Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-07-2012, n. 13669

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
La Curatela del Fallimento P. S. s.r.l. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze, sez. dist. Di Empoli, A. B. s.n.c, chiedendo il pagamento della complessiva somma di L. 69.091435.
Nella contumacia della convenuta, il giudice adito accolse la domanda.
Proposto gravame dalla soccombente, la Corte d’appello, in data 27 settembre 2007, in riforma della decisione impugnata, ha rigettato la domanda.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte la Curatela, formulando due motivi.
L’intimata non ha svolto alcuna attività difensiva.
Motivi della decisione
1.1 Con il primo motivo l’impugnante lamenta violazione degli artt. 2709, 2214 e 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3. Le critiche si appuntano contro l’affermazione del giudice di merito secondo cui dalla stessa documentazione fornita dalla procedura si evinceva che il credito azionato era, in realtà, già stato estinto dalla convenuta, di talchè la pretesa attrice era destituita di fondamento. Secondo l’impugnante, così argomentando, il decidente avrebbe fatto malgoverno del disposto dell’art. 2709 c.c., a tenor del quale i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore.
Tuttavia chi vuoi trame vantaggio non può scinderne il contenuto.
1.2 Con il secondo mezzo la ricorrente denuncia vizi motivazionali, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Secondo l’impugnante la Curia territoriale, dopo avere ritenuto probante il libro mastro con riferimento ai rapporti successivi al 1 gennaio 1996, aveva contraddittoriamente affermato che non vi era prova di quelli precedenti, con ciò irragionevolmente negando qualsivoglia valore all’appostazione in data 1 gennaio 1996, della somma di L. 88.219.410 a debito di A. B..
2 I due motivi, che si prestano a essere esaminati congiuntamente per la loro intrinseca connessione, sono infondati.
Valga al riguardo considerare che la società convenuta, condannata in primo grado al pagamento della somma richiesta dalla Curatela, ha dedotto in appello, che il Tribunale aveva erroneamente accolto la domanda perchè la sua contumacia e la mancata risposta all’interrogatorio formale deferitole non potevano costituire prova del fondamento della pretesa azionata. Ha quindi versato in atti vari documenti dimostrativi, a suo dire, dell’avvenuta estinzione dell’obbligazione.
La Corte territoriale ha tuttavia ritenuto inammissibile, perchè tardiva, siffatta produzione. Nondimeno ha rigettato la domanda, rilevando che il credito di cui la Curatela aveva chiesto il pagamento risultava solo da appostazioni delle scritture contabili di P. S. s.r.l., all’epoca in bonis: scritture inidonee a provare il fatto costitutivo della pretesa azionata.
3 Ritiene il collegio che il giudice di merito abbia fatto coerente e corretta applicazione dei principi giuridici che governano la materia e che, conseguentemente, siano prive di pregio le critiche formulate dall’impugnante.
E’ invero giurisprudenza consolidata di questa Corte Regolatrice che le scritture contabili, pur se regolarmente tenute, non hanno valore di prova legale a favore dell’imprenditore che le ha redatte, di talchè, qualora egli intenda utilizzarle come mezzi di prova nei confronti della controparte ai sensi dell’art. 2710 c.c., le scritture stesse sono soggette, come ogni altra prova, al libero apprezzamento del giudice, al quale spetta stabilire, nei singoli casi, se e in quale misura siano attendibili e idonee, eventualmente in concorso con altre risultanze probatorie, a dimostrare la fondatezza della pretesa (o della eccezione) della parte che le ha prodotte in giudizio (Cass. civ. Cass. civ. 4 gennaio 2011, n. 105;
Cass. civ. 4 marzo 2003, n. 3188; Cass. civ. 7 febbraio 2001, n. 1715).
Nel caso in esame, il giudice di appello, a fronte della semplice annotazione nelle scritture dell’impresa, e segnatamente nel libro mastro del 1996, di un credito di lire 88.219.410, relativo a rapporti commerciali intrattenuti con la società convenuta nell’anno precedente, ha ritenuto, nell’assenza di qualsiasi altro elemento probatorio e in piena aderenza, quindi, al principio innanzi richiamato, indimostrato il rapporto fondamentale, generatore della pretesa di pagamento fatta valere in giudizio.
Nè l’affermazione del giudice di merito, basata su accertamenti di fatto e valutazioni non sindacabili in questa sede di legittimità circa la predetta carenza probatoria, è stata validamente contrastata dalla Curatela, la quale si è limitata a contestare l’interpretazione degli artt. 2709 e 2710 c.c., accolta dal giudice di merito, assumendo, segnatamente, il malgoverno del principio per cui chi vuoi trarre vantaggio dalle scritture contabili non può scinderne il contenuto. La ricorrente ha così completamente ignorato che nella fattispecie la società convenuta non aveva mai affidato all’esito delle scritture la prova degli intervenuti pagamenti e che le risultanze dei libri contabili sarebbero in definitiva andate a vantaggio esclusivo dell’imprenditore che le aveva redatte.
4 In realtà, la regola posta dall’art. 2709 c.c., che rappresenta un temperamento a quella dell’efficacia probatoria contro l’imprenditore delle scritture da lui tenute, costituisce applicazione del criterio di giudizio dettato dall’art. 2734 c.c., in materia di confessione.
Ma l’operatività del principio secondo cui quando alla dichiarazione della verità di fatti a sè sfavorevoli e favorevoli alla controparte, si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova, nella loro integrità se l’altra parte non contesta la verità dei fatti e delle circostanze aggiunte, esige un comportamento della controparte asseverativo, espressamente o tacitamente, delle affermazioni del confitente, comportamento al quale, con riferimento alle scritture contabili, fa da pendant, quello, riferito anch’esso alla controparte, di volerne trarre vantaggio.
Nella fattispecie, invece, a volersi avvalere delle annotazioni contenute nelle scritture è esclusivamente l’imprenditore obbligato a tenerle, in spregio ai principi di diritto innanzi enunciati.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre IVA e CPA, come per legge.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. II 27-01-2009 (22-01-2009), n. 3814 Revoca della misura coercitiva per maturazione del termine massimo – Applicazione di misura meno gravosa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
Su istanza della difesa di J.R.W., persona sottoposta a procedimento di estradizione ex L. n. 69 del 2005, in (OMISSIS) per l’esecuzione della condanna di anni tre di reclusione per il reato di rapina commesso il (OMISSIS), altresì assoggettata al regime della custodia cautelare in carcere, la Corte di Appello di Catania – sezione minorenni – con ordinanza 1.10.2008, rilevata la scadenza del termine di carcerazione previsto dall’art. 714 c.p.p., comma 4, senza che fosse stata pronunciata sentenza favorevole alla di lui estradizione, revocava la misura cautelare in atto.
Contestualmente, su conforme richiesta dell’Ufficio della Procura generale, la Corte d’Appello disponeva l’applicazione al prevenuto delle misure cautelari del divieto di espatrio, dell’obbligo di dimora nel Comune ove è fissata l’abitazione e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria territorialmente competente.
Lo J.R.W. ha proposto ricorso per cassazione ex artt. 311 e 719 c.p.p., avverso tale provvedimento, nella parte dello stesso relativa all’applicazione degli obblighi predetti, deducendo a motivi del gravame: 1) la violazione di legge processuale nonchè mancanza ovvero manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. c), e) con riferimento all’inosservanza degli artt. 307 e 714 c.p.p.; 2) la violazione della legge processuale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione agli artt. 718 e 127 c.p.p..
Esaminando il primo motivo di ricorso, il collegio rileva che esso è fondato per quanto alla denunciata violazione di legge, di guisa che s’impone l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata. Come esattamente ha rilevato il ricorrente, in piena conformità all’univoco indirizzo di questa Corte di legittimità, l’impugnata ordinanza deve ritenersi illegittima nella parte in cui, in costanza dell’ accertata causa di maturazione del termine massimo stabilito dall’art. 714 c.p.p., comma 4 e della conseguente revoca della misura coercitiva in atto, la Corte territoriale Catanese ha disposto altre misure cautelari quali quelle suindicate. La decisione assunta rappresenta una violazione di legge e, come tale, correttamente deducibile in sede di ricorso ex art. 719 c.p.p.. Secondo quanto già statuito da altra sezione di questa Corte, cui il Collegio intende aderire (v. Cass. Sez. 6^ del 18,10.2006 n. 37555 in Ced Rv. 235680) "Giova, ribadire il principio di diritto secondo cui la materia attinente l’estradizione si articola secondo canoni ben puntualizzati dal legislatore nella parte della loro assoluta autonomia rispetto all’intero sistema processuale e nella parte che a questo, nei limiti e con i riferimenti specifici della norma, si richiama alla disciplina di carattere generale. Orbene, come risulta in termini anche di inequivoca valenza della portata stessa della lettera della legge, dell’art. 714 c.p.p., comma 4 si riferisce alla revoca delle misure coercitive senza distinzione di sorta, inequivocamente collegando tale revoca ad un fatto altrettanto inequivoco (decorso del termine), tanto da tratteggiare una sorta di "automatismo" insuscettibile di condizionamenti o di "recuperi", attraverso misure diverse o alternative pur sempre nell’ambito di quelle coercitive tracciate dal codice di rito. Non a caso l’intento del legislatore di non frapporre la struttura e le caratteristiche del processo ordinario nella materia de libertate a quella tipicizzante il procedimento di estradizione, cadenzato da forme, tempi e modi del tutto autonomi, è dato significativamente coglierlo dalla lettura dell’art. 714 c.p.p., comma 2, in relazione agli artt. 303 e 308 c.p.p., nel quadro del titolo 1 del Libro 4^.
E’, dunque, pienamente fondata la conclusione del ricorrente secondo cui le misure coercitive adottate ai fini estradizionali vanno regolate soltanto sulla base "della specifica disciplina dettata dagli artt. 708, 714, 715, 716 e 718 c.p.p. e delle eventuali norme pattizie" (come tali prevalenti su quelle codicistiche ex art. 696 c.p.p.), con esclusione, in particolare, delle previsioni di cui agli artt. 303 e 308 c.p.p., del tutto incompatibili con la suddetta disciplina, in uno con quelle di cui all’art. 307 c.p.p., comma 1 in relazione alle misure cautelari coercitive. A prescindere dal palese significato della stessa espressione normativa di cui all’art. 714 c.p.p., comma 4 ("le misure coercitive sono revocate se dall’inizio della loro esecuzione è trascorso un anno" senza la pronuncia della sentenza favorevole all’estradizione), non si tratta di una "distinzione puramente terminologica", come esattamente rileva il ricorrente, puntualmente deducendo che "altro è infatti riferirsi ad una categoria di misure restrittive, altro è limitarne la previsione alla sola custodia. Da questa differenza discende quale conseguenza che, decorso il predetto termine temporale massimo e revocata la misura coercitiva in atto, quale che essa sia, non è possibile disporne altra, sia pure meno gravosa (come è stato fatto nella specie). Una diversa lettura dell’art. 714 c.p.p., comma 4 implicherebbe, tra l’altro, un’irragionevole postulazione di nuova decorrenza di altro termine per la nuova misura coercitiva, applicata dopo la revoca della misura in atto, espandendo, in termini di assoluta abnormità, la soggezione al potere cautelare in relazione ai tassativi significati di "termine massimo" che istituzionalmente gli appartengono".
Di qui l’evidente violazione di legge denunciata e la conseguente illegittimità del provvedimento che, in accoglimento della istanza della difesa, e del Procuratore Generale, va annullato senza rinvio.
L’accoglimento del primo motivo di ricorso, comportando l’annullamento dell’ordinanza della Corte d’Appello di Catania nella parte in cui dispone l’applicazione nei confronti di J. R.W. delle misure cautelari del divieto di espatrio, dell’obbligo di dimorare nel Comune dove fisserà la propria abitazione e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria competente per territorio territorialmente competente, rende del tutto superfluo prendere in considerazione il secondo motivo di gravame.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Civile, Sentenza n. 4484 del 2011 Per il birillo “impazzito” sulla corsia non ne risponde la Società Autostrade

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza n. 5578/03 il giudice di pace di Roma rigettò la domanda di [OMISSIS] nei confronti di Autostrade s.p.a. volta al risarcimento del danno patito per la rottura del radiatore (e la successiva fusione del motore) della propria autovettura, provocata da un birillo spartitraffico che delimitava una corsia chiusa al traffico sull’autostrada Al nel tratto (OMISSIS) e che era “schizzato” al centro della cortesia che egli stava percorrendo.

2.- Il tribunale di Roma ha rigettato il gravame del soccombente con sentenza n. 19338/05, avverso la quale il [OMISSIS] ricorre per cassazione affidandosi a due motivi, cui Autostrade s.p.a. resiste con controricorso illustrato anche da memoria.

Motivi della decisione

1.- Il Collegio ha disposto che la motivazione sia redatta in forma semplificata.

2.- Col primo motivo il ricorrente si duole che il tribunale abbia ritenuto che la responsabilità della società convenuta ex art. 2051 c.c. fosse stata inammissibilmente dedotta per la prima volta in appello; col secondo censura la decisione, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2051 e 2697 c.c. ed ogni possibile tipo di vizio della motivazione, per essere stata esclusa la responsabilità della società Autostrade in base ad entrambi i possibili criteri di imputazione; assume, in particolare, che la convenuta non aveva offerto la prova del fortuito per gli effetti di cui all’art. 2051 c.c..

3.- Il ricorso è infondato.

L’inammissibilità per difetto di interesse del primo motivo direttamente discende dal rilievo che il tribunale, pur avendo effettivamente affermato a pag. 10 della sentenza che la responsabilità da cosa in custodia era stata invocata solo in secondo grado, tanto ha fatto in esito alla disamina della fattispecie anche alla luce dell’art. 2051 c.c. esplicitamente chiarendo che la conclusione cui doveva addivenirsi era, in ogni caso, quella del rigetto della domanda e facendo dichiaratamente applicazione dei principi enunciati da questa corte con sentenza n. 298 del 2003 (seguita dalla giurisprudenza successiva), che ha appunto ritenuto l’art. 2051 c.c. applicabile anche al gestore di autostrade.

S’è in quella occasione chiarito che “nell’applicazione del principio occorre peraltro distinguere le situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze dell’autostrada, da quelle provocate dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l’incolumità degli utenti e l’integrità del loro patrimonio. Mentre, invero, per le situazioni del primo tipo, l’uso generalizzato e l’estensione della res costituiscono dati in via generale irrilevanti in ordine al concreto atteggiarsi della responsabilità del custode, per quelle del secondo tipo dovrà configurarsi il fortuito tutte le volte che l’evento dannoso presenti i caratteri della imprevedibilità e della inevitabilità; come accade quando esso si sia verificato prima che l’ente proprietario o gestore, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata al fine di garantire un intervento tempestivo, potesse rimuovere o adeguatamente segnalare la straordinaria situazione di pericolo determinatasi, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere”.

Di tale principio il tribunale ha fatto corretta applicazione laddove, dopo averlo enunciato, ha concluso che l’improvviso rotolamento di un birillo (di cui non si contesta il legittimo impiego) non era nè prevedibile nè rimediabile; e che, dunque, il danno provocato dalla cosa era dovuto al fortuito. Lo stesso ricorrente, del resto, facendo riferimento in atto introduttivo alla circostanza che il birillo fosse “schizzato” al centro della corsia, ha implicitamente escluso che in quella posizione esso già da tempo si trovasse e che, dunque, la società Autostrade avrebbe avuto modo di eliminare la situazione di pericolo repentinamente determinatasi.

Si tratta di un apprezzamento di fatto, assolutamente ragionevole e del tutto adeguatamente motivato. Nè il ricorrente sostiene di aver mai prima rappresentato la possibilità evocata in questa sede: (addirittura) che la violenta proiezione del birillo potesse essere stata provocata dagli operatori del cantiere stradale in atto sulla corsia non percorribile (così il ricorso, a pagina 17, secondo capoverso).

È, infine, del tutto irrilevante che alle censurate conclusioni sulla riconducibilità dell’evento dannoso al fortuito il tribunale sia pervenuto sulla base delle risultanze comunque acquisite, anzichè in esito ad articolazioni probatorie della convenuta.

4.- Il ricorso è respinto.

Le spese, compensate in appello, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.700, di cui 2.500 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Depositata in Cancelleria il 24 febbraio 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-02-2011, n. 3270 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il decreto impugnato, depositato il 3/8/2007, la corte d’appello di Venezia, ritenuta la durata irragionevole del giudizio civile, avente ad oggetto l’accertamento dell’illegittimità della tassa di posteggio imposta dal comune, per la durata di anni 12 ed 1 mese, a fronte della durata ragionevole di 3 anni, ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere ai ricorrenti B., + ALTRI OMESSI la somma di Euro 6050,00 ciascuno; a L.L., erede di L.A., la somma di Euro 1033, 33; a P.D., P.G., P.R. e S., eredi di P.A., la somma di Euro 1300,00; a B.G., B.L. e Z.A., eredi di B.L., la somma di Euro 2500,00; ad A.E., Z.S. e Z.C., eredi di Z.G., la somma di Euro 4500,00; a L.L., L.A., L.G., eredi di L.G., la somma di Euro 1125,00; a P.R. e R. R., eredi di P.M., la somma di Euro 6050,00; oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Ricorrono per cassazione tutti i ricorrenti, sulla base di due motivi.

Il Ministero ha depositato controricorso con ricorso incidentale, avanzato sulla base di tre motivi.

Motivi della decisione

1.1.- Con il primo motivo, i ricorrenti impugnano il decreto della corte d’appello di Venezia ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e degli artt. 2056 e 1226 c.c., nonchè dell’art. 6, par. 1 della CEDU, e per difetto di motivazione, per avere la corte territoriale disatteso i parametri di liquidazione della CEDU adottando una determinazione del tutto arbitraria.

1.2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. n. 127 del 2004, artt. 4, 5 e 6, difetto assoluto di motivazione, per avere la corte territoriale adottato una liquidazione dei diritti e degli onorari palesemente inferiore al minimi tariffari e senza applicare il coefficiente di aumento dovuto per il caso di patrocinio di più persone da parte dello stesso avvocato.

2.1.- Con il primo motivo dell’appello incidentale, il Ministero fa valere la nullità del decreto per violazione degli artt. 132 e 161 c.p.c., nonchè dell’art. 119 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per essere stato il decreto impugnato, pur reso in forma collegiale, firmato dal solo Presidente.

2.2. – Con il secondo motivo, in via subordinata, il Ministero deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 3, e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per riguardare il giudizio presupposto la materia impositiva locale.

2.3.- Con il terzo motivo, in via ulteriormente subordinata, il Ministero denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per doversi avere riguardo,ai fini del decorso del termine di decadenza, nei casi di domanda azionata dagli eredi come tali, alla data del decesso del de cuius, quale dies a quo, in pendenza del processo presupposto.

3.1.- Nell’ordine logico delle questioni, devono essere prioritariamente valutati i motivi dell’appello incidentale, che l’Amministrazione ha fatto valere in via gradata.

3.2.- Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato, atteso che il provvedimento reso ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3, nella forma del decreto, immediatamente esecutivo ed impugnabile per cassazione, pur avendo forma collegiale e natura decisoria, deve essere sottoscritto, secondo quanto disposto dall’art. 135 c.p.c., comma 4, dal solo presidente del collegio, senza che sia necessaria la firma del relatore, come ritenuto dalle pronunce di questa corte, 2969/2006 e 27719/2009. 3.3.- E’ invece fondato il secondo motivo del ricorso incidentale, per le argomentazioni di seguito esposte.

Il giudizio presupposto svoltosi avanti al Giudice ordinario aveva ad oggetto la materia impositiva locale, e nella specie, la legittimità della c.d. tassa di posteggio, imposta ai ricorrenti dal comune di Cologno, e pertanto, trattandosi di materia tributaria, ne consegue l’improponibilità della domanda di equa riparazione, ex L. n. 89 del 2001, con assorbimento del terzo motivo del ricorso incidentale e del ricorso principale e la cassazione del decreto impugnato.

Questa corte ha già avuto modo di approfondire il profilo qui rilevato nella sentenza n. 19367 del 2008, che nella parte rilevante della motivazione si è così espressa: "(La)… simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell’uomo coessenziale, come detto, all’attuazione del principio di sussidiarietà che deve ricondurli a sistema – si realizza, appunto, conformando la fattispecie violativa cui è ricollegata l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 a quella disegnata dalla norma comunitaria di riferimento, come in concreto (quest’ultima) vive attraverso l’esegesi della Corte di Strasburgo. Come rammentato nei richiamati arresti delle S.U., infatti, poichè il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla L. n. 89 del 2001, consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che, pertanto, finisce per essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della L. n. 89 del 2001, ai giudici italiani. Con riguardo specifico alla questione posta nei motivi di ricorso in esame, la Corte dei Diritti dell’Uomo, dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale (in relazione e nei limiti delle quali è tutelato dall’art. 6, p. 1 CEDU il diritto alla ragionevole durata del processo) va determinata "in modo autonomo" da essa Corte, poichè qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l’oggetto e la portata della Convenzione (vd. sentenze in cause Konig. C. R.F.T. del 28.6.78 – Baraona c. Portogallo del 8.7.87 – Maaonia c. Francia n. 39652/98 Pierre Bloch c. Francia del 21.10.97), ha già avuto a tal fine occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni – pur di natura patrimoniale – che "risultino da una legislazione fiscale" ed attengano, invece che a diritti di natura civile, a doveri civici imposti in una società democratica (vd. decisione in causa Schontene Meldrum c. Paesi Bassi del 9.12.94). Del resto, nella più recente sentenza in causa Ferrazzini c. Italia del 12.7.2001 quella stessa Corte -ripropostasi di (e dopo aver provveduto a) "verificare", alla luce dei cambiamenti intervenuti nella società con riguardo alla tutela concessa agli individui nei loro rapporti con lo Stato, se il campo di applicazione dell’art. 6, p. 1 CEDU dovesse o meno estendersi alle vertenze relative alla legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione finanziaria – ha ancora una volta ribadito la estraneità ed irriducibilità delle suddette vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo il più volte citato art. 6 CEDU, ed ha all’uopo sottolineato che "le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell’obbligazione per gli individui di pagare le tasse" poichè "la materia fiscale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica". Da ciò, quindi, la conclusione, per quel che qui rileva, che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per le violazione dell’art. 6, p. 1 CEDU non è riferibile alla eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie, involgenti la potestà positiva dello Stato: che dal quadro di tutela della norma comunitaria restano – per come visto – escluse. Nè è sostenibile (come fa parte ricorrente) che siffatta conclusione sia contraddetta dalla previsione della L. n. 89 del 2001, art. 3 che include, tra i soggetti legittimati passivi rispetto all’azione di riparazione, anche il Ministero delle Finanze quando si tratti di procedimenti tributari.

Detta ultima disposizione – che per la sua natura di norma processuale attinente alle forme di esercizio del diritto non potrebbe immutare ed ampliare i contenuti della tutela, quale definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale di cui al precedente art. 2 della stessa Legge – va infatti letta in modo assolutamente coerente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione, nel senso della sua riferibilità a quelle (e soltanto a quelle) controversie di competenza del giudice tributario, che siano riferibili: A) alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti a questa consequenziali, come, esemplificando, nel caso del giudizio di ottemperanza ad un giudicato del giudice tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 70 od in quello (anch’esso di competenza di quel Giudice come rammentato da S.U. 18208/03) del giudizio vertente sull’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza; B) alla materia penale, intesa quest’ultima – secondo la "nozione autonoma" elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro "gravità", assimilabili sul piano della afflittività ad una sanzione penale (vd. Affare Janoseviv c. Suede del 23.7.2002)".

Le spese del giudizio di merito e di legittimità, liquidate come in dispositivo,seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi rigetta il 1^ motivo del ricorso incidentale, accoglie il 2^ motivo del ricorso incidentale, assorbito il 3^ motivo ed assorbito il ricorso principale; cassa il decreto impugnato e dichiara l’improponibilità della domanda.

Condanna i ricorrenti a rifondere al Ministero della Giustizia le spese di lite, determinate per il giudizio di merito, in Euro 5000,00 per onorari ed Euro 2000,00 per diritti, oltre le spese prenotate a debito, e per il giudizio di legittimità, in Euro 5000,00, oltre le spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.