Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 21-12-2010) 04-02-2011, n. 4216 Imputato dichiarazioni spontanee

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Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Milano confermò la sentenza 18.6.2009 del GIP del tribunale di Busto Arsizio, che aveva dichiarato gli odierni ricorrenti colpevoli dei reati di cui agli artt. 697 e 699 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 80, condannandoli alla pena di anni 4 di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa.

Gli imputati propongono ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 350 c.p.p., comma 7.

Lamentano che erroneamente la corte d’appello ha escluso la inutilizzabilità della chiamata in correità effettuata da S. E. senza le garanzie di cui agli artt. 64 e 65 c.p.p. per la ragione che si sarebbe trattato di inutilizzabilità non patologica e quindi non operante nel giudizio abbreviato. Al contrario, si tratta di inutilizzabilità patologica. Inoltre il riconoscimento fotografico è inidoneo perchè l’albo fotografico non è stato acquisito in atti.

2) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 perchè non sono sufficienti a provare la responsabilità le sommarie informazioni rese da vari soggetti che si fondano su conoscenze de relato. Mancano comunque validi riscontri alla chiamata in correità.
Motivi della decisione

Il primo motivo è infondato. Nella specie, infatti, si tratta di dichiarazioni spontanee rese dal S. alla PG ai sensi dell’art. 350 c.p.p., comma 7. Ora, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, "Le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria sono utilizzabili in sede di giudizio abbreviato anche in mancanza dell’avvertimento di cui all’art. 64, comma 2, lett. c), previsto solo per l’interrogatorio e non per le dichiarazioni di cui all’art. 350 c.p.p., comma 7" (Sez. 3, 3.11.2009, n. 48508, Di Ronza, m. 245622; Sez. 3, 20.1.2010, n. 10643, Capozzi, m. 246590; Sez. 5, 19.1.2010, n. 18064, Avietti, m. 246865); "Le dichiarazioni rese spontaneamente alla polizia giudiziaria dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, a norma dell’art. 350 c.p.p., comma 7, non possono essere utilizzate nel dibattimento se non ai fini delle contestazioni, ma possono essere utilizzate pieno iure nel giudizio abbreviato, considerata la peculiare natura di tale rito, fondato su un giudizio allo stato degli atti" (Sez. 2, 19.9.2003, n. 37374, Busa, m. 227037; Sez. 6, 25.5.2004, n. 29138, D’Alise, m.

229457".

In ogni caso, è stato anche affermato il principio che "La nullità dell’interrogatorio del coimputato che renda dichiarazioni eteroaccusatorie, svolto senza le previste garanzie, non sì estende ai successivi interrogatori nei quali il medesimo soggetto, nel rispetto delle regole procedurali, confermi le precedenti dichiarazioni ancorchè richiamandole "per relationem" (Sez. 1, 10.12.2008, n. 8401, Martello, m. 242969). Nella specie – oltre a trattarsi di dichiarazioni spontanee e non di risposte ad un interrogatorio – il collaborante ha confermato le dichiarazioni stesse in sede di interrogatorio di garanzia, non limitandosi ad un richiamo per relationem, ma aggiungendo la precisazione che "quando i miei connazionali hanno visto arrivare i carabinieri mi hanno consegnato la droga e sono fuggiti".

Quanto ai riconoscimenti fotografici, la corte d’appello ha congruamente osservato che anche l’album C, come tutti gli altri, riporta solo le fotografie di "personaggi di interesse operativo" ed i due attuali ricorrenti sono in esso raffigurati e che comunque vi è certezza e convergenza delle individuazioni fotografiche, effettuate non solo dal S. ma anche da numerosi acquirenti.

Il secondo motivo si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato perchè la corte d’appello ha fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati ed ha ritenuto la sussistenza di validi riscontri alla chiamata in correità. Il motivo peraltro è anche generico perchè non viene nemmeno specificato quali sarebbero le sommarie informazioni che si fonderebbero su conoscenze de relato o si riferirebbero a periodi di tempo diversi o quali sarebbero gli accertamenti investigativi che sarebbero stati omessi. Inoltre, il giudice di primo grado, in particolare, ha osservato come la chiamata in correità aveva trovato riscontro nei risultati della perquisizione domiciliare e nelle dichiarazioni di numerosi soggetti che avevano ammesso di avere acquistato lo stupefacente dai prevenuti.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-04-2011, n. 7959 Iscrizione a ruolo

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Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Firenze, in riforma della decisione del Tribunale di Arezzo, ha dichiarato inammissibile, per inosservanza del termine di quaranta giorni previsto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, l’opposizione proposta dall’Asilo Infantile Orsola e Virginia Palazzeschi contro la cartella di pagamento notificata dall’INPS per un credito contributivo relativo agli anni 1982/1995, oltre somme aggiuntive e sanzione una tantum.

La Corte ha affermato che il termine in questione ha natura perentoria e, pertanto, l’intempestività dell’opposizione proposta, come nella specie, per motivi inerenti 41 merito della pretesa contributiva, comporta la definitività dell’imposizione e degli elementi costitutivi che l’ente previdenziale creditore abbia posto a base della medesima, senza possibilità per l’interessato di esperire successivamente un’azione di accertamento negativo della sussistenza dell’obbligo contributivo.

Per la cassazione di questa sentenza l’Asilo Infantile Orsola e Virginia Palazzeschi ha proposto ricorso fondato su un unico, articolato motivo, illustrato con successiva memoria.

L’INPS resiste con controricorso.
Motivi della decisione

1. Denunciando violazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) l’Istituto ricorrente assume che la sentenza impugnata, così come la decisione di Cass. n.4506/07 – richiamata dal giudice d’appello a supporto della propria opzione ermeneutica – attribuendo all’inosservanza del termine indicato nel comma 5 della disposizione di legge in oggetto l’effetto di precludere al giudice l’accertamento della esistenza dell’obbligazione contributiva e della sua esigibilità, hanno operato una mera dilatazione della disciplina tributaria alla materia previdenziale, senza tener conto dei diversi principi che la regolano, in particolare quello di autotutela, in forza del quale l’ente previdenziale – ove il rapporto non sia coperto da giudicato – può senza limiti di tempo rimuovere, anche in materia contributiva, situazioni illegittimamente formatesi. Prosegue osservando che la Corte territoriale non ha considerato quanto segnalato nel ricorso in appello e cioè che non era stata proposta tempestiva opposizione per aver fatto l’Istituto affidamento su una nota dell’INPS nella quale si comunicava che la cartella già notificata sarebbe stata oggetto di sgravio parziale, così ingenerando nel (presunto) debitore il convincimento che la stessa sarebbe stata annullata e sarebbe stato emesso un nuovo provvedimento, con nuovo termine (quindi) per l’eventuale opposizione. Conclude prospettando, in subordine, questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, in riferimento all’art. 24 Cost., comma 1, derivando dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello un’estrema difficoltà per il destinatario della cartella di pagamento di tutelarsi in giudizio contro la pretesa contributiva dell’INPS. 2. Il motivo è privo di fondamento.

3. La giurisprudenza di questa Corte è, ormai, consolidata (tra tante, Cass. n. 14692 del 2007; nn. 6674 e 17978 del 2008; n.2835 del 2009; n.8900 del 2010) nel ritenere che quello prescritto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, è il termine accordato dalla legge al debitore al fine di instaurare un vero e proprio giudizio di cognizione per l’accertamento della fondatezza della pretesa contributiva dell’ente previdenziale e non già, come sostiene l’odierno ricorrente, un termine che avrebbe funzione regolatrice della sola azione esecutiva. Detto termine ha carattere perentorio, perchè diretto a rendere non più contestabile, in caso di omessa tempestiva impugnazione, il credito iscritto a ruolo e a consentirne una rapida riscossione; e, all’affermazione di tale natura, non è di ostacolo la circostanza che la iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali avvenga senza un preventivo accertamento giudiziale, non ignorando l’ordinamento titoli esecutivi formati sulla base di un mero procedimento amministrativo dell’ente impositore, come nel caso delle iscrizioni a ruolo delle imposte dirette e indirette, che diventano definitive (ove non precedute dall’avviso di accertamento) se non impugnate nei termini di cui alla L. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21. 4. Ne deriva, come sottolineato da Cass. n. 11274 del 2007, che l’accertamento della tempestività del ricorso in opposizione involge la verifica di un presupposto processuale che condiziona la proponibilità della domanda ed è, perciò, un compito che il giudice deve assolvere a prescindere dalla sollecitazione delle parti, si che il mancato rilievo officioso dell’eventuale carenza di questo presupposto comporta la nullità della sentenza rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in ragione del difetto di "potestas iudicandi" determinato dalla preclusione dell’azione giudiziale.

5. La tesi dell’odierno ricorrente, che invoca il principio di autotutela e quello della indisponibilità dei diritti che caratterizzano la materia previdenziale al fine di negare carattere perentorio al termine di cui al ripetuto D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, non tiene conto del fatto che nel processo civile le pretese di parte ed i poteri officiosi del giudice possono essere esercitati solo entro i termini di legge che scandiscono l’andamento del processo medesimo, con la conseguenza che la scadenza di un termine per impugnare rende definitivo l’atto che ne costituisce l’oggetto e non più controvertibili le situazioni sostanziali ivi, anche negativamente, accertate, seppure indisponibili.

6. Si aggiunga che il dato normativo del D.Lgs. n. 26 del 1999, art. 24, è inequivocamente espressivo della volontà del Legislatore di creare un parallelismo tra i crediti degli enti previdenziali e quelli tributari nel momento stesso in cui ha previsto la procedura di riscossione mediante ruolo, tipica delle imposte, anche per i crediti contributivi, inserendo le relative disposizioni in un testo normativo diretto a riordinare la disciplina del procedimento di riscossione mediante ruolo delle entrate tributarie. E, del resto, il termine previsto nel comma 5 non troverebbe alcuna plausibile giustificazione se non fosse finalizzato a rendere incontrovertibile, in caso di intempestiva opposizione, il credito contributivo iscritto a ruolo. Tanto è stato messo in risalto dalla stessa Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 111/07 in cui ha ritenuto manifestamente infondata, in riferimento all’art. 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale del ripetuto art. 24 – laddove attribuisce agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza – sul rilievo, da un lato, che non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire ad un creditore, attesa la sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività, di formare unilateralmente un titolo esecutivo e, dall’altro, che la norma è rispettosa del diritto di difesa e dei principi del giusto processo per la possibilità, concessa al preteso debitore, di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, grazie alla previsione che consente di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, nonchè al sistema di ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione.

7. Osservazioni, queste ultime, che valgono a giudicare manifestamente infondata la questione di costituzionalità prospettata dall’Istituto ricorrente in riferimento al precetto dell’art. 24 Cost..

8. Quanto alla censura di omesso esame, da parte dei giudici d’appello, delle circostanze caratterizzanti la fattispecie dedotta in giudizio, il ricorso difetta del necessario requisito dell’autosufficienza, mancando della trascrizione dell’atto di appello nella parte in cui si sarebbe reiterato il rilievo relativo all’affidamento ingenerato dal comportamento dell’INPS (sulla insufficienza di un mero rinvio all’atto di appello e sulla necessità, invece, della sua riproduzione nel ricorso per cassazione con riferimento alle domande, eccezioni e circostanze non esaminate dal giudice di secondo grado: da ultimo Cass. ord. n.6937 del 2010).

9. Decisiva, comunque, è la considerazione che, a fronte di una decadenza di ordine pubblico, qual è la decadenza dalla proposizione della domanda giudiziale conseguente alla mancata tempestiva proposizione del ricorso in opposizione previsto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, il descritto comportamento dell’ente previdenziale non era, comunque, idoneo ad impedire il decorso del termine per l’opposizione stabilito dalla legge e a precludere il rilievo dell’avvenuta decadenza, operando quest’ultima "de iure", prescindendo dagli atti e dalle condotte delle parti.

10. Inammissibile infine è la deduzione del ricorrente relativa alla mancanza, nella cartella di pagamento, della indicazione del responsabile del procedimento, trattandosi di questione che non risulta prospettata nel giudizio di appello e neppure nel ricorso per cassazione, ma, per la prima volta, solamente nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c..

11. In conclusione, il ricorso va rigettato.

12. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Asilo Infantile Orsola e Virginia Palazzeschi, al pagamento, in favore dell’INPS, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10,00, per esborsi e in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, con accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-05-2011, n. 10132 Prelazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. C.A. acquistava dai germani P. ( P.E. G., P.A.A.E., P.R.C.E. e P.V.R.L.) un fondo agricolo. A. e S.F., insieme a A. e T.P., quali coltivatori diretti dello stesso fondo condotto in affitto, agivano per il riscatto nei confronti del C.. Al giudizio partecipavano anche i germani P., chiamati in garanzia dal C..

Il Tribunale di Sassari accoglieva la domanda di riscatto e rigettava quella di garanzia.

2. La Corte d’appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari, adita dal C., parzialmente accogliendo l’impugnazione, rigettava la domanda di riscatto avanzata dai retraenti e dichiarava inammissibile la domanda di risarcimento riproposta dal C. (sentenza del 28 ottobre 2004).

3. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso principale i S. e i T. con due motivi di ricorso, esplicati da memoria.

Il C. ha resistito con controricorso, presentando, contestualmente, ricorso, qualificato "incidentale", nei confronti dei S. – T. e ricorso qualificato "principale" nei confronti dei germani P..

P.A.A.E., P.R.C.E. e P. V.R.L., nonchè D.A.A., S., C. e P.L. (questi ultimi nella qualità di eredi di P.E.G., deceduto in corso di causa), ritualmente, intimati, non hanno presentato difese.

3.1. Il ricorso principale e il ricorso incidentale, in quanto presentato dopo la notifica del ricorso principale ed entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza, proposti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti.

4. I rigetto della domanda di riscatto da parte della sentenza impugnata si fonda – previo riconoscimento della sussistenza di un contratto di affitto e dell’allevamento di bestiame su fondo oggetto di riscatto – sull’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, non è coltivatore diretto, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, colui che svolge l’attività di allevamento del bestiame sul fondo oggetto di retratto. Si fonda, inoltre, sulla irrilevanza della coltivazione di fondi diversi da quello oggetto di retratto.

La domanda di risarcimento avanzata dall’acquirente è dichiarata inammissibile perchè posta in via alternativa, sia rispetto al soggetto obbligato, sia rispetto al tipo di condanna, generica o specifica, chiesta.

5. Con il primo motivo del ricorso principale, i S. e i T. sostengono l’erroneità della tesi consolidata, fatta propria dalla corte di merito, in ordine alla non ricomprensione dell’attività di allevamento ai fini della qualifica di coltivatore diretto, utile al riscatto di colui che è insediato sul fondo.

La giurisprudenza della Corte, costante e univoca nel tempo, ha affermato il seguente principio: "La qualità di coltivatore diretto legittimante ai fini della prelazione e del riscatto agrari va intesa in senso restrittivo, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 31 e non sussiste in capo a chi si dedica esclusivamente al governo e all’allevamento del bestiame. Infatti, pur ponendo riferimento la suddetta norma alla richiamata attività di allevamento e di governo del bestiame, l’intento del legislatore – perseguito mediante la prelazione e il riscatto – è quello di favorire la coltivazione: a) di un fondo più ampio per una maggiore efficiente produzione, nel caso del confinante; b) di un fondo col quale già sussiste una relazione, nell’ipotesi del titolare di un rapporto agrario, Pertanto, la qualità di coltivatore diretto deve considerarsi attinente propriamente alla coltivazione della terra; di conseguenza, il diritto di prelazione e riscatto è riconosciuto dall’ordinamento a condizione che il soggetto coltivi il fondo (quale proprietario o conduttore, a seconda dei due casi previsti), così rimanendo degradata l’esistenza del bestiame da allevare o da governare al rango di mera evenienza, ovvero di attività complementare alla coltivazione della terra o, comunque, aggiuntiva rispetto alla concreta coltivazione del fondo; rivelandosi insufficiente, ai detti fini, l’esclusivo esercizio dell’attività di allevamento del bestiame" (Cass. 20 dicembre 2005, n. 28237, di recente Cass. 2 marzo 2007, n. 4958).

Il Collegio, valutato che non sussistono ragioni per rimettere la questione all’esame delle S.U. (come sollecitato dai ricorrenti), non rinvenendosi posizioni in contrasto nella giurisprudenza e non potendosi configurare una questione di massima, particolare importanza, conferma l’indirizzo consolidato, con conseguente rigetto del motivo di ricorso.

6. Con il secondo motivo, in via subordinata, i ricorrenti lamentano insufficienza e contraddittorietà di motivazione laddove il giudice:

a) ha fondato il proprio convincimento su una deposizione testimoniale che aveva riconosciuto lo svolgimento della coltivazione di terreni "contigui all’ovile e alla abitazione degli stessi", ritenendo che tali terreni fossero diversi da quello oggetto di retratto; b) ha dedotto dalla presenza di un bosco sul terreno in argomento l’incompatibilità con la coltivazione, senza considerare la possibilità di coltivazione nelle fasce antincendio e nelle zone non boscate e il dato, emergente dalla consulenza di parte dello stesso C., nella quale la mancata coltivazione del foraggio era considerata una voce di danno.

Il motivo va rigettato.

La corte di merito ha logicamente e congruamente motivato. Il dato centrale del convincimento del giudice è che dal sopralluogo del 1995 il terreno è risultato in maggior parte boscato;

conseguentemente, anche l’eventuale presenza di coltivazione (nella parte residua) non avrebbe potuto eliminare la connotazione boschiva fondamentale del fondo. Nè il giudice avrebbe potuto ipotizzare la coltivazione nelle fasce antincendio, se non negandone la stessa funzione. Quanto all’altro profilo di critica dedotto, anche a voler ammettere l’ipotizzato fraintendimento del giudice circa i terreni contigui all’ovile, dove si sarebbe svolta la coltivazione, tale ipotetica coltivazione – dato il carattere comunque recessivo dell’area coltivabile – non avrebbe la forza di capovolgere la natura boschiva del fondo.

7. Il ricorso incidentale del C., si articola attraverso tre motivi.

Con il primo, deducendo genericamente la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, oltre a insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, in riferimento all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5 e all’art. 325 cod. proc. civ., e segg., si censura sostanzialmente la sentenza nella parte in cui riconosce l’esistenza del contratto di affitto a favore dei S. e dei T..

Il motivo di ricorso, a prescindere dalla mancata chiara individuazione delle norme di diritto, è comunque inammissibile per mancanza di interesse.

Infatti, nella controversia per retratto agrario, l’accertamento in ordine all’esistenza del contratto di affitto è funzionale solo alla verifica dell’esistenza di un insediamento "qualificato" sul fondo oggetto di retratto, che costituisce uno dei fatti costitutivi del diritto in argomento. Stante il rigetto del ricorso principale per la mancanza di un requisito necessario per la sussistenza del diritto al riscatto ed essendo sufficiente la mancanza di uno solo dei requisiti previsti dalla legge per negare tale diritto, difetta ogni interesse dell’acquirente ad una pronuncia che riguardi il contratto di affitto.

8. Il secondo e il terzo motivo sembrano censurare, per quel che è dato capire, la parte della sentenza che ha dichiarato inammissibile la domanda di danni avanzata dal C..

Comunque, l’esame degli stessi è precluso alla Corte dalla circostanza che, espressamente, il ricorrente incidentale afferma essere il secondo motivo subordinato all’accoglimento del primo e il terzo subordinato al definitivo riconoscimento del diritto al riscatto a favore dei S. e dei T..

Poichè il primo motivo è stato dichiarato inammissibile e la domanda di riscatto è stata definitivamente rigettata, l’esame degli stessi risulta precluso, con conseguente assorbimento.

Le spese sono compensate in ragione della reciproca soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il primo motivo e assorbiti i motivi secondo e terzo del ricorso incidentale.

Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-02-2011) 23-03-2011, n. 11633

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 13 aprile 2010 il GIP del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, giudicando in ordine alle relative richieste del Procuratore della Repubblica della stessa sede, negava la convalida dell’arresto di R.A. perchè non eseguito in flagranza di reato e, nel contempo, rigettava la richiesta di misura cautelare perchè non riscontrabili, nella fattispecie concreta all’esame del giudicante, i necessari gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato del quale era egli accusato, quello di cui all’art. 424 c.p., comma 2 e art. 99 c.p., commi 1, 2 e 3, in quanto, in concorso con persone non identificate, al fine di danneggiarla, avrebbe appiccato il fuoco all’autovettura di S. G., sindaco in carica del Comune di Pace del Mela; fatto avvenuto poco prima delle ore 4 del mattino ed aggravato dalla circostanza che la condotta avrebbe provocato, altresì, un incendio.

A sostegno della decisione il giudice a quo argomentava che:

– i fatti delittuosi si erano verificati tra le ore 3.45 e le ore 4.00 del mattino, all’interno di un cortile condominiale a servizio, altresì, dell’abitazione della p.l.;

– intorno alle 5.20 militari dei CC. avevano notato, a circa 50 metri dal luogo del danneggiamento, una persona che si muoveva nel buio e che tentava di darsi alla fuga nonostante l’intimazione di fermarsi;

– tale persona veniva comunque inseguita e facilmente raggiunta, trattandosi del settantacinquenne R.A., del luogo, ed al personale di P.G. lo stesso opponeva di essersi spaventato e che si trovava sul posto per cacciare conigli selvatici (il luogo è contraddistinto da una fitta vegetazione a ridosso di una linea ferroviaria);

– in seguito alla perquisizione dell’autovettura del R. erano stati trovati un tubo di gomma lungo circa 1,60 metri ed un guanto in lattice, entrambi emananti odore di benzina;

– il R. aveva giustificato gli oggetti ed il loro odore affermando che gli stessi gli erano serviti per travasare gasolio (e non benzina) nella sua autovettura traendolo dall’imbarcazione di tale G.M., che gliene aveva fatto dono;

– nè la parte lesa, nè l’arrestato avevano dichiarato motivi di astio reciproco e la p.l., in particolare, aveva chiarito di conoscere da tempo il R., guardiano notturno, con il quale aveva da sempre ottimi rapporti;

– le acquisizioni istruttorie erano insufficienti a supportare secondo gravità indiziaria le accuse mosse al R.;

– questi svolge attività di guardiano notturno e ciò rende verosimile la sua versione dei fatti ed, in particolare, la circostanza di essere stato trovato nelle vicinanze della sua abitazione alle 5.20 del mattino;

– il R. è stato fermato a 50 metri dal luogo del danneggiamento circa un’ora e mezza dopo i fatti, circostanza questa francamente anomala per un colpevole dei fatti di causa;

– la giustificazione del possesso del tubo e del guanto, anch’essi stranamente a disposizione degli inquirenti, è stata fatta coinvolgendo terze persone precisamente indicate (tale G. M.) di guisa che agevole si appalesava di esse il necessario (e risolutivo) riscontro;

– manca del tutto un abbozzo di movente dell’azione delittuosa, attesi gli "ottimi" rapporti tra vittima ed accusato secondo quanto dichiarato dalla stessa p.o.;

– le ipotesi investigative secondo le quali il R. avrebbe agito su commissione a scopo intimidatorio per ottenere dal Sindaco provvedimenti favorevoli si dimostra all’evidenza generica e non apprezzabile;

– la condotta consumata va qualificata ai sensi dell’art. 635 c.p., e non già a mente dell’art. 424 c.p., comma 2, non essendosi concretamente verificato alcun incendio, fatto di per sè non grave nella direzione di giustificare l’intervento coercitivo;

– lo stesso accusato non può definirsi, tenuto conto dell’età, persona pericolosa;

– non ricorre nella fattispecie neppure lo stato di quasi-flagranza, giacchè non colto l’accusato dagli operanti con tracce e cose dalle quali desumere la consumazione da parte sua di fatti delittuosi;

– di qui l’insussistenza, infine, degli stessi requisiti giustificativi dell’arresto facoltativo in flagranza di reato.

2. Si duole di tale ordinanza, nella parte relativa alla mancata convalida dell’arresto, il Procuratore della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gozzo, che ricorre a questa istanza di legittimità ai sensi dell’art. 391 c.p.p., comma 4, chiedendone l’annullamento in parte qua per difetto di motivazione e violazione di legge. Denuncia in particolare il procuratore ricorrente che:

– avrebbe confuso il giudicante requisiti del fermo e requisiti necessari per un provvedimento cautelare;

– il giudicante avrebbe acriticamente aderito alla versione difensiva nonostante l’inverosimiglianza di essa sotto più profili;

– in particolare avrebbe dato credito al tentativo di fuga ed alle giustificazioni per questo addotte, nonostante non avesse commesso alcunchè di rilevante, se veritiera la sua versione di essere stato colto mentre cacciava conigli selvatici, peraltro non catturati;

– incredibile appare, altresì, l’affermazione difensiva di non aver percepito rumori e chiasso provocati dall’incendio;

– incongrue appaiono, altresì, le motivazioni del giudicante in ordine alla scarsa gravità del fatto ed alla non pericolosità dell’arrestato, gravato da numerosi "pregiudizi penali". 3. Con motivata requisitoria scritta il P.G. in sede chiedeva dichiararsi la inammissibilità del ricorso, tenuto conto della mancata contestazione circa l’assenza di una situazione di quasi- flagranza valutata dal giudicante e non contestata espressamente dal l’impugnante.

4. Il ricorso è manifestamente infondato.

Va in primo luogo osservato che le censure della pubblica accusa involgono precipuamente e pressocchè esclusivamente ragioni di merito, in quanto volte a valorizzare circostanze fattuali ben individuate dal giudicante, che di esse accredita, motivatamente e con logica coerente, un contrario peso indiziario. A parte ciò non può non convenirsi con le argomentazioni offerte dal P.G. in sede, giacchè nella fattispecie il giudice territoriale ha, sul piano giuridico, riqualificato la condotta a termini dell’art. 635 c.p. aggravato dall’esposizione dell’autovettura danneggiata alla pubblica fede, e negato nel contempo la riconoscibilità nella vicenda delibata dei requisiti della quasi-flagranza. Nè sul primo nè sull’altro argomento il procuratore ricorrente svolge specifiche censure, con la conseguenza processuale che il suo gravame si espone a rilievi di palese genericità ed al conseguente giudizio di inammissibilità.
P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

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