Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-05-2011, n. 11211 Imposta incremento valore immobili – INVIM

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 29/9/2005 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia accoglieva in gravame interposto dall’Agenzia delle entrate Milano (OMISSIS) nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Milano di parziale accoglimento dell’opposizione spiegata dalla contribuente sig.ra P.G.G.P. in relazione a cartella di pagamento emessa a titolo di INVIM, con sanzioni ed interessi, per l’ammontare di Euro 14.567,50.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello la P. G. propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico complesso motivo.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Motivi della decisione

Con unico complesso motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta che, trattandosi di società in liquidazione e cancellata dal registro delle imprese, la notifica dell’impugnato avviso di accertamento avrebbe dovuto essere effettuata nei confronti della persona avente la rappresentanza dell’ente sostanzialmente non estinto, e cioè al liquidatore, le cui generalità risultavano indicate nell’intestazione dell’atto stesso da notificare.

Si duole che il giudice dell’appello abbia affermato dover essere l’avviso di accertamento de quo notificato al liquidatore per poi contraddittoriamente ritenere il medesimo ritualmente notificato presso la sede legale della società.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come la medesima faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., alla cartella di pagamento; alla cancellazione dal registro delle imprese di Milano in data 23 ottobre 1996 e alla relativa trascrizione … effettuata dal medesimo Registro delle imprese in data 5 novembre 1996; all’avviso di accertamento; alla notifica dell’avviso di accertamento INVIM … in data 3 dicembre 1997 presso la suddetta sede legale, mediante consegna di copia a mani della Sig.ra C.M.L., qualificatasi addetta alla sede; alla sentenza della Commissione Tributaria di Milano … del 15 aprile 2002; all’atto di appello;

alle carte dei precedenti gradi del giudizio esperiti, con riferimento alla persona che aveva ricevuto l’avviso di accertamento INVIM Sig.ra C.M.L., che appare qualificata come addetta alla sede … qualifica … che infatti non esiste- ) di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 172/1995, n. 1161).

Va in ogni caso osservato che non sussiste la lamenta contraddittorietà della motivazione per aver il Giudice di Secondo Grado dichiarato che l’avviso d’accertamento debba essere notificato, in caso di società cancellata dal Registro Imprese, al Liquidatore senza tenere poi conto che tale atto di accertamento è stato invece … irritualmente notificato presso la sede legale della ricorrente.

All’esito di accertamento in fatto relativo al mancato esaurimento di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società cancellata dal registro delle imprese (sul punto, anche relativamente alla entrata in vigore e alla applicabilità del novellato art. 2945 bis c.c. con riferimento alla cancellazioni come nella specie anteriori al 1 gennaio 2004, v. Cass., Sez. Un., 22/2/2010, n. 4062 ), la corte di merito ha nell’impugnata sentenza infatti affermato, con motivazione congrua e coerente con le poste premesse giuridiche, affermato che può ben essere esperita un’azione autonoma e diretta contro la società, in persona del liquidatore peraltro nella sede di tale società e non nel domicilio del liquidatore, e che essendo nel caso la notifica dell’avviso di accertamento e della cartella in questione effettuata dall’Ufficio nella sede della società essa deve ritenersi validamente eseguita.

Quanto alla doglianza secondo cui la notificazione presso la sede legale, mediante consegna di copia a mani della Sig.ra C. M.L., qualificatasi addetta alla sede (in argomento cfr.

Cass., 20/9/2007, n. 19468 ), nella specie risulterebbe comunque inidonea in quanto la medesima non sarebbe tale come risulta con evidenza dalle carte dei precedenti gradi del giudizio esperiti, a parte il decisivo rilievo al riguardo assunto della già evidenziata carenza di autosufficienza non può invero sottacersi che essa si appalesa altresì connotata da inammissibili profili di novità.

Orbene, emerge evidente alla stregua dei suindicati rilievi come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni della ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come si è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., la ricorrente in realtà sollecita, contro ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, di cui Euro 1.300,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 11-02-2011) 29-03-2011, n. 12719 Reato continuato e concorso formale

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Dott. D’AMBROSIO Vito che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’ordinanza in epigrafe indicato il Tribunale di Salerno ha confermato il provvedimento emesso in data 18.10.2010 dal Gip presso il Tribunale della stessa città, applicativo della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di T.B., indagato, del reato di detenzione continuata ai fini di spaccio di sostanza stupefacente del tipo cocaina ex art. 81 cpv. c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, art. 73.

Propone ricorso per Cassazione l’imputato articolando un unico motivo, con il quale lamenta la carenza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, sul rilievo che sarebbe mancato nella ordinanza impugnata ogni riferimento al quadro indiziario circa la destinazione a terzi della sostanza stupefacente, difettando del resto il rinvenimento di alcuna sostanza stupefacente nella disponibilità dell’imputato. In particolare sostiene il ricorrente che gli elementi posti alla base del provvedimento in questione si fonderebbero esclusivamente sul contenuto di intercettazioni telefoniche asseritamente dimostrative, invece, solo dei rapporti intrattenuti dal T., all’epoca consumatore di cocaina, con il fornitore della sostanza. Sotto un altro profilo, si lamenta l’illogicità della motivazione con riferimento alle esigenze cautelari, erroneamente fondate sul pericolo di reiterazione del reato ex art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c), nonostante l’incensuratezza del T..

Il ricorso non può trovare accoglimento, laddove si risolve in una censura sulla valutazione del quadro indiziario posto a fondamento del provvedimento de libertate che esula dai poteri di sindacato del giudice di legittimità, non palesandosi il relativo apprezzamento motivazionale nè manifestamente illogico, nè viziato dalla non corretta applicazione della normativa di settore. In proposito, va ricordato che, secondo assunto non controverso, in tema di misure cautelari personali, la valutazione del peso probatorio degli indizi è compito riservato al giudice di merito e, in sede di legittimità, tale valutazione può essere contestata unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili, viceversa, le censure che, pure investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze già esaminate da detto giudice (di recente, ex pluribus, Cass., Sez. 4, 4 luglio 2003, Pilo; nonchè, Sez. 4, 21 giugno 2005, Tavella). Ciò che, nella specie, il ricorrente fa quando si limita a contestare "nel merito" il quadro probatorio a carico evidenziato nell’ordinanza cautelare, fondato sul contenuto di intercettazioni plurime, il cui significato probatorio è stato analizzato con attenzione ed è supportato da una motivazione ampiamente esaustiva, specie ove si consideri che si tratta di una decisione de libertate. Infatti, non può essere dimenticato che, nella materia de libertate, la nozione di "gravi indizi di colpevolezza" di cui all’art. 273 c.p.p. non si atteggia allo stesso modo del termine "indizi" inteso quale elemento di prova idoneo a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza, che sta ad indicare la "prova logica o indiretta", ossia quel fatto certo connotato da particolari caratteristiche (v. art. 192 c.p.p., comma 2) che consente di risalire ad un fatto incerto attraverso massime di comune esperienza. Per l’emissione di una misura cautelare, invece, è quindi sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitatigli. E ciò deve affermarsi anche dopo le modifiche introdotte dalla L. 1 marzo 2001, n. 63: infatti, nella fase cautelare è ancora sufficiente il requisito della sola gravità ( art. 273 c.p.p., comma 1), giacchè l’art. 273 c.p.p., comma 1 bis (introdotto, appunto, dalla suddetta legge) richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non dell’art. 192 c.p.p., il comma 2, che prescrive la precisione e la concordanza accanto alla gravità degli indizi: derivandone, quindi, che gli indizi, ai fini delle misure cautelari, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall’art. 192 c.p.p., comma 2, e cioè con i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (cfr. ancora, Cass., Sez. 4, 4 luglio 2003, Pilo n. m. sul punto; nonchè, più di recente, Sez. 4, 21 giugno 2005, Tavella n. m. sul punto). La censura non coglie, quindi, nel segno: non emergono nella decisione gravata violazioni di norme di legge e, nel merito, le argomentazioni a supporto della ordinanza custodiale non sono sindacabili in questa sede, a fronte della rappresentazione, non illogica, di un quadro indiziario senz’altro grave nei termini di cui si è detto, che consente, per la sua consistenza, di prevedere che, attraverso il prosieguo delle indagini, sarà idoneo a dimostrare la responsabilità del prevenuto, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (cfr. Cass., Sez. 2, 19 gennaio 2005, Paesano).

Come si è accennato, tali principi risultano pienamente rispettati, risultando dalla motivazione dell’ordinanza gravata come si sia proceduto ad un legittimo richiamo al contenuto delle conversazioni intercettate, ritenuto significativo della contestata fattispecie incriminatrice.

In questa prospettiva, la doglianza sollevata dalla difesa circa l’interpretazione del contenuto delle intercettazioni, è inaccoglibile, invocandosi qui un controllo censorio sull’apprezzamento del quadro probatorio non esercitabile a fronte di una motivazione che non si appalesa ictu oculi illogica. Nella specie, non è dubitabile che il giudice del riesame, confermando l’ordinanza cautelare, ha evidenziato in maniera non illogica gli elementi posti a sostegno della gravità del quadro indiziario, non potendo negarsi tale valenza: al contenuto delle intercettazioni delle telefonate tra il T. e terzi soggetti, alcuni dei quali compiutamente identificati, con evidenza riferibili alla cessione della droga, rilevanti ai fini della prova del pieno inserimento del ricorrente nel mercato della droga.

Mentre non è inutile sottolineare, per corrispondere ad uno degli argomenti della doglianza, che, dal punto di vista probatorio, per ritenere il reato di detenzione a fini di spaccio e finanche quello di spaccio, non sono certamente indispensabili il sequestro o il rinvenimento di sostanze stupefacenti, poichè la consumazione di tali reati può essere dimostrata attraverso le risultanze di altre fonti probatorie, quali nella specie il contenuto delle intercettazioni (cfr., per riferimenti, Cass., Sez. 6, 14 ottobre 1986, Manara RV 174548).

La presenza del quadro indiziario sopra evidenziato, esclude con evidenza la destinazione all’uso personale, come sostenuto dal ricorrente. Non miglior sorte può avere la doglianza articolata in punto di adeguatezza della misura cautelare, avendo il tribunale ampiamente motivato sulla pericolosità sociale dell’indagato, in tal modo giustificando la scelta della misura cautelare degli arresti domiciliari, del resto già più gradata rispetto a quella della custodia in carcere.

Anche con questa doglianza, il ricorrente vorrebbe, inammissibilmente, che questa Corte esercitasse un controllo di merito, attraverso una non consentita rilettura della vicenda e una parimenti non consentita rinnovazione del giudizio di adeguatezza e proporzionalità, effettuato dal giudicante in modo rispettoso del disposto normativo ( art. 275 c.p.p., commi 2 e 3).

Mentre, parimenti in modo corretto ed adeguato il giudicante ha motivato sulla ritenuta sussistenza dell’esigenza cautelare del pericolo di recidiva. Come è noto, in tema di esigenza cautelare costituita dal pericolo di reiterazione di reati della stessa indole, prevista dall’art. 274 c.p.p., lett. c), la pericolosità sociale dell’indagato deve risultare congiuntamente dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla sua pericolosità.

Peraltro, nulla impedisce di attribuire alle medesime modalità e circostanze di fatto una duplice valenza, sia sotto il profilo della valutazione della gravità del fatto, sia sotto il profilo dell’apprezzamento della capacità a delinquere: in vero, le specifiche modalità e circostanze del fatto ben possono essere prese in considerazione anche per il giudizio sulla pericolosità dell’indagato, costituendo la condotta tenuta in occasione del reato un elemento specifico assai significativo per valutare la personalità dell’agente (ex pluribus, Cass., Sez. 1, 14 maggio 2003, Franchi; più di recente, Cass., Sez. 2, 22 giugno 2005, Pezzano).

E’ quanto risulta essere stato fatto nella vicenda de qua, per le ragioni suindicate.

Ciò che basta a ritenere incensurabile la relativa valutazione, anche perchè il giudicante non ha trascurato neppure di considerare il profilo della formale incensuratezza del prevenuto.

Del resto, come è noto, in tema di esigenza cautelare costituita dal pericolo di reiterazione di reati della stessa indole ( art. 274 c.p.p., comma 1, lett. e), non può ritenersi che tale pericolo sia escluso in modo automatico dallo stato di incensuratezza, giacchè la pericolosità sociale dell’indagato (o dell’imputato) può essere desunta oltre che dai precedenti penali, anche dai comportamenti o dagli atti concreti posti in essere dall’agente (RV 237240 ivi cit.).

Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quello della somma di 1000 Euro in favore della Cassa delle Ammende in considerazione delle ragioni del ricorso.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-07-2011, n. 15169 contratto a termine

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Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore, giudice del lavoro, di Roma, notificato in data 4.4.1997, M.A., premesso di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della società Aeroporti di Roma s.p.a. in virtù di due contratti a termine, il primo per il periodo dal 15.5.1992 al 14.11.1992 (prorogato con lettera del 5.11.1992 sino al 31.4.1993) ed il secondo per il periodo dall’1.6.1993 al 30.11.1993, stipulati ai sensi del punto "C", n. 9, sub "a" dell’accordo interconfederale sulle politiche di formazione professionale sui contratti di formazione e lavoro sottoscritto il 5.1.1990 tra l’Intersind e le confederazioni CGIL, CISL e UIL ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 (che prevedeva la possibilità di procedere all’assunzione con contratto a termine di lavoratori di età superiore a 29 anni iscritti nelle liste di collocamento), rilevava che il rapporto doveva ritenersi trasformato in rapporto a tempo indeterminato sia perchè la clausola dell’accordo interconfederale aveva validità di soli due anni a partire dal 2.5.1990, sia perchè il rapporto di lavoro in questione si era realizzato in violazione della L. n. 230 del 1962, sia perchè la proroga del primo contratto era intervenuta in assenza di alcuna circostanza che la legittimasse come previsto dalla L. n. 230 del 1962. Chiedeva pertanto che venisse accertata la nullità della clausola di apposizione del termine con conseguente dichiarazione che il rapporto intercorso tra le parti era a tempo indeterminato e condanna della società datoriale al pagamento delle retribuzioni.

Con sentenza in data 23.10/7.11.1997 il Pretore adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 7510 in data 28.3.2000/26.2.2001, in parziale accoglimento del gravame, dichiarava che tra le parti si era instaurato dal 15.5.1992 un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e condannava la società appellata al pagamento delle retribuzioni dal 4.4.1997, oltre interessi legali.

In particolare il giudice d’appello rilevava la illegittimità dell’accordo interconfederale per violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 non ravvisando la sussistenza delle ipotesi oggettive di ricorso al contratto a termine.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso per cassazione la società Aeroporti di Roma s.p.a. chiedendo l’annullamento della sentenza, e proponeva altresì ricorso incidentale il lavoratore censurando sotto altri profili la decisione impugnata.

Con sentenza n. 8739 del 7.4.2004 questa Corte di Cassazione accoglieva il ricorso principale, dichiarava assorbiti i primi tre motivi del ricorso incidentale ed inammissibili il quarto ed il quinto motivo e, cassata la sentenza, rinviava alla Corte d’appello di L’Aquila enunciando il seguente principio di diritto:

"nell’identificazione delle fattispecie nelle quali è consentita l’assunzione di lavoratori subordinati con contratto di lavoro a termine ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 (disposizione che opera sul medesimo piano della disciplina generale dettata in materia dalla L. 18 aprile 1962, n. 230 e si inserisce nel sistema da questa delineato), la contrattazione collettiva è libera di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, anche in considerazione delle ragioni soggettive connesse alla condizione dei lavoratori assunti".

Procedutosi alla riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza 8.6/22.8.2006, rigettava l’appello proposto dal lavoratore nei confronti della decisione del Pretore di Roma.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione M. A. con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la società intimata.
Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare osserva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la previsione della limitata validità del punto 9 dell’Accordo Interconfederale in questione sarebbe stata superata dalla regola generale di vigenza dell’intero accordo alla stregua della clausola di proroga tacita di cui al punto 14, disattendendo il rilievo dell’appellante circa la ristretta validità temporale della regolamentazione dei contratti a termine contenuta al punto 9, limitata a due anni a decorrere dal decreto ministeriale previsto dal detto accordo (intervenuto il 2.5.1990).

Col secondo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’accordo interconfederale 5.1.1990 tra Intersind e GCIL, CISL e UIL, e degli artt. 1362, 1363, 1367 e 1369 c.c..

In particolare rileva che il chiaro testo dell’accordo in parola non consentiva la innovativa interpretazione fornita dalla Corte di merito in ordine alla proroga tacita della validità temporale della regolamentazione sperimentale di cui all’art. 9 di tale accordo.

All’esito di tale motivo il ricorrente ha formulato il seguente quesito di diritto: "La clausola dell’accordo interconfederale sulle politiche di formazione professionale e sui contratti di formazione e lavoro sottoscritto il 5.1.1990 tra l’Intersind e le confederazioni CGIL, CISL e UIL, ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 relativa ai contratti a tempo determinato, aveva validità di due anni decorrenti dalla data del decreto ministeriale di approvazione della delibera della Commissione regionale per l’impiego ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 25 il quale era stato adottato il 2.5.1990? In tema d’interpretazione dei contratti collettivi, anche in applicazione dell’art. 1362 c.c., il primo e principale strumento dell’operazione ermeneutica è costituito dalle parole che compongono la formulazione letterale dell’accordo negoziale, essendo ogni altro criterio meramente sussidiario e residuale, e come tale utilizzabile unicamente in presenza di una formulazione testuale ambigua ed oscura? In applicazione dell’art. 1367 c.c. è unicamente consentito attribuire al testo contrattuale un significato che possa avere un qualche effetto mentre non è previsto che si debba attribuire all’atto un significato tale da assicurarne la sua più estesa applicazione? In presenza di due patti contrattuali, ciascuno con chiaro significato, ma fra loro contrapposti, trova applicazione il criterio ermeneutico di cui all’art. 1369 c.c., sulla interpretazione più conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto, tenendo conto che la norma, riferendosi all’ipotesi di "espressioni con più sensi", include il caso in cui un duplice senso sia evincibile, anzichè dallo stesso contesto, da passi distinti del documento negoziale?".

Col terzo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 nonchè della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 3.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che non fosse applicabile al caso in esame la L. n. 230 del 1962, art. 2 poichè, in generale, tale disposizione non trovava applicazione ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23.

All’esito di tale motivo il ricorrente ha formulato il seguente quesito di diritto: "In materia di assunzione a termine dei lavoratori subordinati, la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 che attribuisce alla contrattazione collettiva la possibilità di identificare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, le quali possono essere diverse e più ampie rispetto a quelle previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, si inserisce pur sempre nel sistema delineato da tale legge; ne consegue che ai contratti a termine stipulati ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 nella vigenza della L. n. 230 del 1962 sono applicabili le disposizioni di cui all’art. 2 di questa legge, e quelle di cui all’art. 1, nei limiti della loro compatibilità, e all’art. 3, in materia di onere della prova?".

Posto ciò, rileva il Collegio che il ricorso è inammissibile.

Preliminarmente devesi osservare che il giudizio demandato a questa Corte è limitato alla verifica della eventuale violazione dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 1362 ss. c.c., o il vizio di motivazione. Infatti, alla controversia non si applicano le regole dettate dal legislatore del 2006, per le quali è possibile ricorrere per cassazione anche per violazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Tanto premesso, è necessario innanzi tutto ricordare, in relazione al secondo motivo del ricorso, che, secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte (v., fra le molte pronunce, Cass. sez. 1, 24.6.2008 n. 17088; Cass. sez. lav.

13.6.2008 n. 16036; Cass. sez. lav. 12.6.2008 n. 15795; Cass. sez. I, 22.2.2007, n. 4178), l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato a giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Il sindacato di questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito.

Inoltre, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi, in sede di legittimità, del fatto che sia stata privilegiata l’altra. Specularmente, il vizio di motivazione, in punto di interpretazione del contratto, deve emergere dall’esame del ragionamento e degli argomenti svolti dal giudice del merito, e non dalla possibilità di un diverso significato attribuibile al negozio, nè deve riguardare l’apprezzamento del significato delle clausole del contratto, ma solo la coerenza formale, ossia l’equilibrio dei vari elementi che costituiscono la struttura argomentativa (cfr, ex plurimis, Cass. sez. 1, 2.5.2006 n. n. 10131; Cass. sez. 3, 21.4.2005 n. 8360; Cass. sez. 3, 25.2.2005 n. 4063; Cass. sez. 3, 6.8.2004 n. 15197; Cass. sez. 3, 19.7.2004 n. 13344; Cass. sez. 3, 17.7.2003 n. 11193).

Pertanto, onde far valere una violazione di legge, il ricorrente per cassazione non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto altresì a precisare – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (Cass. sez. 2, 2.8.2005 n. 16132;

Cass. sez. lav., 21.4.2005 n. 8296; Cass. sez. 3, 25.2.2005 n. 4063;

Cass. sez. lav., 9.2.2004 n. 2394; Cass. sez. lav., 1.4.2003 n. 4948;

Cass. sez. lav., 1.4.2003 n. 4905).

Analogamente, non è ammissibile la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che, dedotta sotto il profilo della violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolva in realtà nella proposta di un’interpretazione diversa (Cass. sez. 2, 3.11.2004 n. 21064; Cass. sez. lav., 9.8.2004 n. 15381; Cass. sez. lav., 23.7.2004 n. 13839;

Cass. sez. 3, 21.7.2004 n. 13579; Cass. sez. 3, 5.7.2004 n. 12289;

Cass. sez. 2, 30.5.2003 n. 8809; Cass. sez. 2, 20.5.2001 n. 7242;

Cass. sez. lav., 18.2.2000 n. 1886; Cass. sez. 1, 4.2.2000 n. 1225;

Cass. sez. lav., 29.1.2000 n. 1045).

Tali considerazioni si appalesano necessarie, ai fini di un ordinato iter argomentativo e di una migliore comprensione della consequenzialità logico – giuridica dei vari passaggi motivazionali della presente sentenza, ove si osservi, sul versante processuale, che, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata il 22.8.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che "nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto".

Orbene, nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis:

Cass. SS.UU., 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360;

Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta. Ed invero sul punto è stato altresì rilevato che il rapporto corrente fra il motivo del ricorso ed il relativo quesito è assimilabile a quello che intercorre fra motivazione e dispositivo della sentenza, dovendosi la decisione rapportare al motivo che sorregge il quesito, in termini analoghi a quelli che caratterizzano la valutazione della corrispondenza fra motivazione e dispositivo della sentenza (Cass. sez. lav., 21.9.2007 n. 19560).

Orbene, a siffatti criteri non si è attenuto il ricorrente ove si osservi che, al di là della indicazione degli articoli del codice in ipotesi violati, la previsione della norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. richiede la chiara indicazione delle ragioni per le quali si ritiene la dedotta insufficienza della motivazione e, in tema di interpretazione dei contratti, la specifica indicazione dei canoni ermeneutici violati, in relazione ai consolidati principi enunciati sul punto da questa Corte di Cassazione. Principi in base ai quali il significato delle clausole contrattuali deve essere desunto dal senso letterale delle parole utilizzate e dalla comune intenzione delle parti, da intendersi quale volontà esteriormente riconoscibile alla stregua del significato delle parole utilizzate dai contraenti e del significato che le parti, per come emerge dal comportamento tenuto anche successivamente alla conclusione del contratto, hanno ritenuto di attribuire alle stesse ( art. 1362 c.c., commi 1 e 2), e deve essere desunto altresì dalla lettura complessiva del contratto le cui "clausole si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto" ( art. 1363 c.c.): ciò in quanto siffatta operazione interpretativa deve essere effettuata attraverso la connessione dei vari elementi e la loro reciproca integrazione, ricercando cioè il senso che risulta dal complesso dell’atto, alla stregua del fondamentale principio logico per cui l’atto deve essere interpretato con la lettura non di un suo isolato brano, bensì del suo integrale contenuto; tutte le altre norme di ermeneutica contrattuale sono applicabili solo se si determinano situazioni peculiari (ad esempio laddove vengano usate espressioni generali o indicazioni esemplificative) o quando, applicati i criteri dettati dagli articoli precedenti, le previsioni contrattuali conservano ambiguità non risolte (per espressa previsione degli artt. 1367 e 1370, le regole contenute in tali norme operano solo se, applicati i criteri degli artt. 1362 e 1366, le clausole rimangono ambigue, dubbiose, oscure); in via ulteriormente sussidiaria e del tutto residuale si può ricorrere alle regole finali fissate dall’art. 1371.

Va pertanto ritenuta l’inammissibilità del ricorso in relazione al detto motivo.

Ed analoga statuizione va adottata in relazione al terzo motivo.

Il quesito relativo si presenta infatti generico ed astratto, in quanto non individua il momento di conflitto in relazione alle specifiche argomentazioni sviluppate nel caso concreto dalla Corte di merito, laddove la stessa ha ritenuto la non applicabilità delle disposizioni di cui alla L. n. 230 del 1962 proprio in relazione alla peculiarità della fattispecie in esame, in cui la legittimità della stipula del contratto a tempo determinato era stata ritenuta sulla base di elementi non già di carattere oggettivo, bensì di carattere soggettivo, pervenendo alla conclusione della inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 2 della legge predetta in tema di proroga del contratto a termine in quanto basata sulla presenza di ulteriori esigenze di carattere obiettivo, e cioè di elementi assolutamente estranei all’ipotesi prevista dall’accordo interconfederale basata, per come detto, su elementi di carattere puramente soggettivo.

Orbene, il quesito proposto a questa Corte non evidenzia in alcun modo questo specifico elemento attinente alla concreta fattispecie in esame, e quindi non enuclea il momento di effettivo conflitto tra la statuizione adottata e la normativa indicata.

Va pertanto ritenuta l’inammissibilità del ricorso anche in relazione al suddetto motivo.

E siffatta inammissibilità si ravvisa anche in relazione alle censure, di cui al primo motivo del ricorso, afferenti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ed invero la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni del vizio di motivazione, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. sez. 3, 7.4.2008 n. 8897; Cass. SS.UU. 1.10.2007 n. 20603).

Siffatta indicazione non si ravvisa nella fattispecie in esame, in relazione alla questione concernente la limitata validità temporale del punto 9 dell’Accordo Interconfederale, di talchè anche sotto questo profilo il ricorso proposto va ritenuto inammissibile.

Segue a tale pronuncia la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-08-2011, n. 17258 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza dell’8 giugno 2006 la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza del 13 maggio 2005, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in data 8 giugno 1998 fra la Poste Italiane s.p.a. e F.S., ha dichiarato che da tale data è intercorso fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ed ha condannato Poste Italiane a ripristinare il rapporto di lavoro fra le parti ed a risarcire i conseguenti danni alla F. nella misura pari alle retribuzioni maturate dal 10 aprile 2003 fino alla riammissione in servizio. La Corte territoriale ha motivato tale sentenza ritenendo infondata l’eccezione sollevata da Poste Italiana relativa alla inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dalla F. per asserita risoluzione del rapporto per mutuo consenso desumibile dal decorso del tempo tra la data di cessazione del rapporto e la data di proposizione del ricorso giudiziario, considerando che il mero silenzio protratto per un determinato lasso di tempo non è sufficiente a determinare effetti legali salvo che il datore di lavoro non provi che la sussistenza della volontà certa e chiara delle parti a porre fine al rapporto. Inoltre la Corte d’Appello ha considerato che la possibilità di stipulare contratti a termine per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali, era prevista dall’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 e dai successivi accordi integrativi del 25 settembre 1997 e 27 aprile 1998, fino al 30 maggio 1998, mentre il contratto in questione è stato stipulato solo successivamente. In ordine al risarcimento del danno la Corte territoriale ha considerato che al lavoratore spettano le retribuzioni maturate dall’epoca in cui ha messo formalmente a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, e tale momento è stato individuato in quello del tentativo di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro il 10 aprile 2003.

Poste Italiane propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo in nove motivi.

Resiste con controricorso la F..

Poste Italiane ha presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 cod. civ., e dell’art. 100 cod. proc. civ. ( art. 360 c.p.c., n. 3). In particolare si deduce che il giudice di 2^ grado ha disatteso l’eccezione di inammissibilità dell’avversa domanda fondata sull’intervenuta risoluzione consensuale del contratto attesa la prolungata inerzia assunta dal lavoratore a far valere in giudizio le proprie ragioni, e si censura il ragionamento dalla Corte d’Appello secondo il quale il mero decorso del tempo, in assenza di altri ulteriori elementi, non può assurgere a fatto idoneo a far presumere la rinuncia dell’appellato a far valere la nullità della clausola di apposizione del termine, e si sostiene che il rapporto a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, può, al pari di tutti i contratti, risolversi per mutuo consenso, anche in forza di fatti e comportamenti concludenti, e si deduce che la sentenza di secondo grado sarebbe illegittima nella parte in cui non avrebbe considerato e valutato la prolungata inerzia della ricorrente a far valere le proprie ragioni. Si deduce inoltre, che la sentenza sarebbe illegittima in rapporto all’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui i giudici di appello avrebbero posto a carico delle Poste Italiane s.p.a. l’onere di fornire la prova delle circostanze rilevatrici del comportamento concludente del lavoratore.

Con secondo motivo si lamenta contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si afferma la illegittimità della sentenza di 2^ grado adducendo la contraddittorietà della motivazione in ordine alla individuazione di quegli ulteriori elementi rispetto al mero decorso del tempo che possano qualificare la condotta del lavoratore in termini solutori.

Deduce parte ricorrente che i giudici di appello non avrebbero considerato la previsione di cui all’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 secondo la quale: "in caso di esigenze eccezionali a tempo indeterminato, nell’arco della vigenza contrattuale, avranno la precedenza quei lavoratori che abbiano prestato servizio con contratto a termine per un periodo complessivo di almeno sei mesi anche non continuativo negli ultimi tre anni", avendo la corte ritenuto che trattasi di impegno unilateralmente assunto dall’azienda. Deduce la ricorrente che l’inerzia della lavoratrice protrattasi oltre i tre anni collettivamente previsti, dovrebbe qualificarsi come circostanza ulteriore significativa della volontà della stessa alla definitiva cessazione del rapporto di lavoro.

Con terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto: artt. 414, 434,112 cod. proc. civ. In particolare la ricorrente lamenta un vizio di ultra petizione in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado i quali, dichiarando la nullità del termine finale di durata apposto al contratto stipulato per il periodo 8 giugno – 30 settembre 2009 reputando inefficace la previsione collettiva di cui all’art. 8 CCNL 26 novembre 1994, avrebbero travalicato i limiti delle deduzioni e censure formulate dalla F..

Con quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto: della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 CCNL 26 novembre 1994, degli accordi integrativi del 25 settembre 1997, 16 gennaio 1998 e 27.04.98 in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg.

In particolare la società ricorrente lamenta che la corte d’appello, richiamando gli accordi integrativi sopra indicati, attraverso una loro errata interpretazione, avrebbe sancito che le Poste Italiane potessero effettuare assunzioni a termine solo entro i limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, e quindi fino al maggio 1998.

Con il quinto motivo si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio. In particolare si lamenta che la sentenza impugnata sarebbe contraddittoriamente motivata nella parte in cui individua un limite temporale alla facoltà di stipula di contratti a termine ai sensi dell’art. 8 CCNL del 26 novembre 1994. Deduce la ricorrente che da un lato viene dichiarata la nullità del termine al contratto sulla base del limite temporale fissato al 31 maggio 1998; dall’altro lato si richiama l’accordo del 2 luglio 1998 che ha previsto la possibilità di apporre il termine fino al 31 dicembre 1998 per le assunzioni effettuate per la sostituzione di lavoratori in ferie.

Con sesto motivo si lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si censura la genericità di quanto affermato dai giudici di secondo grado nel ritenere la "illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto in questione in quanto in aperta violazione delle disposizioni della L. n. 230 del 1962, unica norma applicabile".

Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b, art. 8 CCNL 26 novembre 1994, L. 56 del 1987, art. 23 art. 1362 cod. civ. In particolare parte ricorrente assume che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, la previsione contrattuale posta a fondamento dell’assunzione, è da reputarsi legittima in quanto costituente estrinsecazione dell’ampio e incondizionato potere conferito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 alle parti collettive.

Sostiene la ricorrente che l’ipotesi di legittima apposizione del termine individuata dalla contrattazione collettiva, in forza della L. 56 del 1987, art. 23 sarebbe ipotesi autonoma e diversa da quella contemplata in via generale dalla legge e, pertanto, verrebbe sottratta alla condizioni di legittima apposizione del termine prevista dalla disciplina legislativa. Si assume inoltre che la legittima apposizione del termine prevista dall’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 relativa alla "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre" sarebbe ipotesi diversa rispetto a quella prevista dalla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b e, pertanto, non richiederebbe, quale requisito di legittimità, l’indicazione del nome del soggetto sostituito.

Con ottavo motivo si adduce la violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094,2099,2697 cod. civ. Deduce la ricorrente che avrebbe errato il giudice di secondo grado nel riconoscere alla F. il diritto dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro a decorrere dalla data di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Ritiene la società Poste Italiane che tale obbligo dovrebbe collegarsi alla "effettiva ripresa del servizio" da parte del lavoratore. Si assume inoltre il vizio della sentenza impugnata per violazione dell’art. 1223 cod. civ. nella parte in cui i giudici di secondo grado non hanno accertato se, e in che misura, la lavoratrice avesse svolto ulteriori e successive attività lavorative in epoca successiva alla scadenza del termine.

Con nono motivo si lamenta contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In particolare si deduce la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui da un lato afferma il principio secondo il quale il pagamento delle retribuzioni può decorrere solo dalla data di messa in mora della società, e dall’altro lato ha disposto la corresponsione di dette retribuzioni dalla data dell’esperimento del tentativo di conciliazione che, a giudizio della ricorrente, non dimostrerebbe alcuna offerta della prestazione.

Il primo motivo è infondato. La decisione della Corte d’Appello sul punto dell’asserito mutuo consenso alla risoluzione del rapporto risulta conforme al principio più volte affermato da questa Corte e che va qui nuovamente enunciato, secondo cui "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554, Cass. 11 dicembre 2001 n. 15621). Inoltre, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v.

Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070). Erronea in diritto è quindi la tesi della società ricorrente in ordine al regime dell’onere probatorio, e d’altra parte l’accertamento di fatto relativo, operato dalla Corte di merito, risulta congruamente motivato.

Il secondo motivo è generico e incongruente, in quanto il diritto di precedenza all’assunzione previsto dall’art. 8 CCNL 26 novembre 1994 per i lavoratori che hanno prestato servizio con contratto a termine, non rileva ai fini della valutazione del comportamento del lavoratore, trattandosi, fra l’altro, di obbligo contrattuale assunto dal datore di lavoro.

Il terzo motivo è pure infondato. Questa Corte ha più volte affermato che l’interpretazione della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità (da ultimo Cass. 11 marzo 2011 n. 5876), per cui la ricorrente non può lamentarsi perchè il giudice di merito, al fine di valutare la domanda della originaria ricorrente volta ad accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con le Poste Italiane, abbia considerato, quale ragione di nullità, la circostanza della prevista fissazione di un termine ultimo fino al quale sarebbe stata possibile la stipula di contratti a tempo determinato.

Il quarto, quinto, sesto e settimo motivo possono essere trattati congiuntamente riguardando tutti il termine ultimo previsto per la possibilità di stipula di contratti a termine e considerato al fine di determinare l’illegittimità del termine apposto ad un contratto stipulato successivamente.

Osserva il Collegio che la Corte di merito ha, tra l’altro, attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’assunzione a termine, essendo avvenuta oltre la delimitazione temporale effettuata dalle parti sociali con gli accordi integrativi di quello in data 25- 9-1997, introduttivo della nuova ipotesi di contratto a termine di cui si discute, non è da ritenere legittima per la scadenza temporale dell’accordo 25-9- 1997"… ("31 gennaio 1998 prorogato al 30 aprile 1998"). Tale considerazione, idonea a sostenere da sola la impugnata decisione, relativamente alla illegittimità del contratto de quo (dell’8 giugno 2008), resiste alla censura della società ricorrente (di violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione agli accordi collettivi intercorsi), rivolta, in sostanza, alla affermazione della natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati. Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr. ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione..)" dopo il 30 aprile 1998. Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15969, Cass. 21 marzo 2007 n. 6703), così respingendosi la censura in esame, va confermata la nullità del termine apposto al contratto in esame (successivo al 30 aprile 1998), restando assorbite le ulteriori censure rivolte in sostanza alle ulteriori argomentazioni svolte nell’impugnata sentenza sotto altri profili. Infondato è poi il quarto motivo con il quale la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello "pur affermando che il diritto alla retribuzione può sorgere solo con la messa in mora, non ha verificato la sussistenza di rigorosa prova del fatto che il lavoratore avesse messo espressamente a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa". L’ottavo motivo è inammissibile per la genericità del quesito di diritto.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c. e segg.".

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass, S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile n. 8463).Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15 febbraio 2003 n. 2331, Cass. 10 luglio 2001 n. 9336).

Pure inammissibile è il nono motivo in cui manca il quesito di diritto da esplicitare ex art. 366 bis cod. proc. civ. quale momento di sintesi. Infatti, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556). Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in Euro 40,00 oltre ad Euro 2.500,00 per onorario, più spese generali, IVA e CPA da distrarsi in favore dell’avv. Vincenzo Feraudo.

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