incidente si è verificato nel corso di una lezione, mentre egli si trovava sotto la vigilanza dell’insegnante – era comunque tale da manifestare di per sè un rapporto di fatto di natura contrattuale, soggetto all’applicazione delle norme di cui all’art. 1218 cod. civ., anche in mancanza di esplicita qualificazione della domanda in tal senso.

Questa Corte ha più volte deciso che, ove il rapporto di fatto manifesti gli estremi del rapporto contrattuale, pur se istituitosi in virtù del mero "contatto sociale" – esso va assoggettato alle norme che regolano gli effetti del contratto ed in particolare all’art. 1218 cod. civ. (Cass. civ. S.U. Cass. civ. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533; Cass. civ. Sez. 3, 24 maggio 2006 n. 12362; Idem, 21 luglio 2011 n. 15992, fra le altre).

Il principio è stato specificamente ribadito con riguardo alla responsabilità della scuola per il danno che l’allievo arrechi a se stesso ("Nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che – quanto all’istituto scolastico – l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che – quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico – tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza (Cass. civ. Sez. 3, 3 marzo 2010 n. 5067), ed ancora con esplicito riferimento all’allievo di una scuola di sci ("In caso di danno per le lesioni riportate a seguito di una caduta da un allievo, minore di età, di una scuola di sci, l’iscrizione e l’ammissione del medesimo al corso determina la nascita di un vincolo contrattuale che fa sorgere a carico della scuola l’obbligo di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo per il tempo in cui questi usufruisce della prestazione scolastica, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso (Cass. civ. Sez. 3, 3 febbraio 2011 n. 2559).

Il timore manifestato dalla Corte di appello di incorrere in ultrapetizione, esaminando la domanda sotto il profilo della responsabilità contrattuale, risulta ingiustificato e fuori luogo, poichè rientra pienamente nei poteri del giudice – ne rappresenta anzi la parte più qualificata – il compito di individuare correttamente le norme applicabili alla fattispecie dedotta in giudizio (iura novit curia), anche in modo diverso da quello indicato dalla parte, purchè nell’ambito dei dedotti rapporti di fatto e coerentemente con la natura del provvedimento domandato.

Nella specie sia i fatti dedotti in giudizio dall’appellante, sia l’oggetto della domanda proposta, erano compatibili con la qualificazione della responsabilità come contrattuale; nè le parti – ed in particolare l’appellante – avevano manifestato volontà contraria o rinuncia a far valere quel particolare titolo di responsabilità.

Erroneamente, pertanto, sono stati omessi l’esame e l’applicazione delle norme e dei principi in materia.

4.3.- Consegue a quanto sopra la fondatezza anche del secondo motivo.

Come si è detto sopra, questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare sia il principio per cui la prestazione contrattuale a carico dell’istruttore scolastico include non solo l’obbligo di impartire gli insegnamenti convenuti, bensì anche quello di vigilare sulla sicurezza e sull’incolumità dell’allievo, anche al fine di evitare che procuri danno a se stesso (Cass. civ. n. 5067/2010 e n. 2559/2011, cit.); sia il principio per cui è in tal caso applicabile "il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 cod. civ.; sicchè, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull1 altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile nè alla scuola nè all’insegnante" (Cass. civ. n. 5067/2010, cit.); ed "In caso di danno per le lesioni riportate a seguito di una caduta da un allievo, minore di età, di una scuola di sci, ………. trovando applicazione il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 cod. civ., il creditore danneggiato è tenuto esclusivamente ad allegare l’inesatto adempimento, già risultante dalle lesioni subite, ma non a fornire la prova dell’evento specifico produttivo del danno, essendo invece onere della scuola dimostrare in concreto, anche per presunzioni, che le lesioni sono state conseguenza di una sequenza causale ad essa non imputabile" (Cass. civ. Sez. 3, 3 febbraio 2011 n. 2559).

Nella specie, pertanto, l’onere di fornire la prova liberatoria da responsabilità era a carico della Scuola preponente ed oggettivamente inadempiente; sicchè erroneamente la sentenza impugnata ha addebitato all’infortunato le conseguenze negative della mancata dimostrazione della colpa dell’insegnante.

Nè la mancanza di colpa poteva ravvisarsi in re ipsa (circostanza peraltro non menzionata nella motivazione), considerato che ad un bimbo di sei anni, principiante alla quarta lezione di sci, è stata fatta affrontare una discesa su "pista rossa", al mezzogiorno di un giorno di aprile inoltrato, quando la neve è normalmente appesantita dal sole e dal caldo.

5.- Il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta l’erronea valutazione delle prove della pericolosità della pista, risulta assorbito.

6.- Il quarto motivo, con cui denuncia violazione dell’art. 2049 cod. civ., sul rilievo che la responsabilità derivante dal rapporto di preposizione sussiste anche quando il preposto non sia dipendente del preponente, è inammissibile perchè non congruente con le ragioni della decisione.

La Corte di appello non ha affermato il contrario di quanto dedotto dal ricorrente; ha anzi espressamente censurato il corrispondente capo della sentenza di primo grado, ritenendo astrattamente configurabile il rapporto di preposizione.

Vero è che non ha tratto dall’affermazione di principio le conseguenze di legge, cioè l’imputazione alla preponente della responsabilità a titolo oggettivo, salvo prova da parte di quest’ultima dell’interruzione del nesso causale, applicando invece i principi generali in tema di responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ..

Per questo aspetto, tuttavia, la questione è assorbita dall’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, sicchè l’intera materia dovrà essere riesaminata dalla Corte di rinvio, in base ai principi di cui agli artt. 1218 e 1228 cod. civ., venendo in considerazione l’art. 2049 cod. civ., solo ove si ravvisi il concorso fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

7.- In accoglimento dei primi due motivi di ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, affinchè decida la controversia uniformandosi ai principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza citata in motivazione, ed in particolare a quelli per cui il caso in esame configura una fattispecie di responsabilità contrattuale e pertanto – nel caso di inadempimento – l’onere di fornire la prova liberatoria da responsabilità grava sulla parte inadempiente.

8.- Il giudice di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie i primi due motivi del ricorso e dichiara assorbiti gli altri motivi.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.