T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 19-05-2011, n. 869 Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Dai ricorsi e dagli altri atti delle cause, da riunire ex art. 70 c.p.a. per ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, emerge che:

– con concessione edilizia del 9 febbraio 1996, n. 2549, la sig.ra C. parte ricorrente veniva autorizzata a costruire in Parabita un opificio industriale per la trasformazione e la conservazione di prodotti agricoli;

– avendo ella realizzato l’immobile in parziale difformità da titolo edilizio, con istanza n. 16504 del 13 dicembre 2004 ne chiedeva la sanatoria ex lege n. 326 del 2003;

– l’istanza veniva accolta con permesso di costruire n. 2 del 26 gennaio 2005;

– in data 26 gennaio 2006, inoltre, la C. otteneva un permesso di costruire per opere di manutenzione straordinaria da eseguirsi all’interno del fabbricato;

– alcuni anni dopo, peraltro, ed in specie con nota del 10 marzo 2010, prot. n. 4864, l’A.C. avvisava i ricorrenti (la sig.ra C. e i figli A. e A.R., cui la prima aveva intanto donato l’immobile) dell’inizio di un procedimento volto al ritiro del permesso di costruire in sanatoria;

– con nota del 6 aprile 2010, prot. n. 176, infine, la p.a. comunicava l’adozione del formale atto di annullamento, nonché l’avvio dell’iter di ripristino dello stato dei luoghi.

2.- Venivano dunque proposti i ricorsi in esame, per i seguenti motivi:

– ricorso n. 904/2010:

A) Violazione degli artt. 7 – 10 l. 241/90. Violazione dei principi di partecipazione al procedimento amministrativo. Eccesso di potere.

B) Eccesso di potere. Contraddittorietà e difetto di istruttoria. Carenza di motivazione.

C) Violazione e falsa applicazione dell’art. 35 l. 47/85 sotto diversi e concorrenti profili. Violazione e falsa applicazione dell’art. 32 l. 326/03 sotto diversi e concorrenti profili. Eccesso di potere per falsità dei presupposti in fatto e in diritto. Incongruità della motivazione.

– ricorso n. 1282/2010:

D) Violazione del termine di conclusione del procedimento fissato nella nota in data 10 marzo 2010, prot. n. 4864.

E) Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies l. 241/90 ss.mm.ii.. Violazione dell’art. 32 e dell’all.to 1 d.l. 269/03, degli art. 2 e 35 l.r. 18/2004. Falsa applicazione dell’art. 35, comma 14, e dell’art. 31, comma 2, l. 47/85. Violazione della Circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 2699/2005. Violazione dell’art. 32, comma 39, d.l. 269/2003. Falsa applicazione dell’art. 39, comma 16, l. 724/1994. Falsa applicazione dell’art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003 e delle N.T.A. del Comune di Parabita. Falsa applicazione dell’art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003, dell’art. 33 l. 47/85 e delle N.T.A. del Comune di Parabita. Falsa ed erronea presupposizione. Carenza istruttoria. Illogicità. Perplessità.

F) Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies l. 241/90 ss.mm.ii.. Falsa ed erronea presupposizione. Carenza istruttoria e motivazionale. Illogicità sotto diverso profilo.

3.- Costituitosi in giudizio, il Comune di Parabita chiedeva il rigetto dei ricorsi sulla base di argomentazioni che saranno esaminate congiuntamente ai motivi di gravame proposti.

4.- All’udienza del 23 marzo 2010 le cause sono state introitate per la decisione.

5.- Tanto esposto in fatto, rileva il Collegio che i ricorsi sono fondati e vanno accolti nei sensi e per le ragioni che di seguito si indicheranno.

6.- Risulta in particolare fondato e assorbente di ogni altra censura il motivo di ricorso diretto ad evidenziare la mancanza, nel provvedimento impugnato, della dovuta valutazione circa l’esistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento del p.d.c. e, nel caso, della comparazione tra questo e l’opposto interesse della parte privata, ormai consolidatosi per l’avvenuta realizzazione degli interventi autorizzati: valutazione e comparazione normativamente prescritte dal disposto dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 ("1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21 – octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati (…)"), e, prima ancora, dai precetti di logicità, proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa (T.a.r. Campania Napoli, III, 18 gennaio 2011, n. 268).

Il provvedimento di annullamento di un titolo edilizio, in definitiva, dev’essere adeguatamente motivato in ordine all’esistenza di un interesse pubblico, specifico e concreto che giustifichi il ricorso all’autotutela (cfr., Cons. Stato, IV, 16 aprile 2010, n. 2178; T.a.r. Lombardia – Milano, III, 12 novembre 2009, n. 5021; Tar Campania – Napoli, VIII, 7 dicembre 2009, n. 8597), in conformità ai principi generali per i quali il legittimo esercizio di siffatto potere richiede la valutazione, sulla base dell’effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell’atto permissivo, di elementi ulteriori rispetto alla mera illegittimità dell’atto da eliminare (T.a.r. Lazio Roma, II, 7 luglio 2010, n. 23285).

Riportando i superiori principi alla fattispecie in esame, dunque, ne discende l’illegittimità del provvedimento impugnato in quanto privo dell’enunciazione dell’interesse pubblico specifico, diverso da quello generico al ripristino della legalità, che imponeva il ritiro del titolo concessorio, e, ancora, delle ragioni della prevalenza di tale interesse rispetto a quelli della parte privata (cfr T.a.r. Calabria Catanzaro, II, 10 giugno 2010, n. 1128).

7.- Alle considerazioni di ordine generale fin qui esposte, peraltro, deve aggiungersi che l’abuso inizialmente sanato neppure risulta presentare, per quanto appena si scriverà, profili di tale offensività degli equilibri edilizio – urbanistici della zona da rendere ex se evidenti le concrete ragioni per le quali, a distanza di circa cinque anni, l’amministrazione mutava avviso rispetto alla determinazione originaria.

7.1 In tal senso, difatti, occorre considerare che:

a) i riferimenti alla mancanza di accatastamento, della certificazione CCIAA e del completamento funzionale del manufatto all’epoca della manifestazione di interesse alla sanatoria non risultano, a distanza di cinque anni, di particolare significato quanto alla identificabilità di un interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento, trattandosi di aspetti (in disparte ogni pur possibile considerazione sulla genericità del rilievo relativo al completamento dell’immobile) di evidente valore al momento di valutare la sanabilità di un abuso, ma, invece, senza dubbio soccombenti rispetto agli opposti interessi quando si discuta del ritiro, molto tempo dopo, di un titolo edilizio già rilasciato e, dunque, della demolizione di un manufatto ormai condonato e stabilmente collegato al territorio.

b) quanto al tema della volumetria, inoltre, questo di chiaro significato in ordine alla potenziale offensività dell’immobile, va posto in luce, anzitutto, come non possa condividersi la tesi della p.a. secondo cui il manufatto in parola superava la percentuale di incremento rispetto alla costruzione originaria consentita dalla legge (30%, ex art. 32, comma 25, d.l. 269/03, e ciò in quanto, a giudizio dell’amministrazione, tale rapporto andava calcolato con esclusivo riferimento alle parti fuori terra della costruzione medesima, in applicazione della normativa edilizia ed urbanistica comunale vigente per le aree agricole, la quale non considera nel calcolo della volumetria le parti interrate).

Ritiene al contrario il Tribunale che, tenuto conto della particolare logica cui risponde la disciplina sul condono, e cioè il recupero di manufatti già realizzati, pur abusivamente, tale rapporto non possa che avere come base di calcolo il dato concreto, materiale, fenomenico (come correttamente evidenziato dalla difesa dei ricorrenti), e, quindi, l’intera costruzione originaria, indipendentemente dai parametri fissati, sul diverso piano della programmazione urbanistica ed ai fini del calcolo degli indici di fabbricabilità, dalla normativa comunale di settore.

In tale diversa prospettiva, dunque, anche questo riferimento motivazionale era illegittimamente articolato dal Comune.

Con riguardo al limite dei 3.000 mc. complessivi, ancora, in questo caso superato (secondo il Comune in violazione dell’art. 32, comma 25, d.l. 269/03), solo deve osservarsi come esso riguardi esclusivamente le opere residenziali (cfr. in tal senso C. Cost.10 febbraio 2006, n. 49), e, dunque, non quella di cui si controverte.

c) neppure il dedotto contrasto con la destinazione urbanistica di zona, infine, era di per sé decisivo ai fini dell’autoannullamento, vertendosi in fattispecie di condono edilizio e non di accertamento di conformità.

8.- I rilievi appena svolti rispetto all’effettivo impatto dell’immobile confermano e rafforzano, in definitiva, il senso delle considerazioni svolte in precedenza con riguardo alla mancata enunciazione dell’interesse pubblico concreto e attuale al ritiro del permesso di costruire e alla demolizione del manufatto nel provvedimento adottato in autotutela dal Comune, provvedimento che risulta per conseguenza illegittimo e che dev’essere, quindi, annullato.

9.- Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese di entrambi i giudizi.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione Terza di Lecce, definitivamente pronunciando sui ricorsi n. 904/2010 e n. 1282/2010 indicati in epigrafe, li accoglie.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-03-2011) 01-06-2011, n. 22051 Sentenza penale

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Svolgimento del processo

1. Il 9 luglio 2008 la Corte d’assise di Firenze dichiarava P. V. colpevole dei delitti di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione in danno di D.G., di porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo, di violenza privata, consumata e tentata, di danneggiamento e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, dichiarate equivalenti alla contestata aggravante della premeditazione, ritenuta la continuazione fra i reati, lo condannava alla pena di ventiquattro anni di reclusione, oltre alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

Assolveva l’imputato dal reato di cui all’art. 424 c.p. (capo f), perche il fatto non sussiste.

2. Il 22 gennaio 2010 la Corte d’assise d’appello di Firenze, in parziale riforma della decisione di primo grado, appellata dall’imputato, escludeva l’aggravante della premeditazione e, previa conferma della concessione delle circostanze attenuanti generiche e del vincolo della continuazione fra i reati, rideterminava la pena in ventuno anni di reclusione.

3. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che il 13 ottobre 2006, in Firenze, D.P., cittadino senegalese, veniva attinto da un unico colpo di fucile caricato con una cartuccia a pallettoni che ne provocava il decesso immediato.

D. era legato sentimentalmente a C.E., in precedenza a lungo fidanzata con P.V. che, non rassegnandosi alla fine del rapporto affettivo, aveva iniziato a spiare la ragazza, a seguirne i movimenti anche in occasione degli incontri con D., a minacciare i due, a forare gli pneumatici delle loro autovetture, a rompere con una spranga il parabrezza della macchina del cittadino senegalese, a prospettare a quest’ultimo gravissime ritorsioni, qualora non avesse interrotto la relazione con la ragazza.

In precedenza analoghe condotte violente e intimidatorie erano state poste in essere dall’imputato nei confronti di Pi.Do., con il quale la C. aveva avuto una breve relazione e che, in conseguenza delle stesse, aveva cessato di frequentare la donna.

I giudici di merito ritenevano provata la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti sulla base di plurimi e convergenti elementi.

Lo stub effettuato sulla persona di P. consentiva di rinvenire una particella di piombo, antimonio, bario sulla mano sinistra dell’imputato e altre particelle con tali sostanze su indumenti indossati dallo stesso e sulla sua auto in un contesto temporale inconciliabile con le allegazioni difensive circa la pregressa attività di caccia, considerata l’esiguità di tempi utili per il rintraccio dei residui di sparo, e la alternativa riconducibilità delle stesse all’attività di idraulico o ad un’ipotetica contaminazione conseguente al contatto con i poliziotti.

Le attività di sequestro (illustrate a dibattimento dal teste Isp. M.) permettevano il rinvenimento sulla scena dell’omicidio di una cartuccia (di marca non individuabile) analoga a quella rinvenuta nella disponibilità dell’imputato presso la sua abitazione (cd. "terzarola" caricata con palle di piombo "nudo") insieme con un fucile pieghevole compatibile con l’arma del delitto.

Gli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria mettevano in luce la pronta disponibilità della chiave del mobile in cui, in casa P., erano custodite le armi.

Sull’auto "Renault Megane" in uso a P.M. (padre dell’imputato) veniva intercettata un colloquio intercorso tra l’uomo e il figlio R., contenente un esplicito riferimento all’esistenza in casa di plurimi esemplari di quelle cartucce, circostanza questa confermata anche nel corso di un colloquio svoltosi negli uffici della Questura tra l’imputato e il padre.

Il 16 ottobre 2006 veniva inviato, con finalità di depistaggio delle indagini, un messaggio minatorio a firma "(OMISSIS)" (secondo quanto accertato dalla espletata consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero) al cellulare dell’imputato da un cabina pubblica, situata all’altezza del numero civico n. (OMISSIS), distante circa 460 metri da via (OMISSIS), ove è posta la cella agganciata alle ore 19,33 dal telefono di P.V..

Analoghi messaggi minatori, anch’essi recanti la firma " (OMISSIS)", risultavano inviati in molte occasioni a D. e il 25 settembre 2006, ore 19,03 con le medesime modalità.

Le testi Mo.Cr. e C.E. riferivano concordemente circa le confidenze ricevute da D. in merito alla ricezione, sul suo cellulare, di messaggi minatori a firma "er notturno", la cui paternità veniva dalla vittima attribuita a P.V., nonchè in merito alle crescenti preoccupazioni manifestate da D. a causa delle continue minacce subite che lo avevano reso circospetto in ogni movimento.

Pe.Pi., convivente della Mo., oltre a parlare anch’egli delle minacce patite da D., riferiva dell’idea, maturata nella vittima, di interrompere il rapporto con C. E. anche al fine di tutelarne l’incolumità.

A sua volta, il teste B.F. dichiarava che, due giorni prima dell’omicidio, aveva a lungo parlato per telefono con la vittima che si mostrava assai nervosa e preoccupata.

Le attività di intercettazione svolte sul cellulare in uso alla C. consentivano di acquisire plurimi e univoci riferimenti alle minacce subite da D., anche nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio.

Gli accertamenti svolti sui tabulati telefonici dell’utenza cellulare di D. – oggetto della testimonianza dibattimentale dell’isp. M. – consentivano di stabilire che la sera tra l’11 e il 12 ottobre 2006 (sera in cui D. aveva festeggiato con la C. il compleanno della ragazza) la vittima aveva ricevuto da P.V. una telefona che si era protratta per mezz’ora.

Il contenuto delle conversazioni intercettate sulle utenze in uso ai familiari dell’imputato evidenziava che il padre e la madre dell’imputato avevano cercato di scagionare il figlio, riferendo che lo stesso si trovava in casa nella fascia oraria in un orario da loro ritenuto compatibile con la consumazione dell’omicidio.

4. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l’imputato, il quale, anche mediante motivi nuovi, formula le seguenti doglianze.

Innanzitutto lamenta il travisamento della prova e la violazione dei canoni di valutazione probatoria alla luce dell’assenza di univocità e concordanza degli elementi acquisiti, inidonei a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato, tenuto conto: a) dell’esito non significativo dello stub ove correlato o alla possibilità di un inquinamento innocente oppure all’attività di caccia svolta dall’imputato; b) del carattere non attendibile di tale tipo di accertamento; c) del dato equivoco, in assenza di ulteriori accertamenti, costituito dal rinvenimento in corso di perquisizione di un fucile pieghevole compatibile con l’arma del delitto; d) dell’incompatibilità tra le caratteristiche fisiche di P. e le risultanze della consulenza balistica in ordine alle modalità di utilizzo dell’arma; e) della valenza non univoca del rinvenimento, sulla scena del delitto, di una cartuccia simile a quella di marca "Rottwaill" trovata in corso di perquisizione in assenza della ricostruzione della marca della cartuccia sequestrato sul luogo dell’omicidio;

f) del contenuto delle testimonianze rese dai genitori dell’imputato sull’ora (tra le 5.30 e le 6) in cui videro il figlio V. in casa a dormire; g) delle dichiarazioni rese da P.M. circa le modalità di custodia della fuciliera, le cui chiavi erano da lui personalmente detenute; h) dell’omesso accertamento di un serio movente;

Deduce, poi, violazione di legge e carenza della motivazione con riferimento alla configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di tentata violenza privata in danno di D. e C. e alla sussistenza dei relativi elementi di prova, potendosi tutt’al più ravvisare nel comportamento serbato da P. nei loro confronti gli estremi del meno grave reato di minaccia. Doglianze analoghe formula in relazione al contestato reato di violenza privata in danno di Pi.Do..

Eccepisce violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di danneggiamento.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. L’esame del primo motivo di ricorso impone una premessa metodologica.

Nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talchè il limite della valenza di ognuno risulta superato sicchè l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto… che – giova ricordare – non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metolodogica che giustifica e sostanzia il principio del cd. libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. Un. 4 febbraio 1992, n. 6682, rv. 191231).

Le linee dei paradigmi valutativi della prova indiziaria sono state recentemente ribadite dalle Sezioni Unite che hanno evidenziato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può, perciò, prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005, n. 33748, rv. 231678).

2. La regola dell’"oltre il ragionevole dubbio" formalizzata nell’art. 533 c.p.p., comma 1, come sostituito dalla L. n. 46 del 2006, art. 5, impone di pronunciare condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2, – il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal comma 1 della medesima disposizione, nonchè in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), – deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di razionalità razionale, quindi alla "certezza processuale" che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

Il concetto, espresso in alcune recenti sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 21 aprile 1995, n. 11, rv. 202001;

Cass., Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328, rv. 222139; Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226094), cui si è uniformata la giurisprudenza successiva (Cass., Sez. 1^, 21 maggio 2008, n. 31456, rv. 240763; Cass., Sez. 1^, 11 maggio 2006, n. 20371, rv. 234111), ancor prima della modifica dell’art. 533 c.p.p., era già stato chiaramente delineato dalla giurisprudenza di legittimità. Si era, in proposito, argomentato, che la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili (Cass. 2 marzo, 1992, n. 3424, rv. 189682; Cass. Sez. 6^, 8 aprile 1997, n. 1518, rv.

208144; Cass. Sez. 2^, 10 settembre 1995, n. 3777, rv. 203118).

In questo articolato contesto, la regola di giudizio dell’"oltre il ragionevole dubbio" pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova. E’ evidente, in tale prospettiva, la stretta correlazione, dinamica e strutturale esistente tra la regola dell’"oltre il ragionevole dubbio" e le coesistenti garanzie, proprie del processo penale, rappresentate: a) dalla presunzione di innocenza dell’imputato, regola probatoria e di giudizio col legata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall’onere della prova a carico dell’accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di "insufficienza", "contraddittorietà" e "incertezza" della prova d’accusa ( art. 530 c.p.p., commi 2 e 3), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo; d) dall’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse.

3. La struttura e l’articolazione della motivazione della sentenza impugnata appaiono conformi ai principi in precedenza enunciati e, pertanto, il primo motivo di censura dedotto dalla difesa è privo di pregio. I giudici di merito, con iter argomentativo correttamente articolato e fondato su ampi e puntuali riferimenti alle emergenze processuali acquisite, hanno spiegato le ragioni per le quali l’omicidio di D.P. è ascrivibile, ogni oltre ragionevole dubbio, a P.. In proposito hanno sottolineato che l’azione è stata commessa con un fucile caricato con una cartuccia a pallettoni, analoga a quella rinvenuta presso l’abitazione dell’imputato che aveva ampia disponibilità di quel tipo di munizioni (cfr. intercettazione sull’auto "Renault Megane" in uso al padre di P.) e poteva agevolmente accedere al mobile in cui erano custodite le armi (cfr. esito degli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria).

Hanno, quindi, posto in correlazione logica tali elementi con gli esiti positivi dello stub, accertamento tecnico di sicura affidabilità scientifica effettuato nel rispetto dei protocolli e non influenzato nei suoi esiti da fattori contaminanti esterni e con gli accertamenti medico legali sulle modalità di produzione dell’evento lesivo e sulla posizione reciproca tra aggressore e vittima, non evidenziante alcuna incompatibilità con le caratteristiche fisiche di P.. Hanno, inoltre, spiegato la valenza dimostrativa del rinvenimento presso l’abitazione dell’imputato di un’arma analoga a quella utilizzata per la commissione del grave fatto di sangue, e la irrilevanza, a fini balistici, dell’impossibilità di ricostruire la marca della cartuccia rinvenuta sulla scena del delitto, del tutto compatibile con quella rinvenuta in sede di perquisizione.

La sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha, quindi, valutato le suddette risultanze alla luce delle testimonianze di C.E., Mo.Cr., Pe.Pi., B.F., univocamente dimostrative delle condotte violente e intimidatorie serbate dall’imputato in danno della vittima e della C. a causa del loro legame sentimentale e del rifiuto della C. di riallacciare la relazione con P., nonchè dello stato di paura in cui da tempo versava D.P. a cause delle minacce subite da parte di P.. Ha, infine, dimostrato che tali dati trovano ulteriori, obiettivi elementi di conferma nel contenuto delle intercettazioni, negli accertamenti effettuati sui tabulati dell’utenza cellulare in uso a D. e sulle modalità di invio dei messaggi a firma " (OMISSIS)".

Le argomentazioni svolte dalla difesa del ricorrente attengono pressocchè esclusivamente a profili di fatto e mirano a suggerire di volta in volta una non consentita diversa interpretazione di singole risultanze processuali o una possibile lettura alternativa della vicenda di cui è processo, ma non valgono ad inficiare l’impianto logico della sentenza impugnata ora per la loro intrinseca debolezza ora per la loro genericità e per la carente individuazione dei passaggi della motivazione della decisione impugnata asseritamente contraddittori o viziati da manifesta illogicità oppure inidonei a svolgere la funzione esplicativa di quanto deciso.

Sotto altro profilo non si può fare a meno di rilevare che i numerosi inviti – contenuti nel ricorso e nei motivi nuovi – a rivalutare criticamente il contenuto delle singole risultanze sono estremamente generici e parziali – essendo frutto di mirate estrapolazioni di singoli aspetti di elementi dotati di ben maggiore ampiezza e complessità – e comunque non valgono ad evidenziare gravi contraddizioni risultanti dal testo del provvedimento impugnato come richiesto dal codice di procedura penale ai fini dell’esistenza del vizio di motivazione.

4. Parimenti non fondato è il secondo motivo di ricorso.

L’elemento soggettivo del delitto di violenza privata è costituito dalla coscienza e volontà di costringere taluno, mediante violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa.

La differenza tra il delitto di minaccia e quello di violenza privata deve essere individuata nel fatto che, mentre nella minaccia l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato è sufficiente che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico – trattandosi di reato formale con evento di pericolo – viceversa nella violenza privata la minaccia (o la violenza) funge da mezzo a fine e deve essere diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento non di pericolo, ma di danno rappresentato dal comportamento coartato del soggetto passivo, dipendente dall’atto di intimidazione (o di violenza) subito (Sez. 5^, 2 marzo 1989, n. 9082).

Nel caso in esame i giudici di merito hanno fato corretta applicazione di questi principi, laddove, attraverso il puntuale esame delle testimonianze acquisite (cfr. dichiarazioni rese da C., Mo., Pe.) e degli altri accertamenti svolti sulle utenze cellulari in uso all’imputato e alla vittima, hanno, con motivazione logicamente sviluppata, evidenziato che il ricorrente in plurime occasioni aveva fatto ricorso a plurime forme di minaccia per costringere D. e la C. ad interrompere la loro relazione affettiva, senza peraltro riuscire nel suo intento per cause indipendenti dalla sua volontà.

Il provvedimento impugnato è altresì esente da censure nella parte in cui, sulla base dell’analisi della deposizione di Pi., hanno argomentato che quest’ultimo aveva deciso di interrompere il suo legame affettivo con la C. in conseguenza delle minacce subite dall’imputato.

5. Non merita accoglimento neppure l’ultima doglianza, atteso che l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di danneggiamento continuato in danno di D. e della C. è fondata su una logica e compiuta analisi delle risultanze processuali (dichiarazioni di C.E.), evidenzianti, pure alla luce delle deduzioni difensive sul punto, il pieno coinvolgimento di P. nella commissione del reato al di là di ogni ragionevole dubbio.

Per tutte queste ragioni s’impone, quindi, il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 26-10-2011, n. 22277 Azienda

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

i ragione.
Svolgimento del processo

1. L’agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale del Lazio n. 160/28/05, depositata il 23 dicembre 200:), con la quale, accolto l’appello di P.S. contro quel la di primo grado, non veniva riconosciuta la pretesa circa la maggiore imposta dovuta per registro per l’acquisto di un’azienda commerciale.

In particolare il giudice del gravame affermava che la contribuente era stata dichiarata fallita, e quindi l’avviso di liquidazione non doveva essere notificato a lei, che perciò non era legittimata ad agire, essendolo solo il curatore del fallimento. La contribuente non si è costituita.
Motivi della decisione

2. Col primo e secondo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente, stante la loro stretta connessione, la ricorrente deduce violazione di norme di legge, in quanto la fallita era legittimala ad impugnare l’avviso di liquidazione, in mancanza ai qualunque iniziativa del curatore.

La censura è fondata, dal momento che l’accertamento tributario, se inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati, prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o ne periodo d’imposta in cui. tale dichiarazione è intervenuta, dove essere notificato non solo al curatore – in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e de beni acquisiti al fallimento – ma anche al contribuente stesso, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo dei rapporto tributario, e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla definitività dell’atto impositivo. Ne consegue che il fallito, nell’inerzia degli organi fallimentari ed a prescindere dalla valutazione da essi compiuta sul predetto accertamento, è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela, una volta che abbia piena cognizione anche dei motivi della pretesa tributaria, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 2910 del 06/02/2009, n. 8990 del 2007). Peraltro non è configurabile nemmeno un’inerzia del fallimento, atteso che non risulta che il curatore fosse stato informato dell’avviso di liquidazione notificato a P., nè la mancanza di legittimazione della fallita era rilevabile d’ufficio in assenza di eccezione di parte posto che l’accertamento fiscale avente ad oggetto obbligazioni tributarie, i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento della contribuente, ovvero nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, ove sia stato notificato soltanto alla fallita, e non anche al curatore del fallimento stesso, è inefficace nell’ambito della procedura fallimentare, ma conserva la sua validità e, ove la fallita, tornata "in bonis", abbia ricevuto la notifica di un avviso di liquidazione dell’imposta, ella può contestare l’accertamento impugnandolo assieme al l’avviso di liquidazione, in ragione del fatto che il primo avviso, non essendo stato notificato al curatore, ossia a colui che era dotato della legittimazione ad impugnarlo in pendenza della procedura concorsuale, consente ora l’azione giudiziale a colei che ha riacquistato (eventualmente) la capacità d’impugnarlo (V. pure Cass. Sentenza n. 9951 del 23/06/2003, n. 6937 del 2002).

3. Ne discende che il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla commissione tributaria regionale del Lazio, altra sezione, per nuovo esame, e che si uniformerà al suindicato principio di diritto.

Quanto alle spese dell’intero giudizio, esse saranno regolate dal giudice del rinvio stesso.
P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnala, e rinvia, anche per le spese, alla commissione tributaria regionale del Lazio, altra sezione, per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 07-07-2011, n. 6052 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato a Roma Capitale in data 5 novembre 2010 e depositato il successivo 19 novembre 2010 espone parte ricorrente di avere acquistato con atto del 27 settembre 2006 l’immobile di cui è questione ad uso magazzino e per il quale fu rilasciata concessione in sanatoria n. 46781 del 31 luglio 1997. Rileva che al contratto di compravendita era allegata la planimetria nella quale sono ben visibili le preesistenti caratteristiche del locale che l’Amministrazione comunale poi contesterà come lavori edilizi finalizzati al cambio di destinazione di uso, con il provvedimento impugnato. Espone ancora in fatto che con perizia dell’11 novembre 2006 lo stato dei luoghi era precisamente descritto e in particolare erano individuati tre distinti ambienti con scala di accesso in muratura per accedere al primo ambiente; nel secondo ambiente due tubi che finiscono nel cortile interno del condominio con canna fumaria e una canna di espulsione aria; sempre nel secondo ambiente vano scala con rampa di scale di dieci alzate, apertura nel muro in pietra che collega al terzo ambiente; e nel terzo ambente spazi adibiti a wc con sanitari installati.

Rappresenta poi che l’opera veniva sottoposta a sequestro con decreto della Procura della Repubblica di Roma del 6 marzo 2008 e che con ulteriore decreto del medesimo giudice in data 19 maggio 2008 veniva disposto il dissequestro.

Prima del provvedimento di sequestro la società ricorrente espone di avere presentato DIA ai sensi degli articoli 22 e 23 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 dove venivano dettagliatamente indicate le opere da realizzare precisando che dette opere non comportavano mutamento di destinazione di uso dell’immobile che era classificato catastalmente C2 e che qualora si dovesse verificare una modifica del classamento ne sarebbe stata presentata la relativa variazione catastale.

La ricorrente sostiene che in realtà la destinazione di uso della sua dante causa operata nel 2005 non corrispondeva ad una effettiva variazione apportata all’immobile, posto che secondo l’accatastamento effettuato nel 1997 a seguito della concessione in sanatoria la destinazione era "negozio" e che presso il Catasto, come da certificato del 16 luglio 2009, l’immobile risulta accatastato "C1 – negozi e botteghe" e che risultava apportata una variazione della destinazione di uso del 28 settembre 2005, ma pur sempre come "negozio – magazzino".

Ciò premesso in data 11 aprile 2008 veniva rigettata la DIA, con la motivazione che "…l’elaborato grafico dell’ante operam è difforme rispetto alla planimetria depositata per il condono edilizio" e a tali notazioni la società ricorrente rispondeva con proprie osservazioni che tuttavia non venivano condivise dall’Amministrazione comunale, che in data 22 maggio 2008 ribadiva il rigetto della DIA.

Seguiva pertanto un nuova denuncia di inizio attività presentata in data 26 giugno 2008, corredata da relazione tecnica, contenente l’elencazione specifica di tutti i lavori da eseguire con la precisazione della destinazione commerciale del locale e che i lavori non avrebbero comportato alcun mutamento nella destinazione di uso; ma l’Amministrazione comunale opponeva un nuovo diniego in data 3 luglio 2008, cui seguiva una nuova integrazione di documentazione da parte della ricorrente il successivo 17 luglio 2008.

Nonostante ciò il Comune reiterava il diniego con atto del 28 luglio 2008, ritenendo non conforme la DIA presentata per mancanza nell’elaborato grafico delle destinazioni di uso dei locali e per intervenuta scadenza della documentazione DURC obbligatoria, pur presentata.

Seguiva quindi il provvedimento di demolizione ora gravato ed avverso il quale la società interessata deduce:

1. Violazione degli articoli 3, commi 1 e 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 in materia di motivazione del provvedimento amministrativo, eccesso di potere per erronea valutazione dei fatti e contraddittorietà degli atti, insufficienza della motivazione e falsità del presupposto.

2. Violazione dell’art. 22, comma 3 lett. a) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e s.m.i. e dell’art. 37 del medesimo decreto presidenziale, eccesso di potere per travisamento dei fatti e ingiustizia manifesta.

3. Violazione dell’art. 8, commi c bis) e c ter) della legge 7 agosto 1990 n. 241 relativamente alle indicazioni che devono essere contenute nell’atto di avvio del procedimento amministrativo.

La ricorrente termina l’esposizione con istanza di risarcimento dei danni quantificabili, in misura minima, nell’eventuale perdita economica che deriverebbe da un’attività provvedimentale che, oltre ad essere ingiusta ed erronea, vanifica l’investimento immobiliare effettuato dalla società ricorrente; in via subordinata chiede che il danno sia calcolato dal giudice in via equitativa ex art. 1226 c.c.

Conclude con richieste istruttorie, cautelari e per l’accoglimento del ricorso siccome fondato nel merito.

L’Amministrazione comunale di Roma si è costituita in giudizio contestando ogni doglianza e rassegnando opposte conclusioni.

Alla Camera di Consiglio del 21 dicembre 2010 l’istanza cautelare è stata accolta ai fini del riesame.

Previo scambio di ulteriori memorie il ricorso, infine, è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 31 marzo 2011.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.

Con esso la società ricorrente impugna la determinazione con la quale Roma Capitale le ha ingiunto la demolizione di opere tendenti al cambio di destinazione di uso a commerciale di un locale seminterrato e consistenti "nell’ampliamento a mt. 1,30 della scala di accesso al locale, sito in Viale Angelico, n. 1/A realizzato in blocchetti di cemento precompresso; realizzazione di cui vani WC apertura a maglia muraria di mt. 1,10 x 2,10 circa di altezza; realizzazione di impianto elettrico e di areazione collegato quest’ultimo alle canne esalatrici in acciaio inox delle dimensioni di mt., 0,30 di diametro ed un’altezza di m. 20,00 circa poste sul prospetto del fabbricato nel cortile interno condominiale con accesso in Viale delle Milizie, n. 108" il tutto in assenza di titolo abilitativo, in zona omogenea A ed in assenza del parere della Soprintendenza per i BBAA e del Paesaggio di Roma, che richiestane non l’ha fatto pervenire nel termine di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001.

2. Avverso tale determinazione sostanzialmente la ricorrente oppone che le opere realizzande rientrano nella attività edilizia libera, trattandosi di interventi di manutenzione ordinaria. Né la determinazione di sospensione lavori né la determinazione a demolire, ora gravata, giustificano in che cosa i lavori in corso comporterebbero un mutamento di destinazione di uso del magazzino, posto che indipendentemente dal classamento catastale C/1 o C/2 il locale è sempre stato classificato ed adibito quale negozio/magazzino. Parte dei lavori indicati nella determinazione a demolire (ampliamento della scala di accesso, l’apertura di un varco interno al locale e la realizzazione di vani WC) non sono stati realizzati dalla ricorrente, ma risultano già sanate con la concessione in sanatoria del 1997. Lamenta che gli accertamenti tecnici citati sia nell’ordinanza di sospensione sia nella determinazione a demolire al momento gravata non le sono mai stati messi a disposizione, con conseguente ulteriore vulnus della motivazione dell’atto impugnato. Vi sarebbe pure contraddittorietà tra più atti, dal momento che nella determinazione in esame vi è il riferimento alla ricerca di eventuali istanze di condono pendenti presentate dalla società ricorrente, quando poi nel primo diniego della DIA si dice che "l’elaborato grafico dell’ante operam è difforme rispetto alla planimetria presentata per il condono edilizio", che quindi l’amministrazione mostra di conoscere.

Lamenta che secondo la costante giurisprudenza civilistica sulla materia sono sempre realizzabili le ristrutturazioni edilizie di portata minore previa mera denuncia di inizio attività e comunque il mutamento di destinazione di uso degli immobili con opere interne, se di questo si dovesse trattare, è possibile senza il previo rilascio del permesso a costruire, purché la detta modificazione intervenga per categorie omogenee, quanto a parametri urbanistici e nella fattispecie alcuna variazione è stata apportata per cui il provvedimento appare vieppiù illegittimo oltre che ingiusto.

E seppure si volesse ritenere che una sanzione doveva essere applicata, l’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede semplicemente l’applicazione di quella pecuniaria non inferiore ad E. 516,00, non essendovi alterazione del volume, né della sagoma dell’edificio o cambiamento di destinazione di uso, ma rientrando nella attività edilizia libera.

Conclude la doglianza, osservando che il provvedimento impugnato non contiene le informazioni previste dall’articolo 8 della L. n. 241 del 1990 in ordine ai termini entro i quali il procedimento deve concludersi.

3. Le censure non possono essere condivise.

La questione principale sollevata in ricorso è se il seminterrato acquistato dalla ricorrente con atto del 27 settembre 2006 avesse avuto da sempre oppure no la destinazione C/1 – negozi e botteghe, come sostenuto dall’interessata e se, non essendo cambiata la destinazione di uso dei locali, le opere ivi realizzate possano considerarsi manutenzione ordinaria, necessitanti di semplice DIA piuttosto che di permesso a costruire come sostenuto dal Comune.

In punto di fatto va rilevato che il contratto di compravendita in data 27 settembre 2006 esibito in atti dalla ricorrente si riferisce al detto seminterrato come situato in "Roma Viale Angelico 1/A e censito nel Catasto Fabbricati del Comune di Roma al foglio 399, particella 134, sublterno 523 e classificato C/2 – deposito".

Al detto contratto risulta allegata una piantina che si riferisce al medesimo immobile accatastato al Foglio 399 particella 134, ma con subalterno n. 64 dalla quale si evince che effettivamente il detto seminterrato è definito negozio, risulta suddiviso in tre ambienti, in uno vi è un wc e si accede dal secondo al terzo, in senso orario, con una scala.

Il classamento catastale relativo a detto subalterno 64 risulta dalla visura ipotecaria prodotta in atti dalla società ricorrente, dalla quale si evince che lo stesso immobile accatastato al Foglio 399, particella 134, subalterno n. 64 è classificato "C/1 – Negozi e botteghe".

Lo stesso dicasi per la visura storica catastale del 16 luglio 2009 prodotta in atti sempre dalla ricorrente dalla quale risulta la stessa classificazione C/1 relativa al seminterrato almeno fino alla variazione della destinazione operata in data 28 settembre 2005 in "negozio magazzino" con relativo cambio del numero di subalterno da 64 in 523. La visura si ferma al 2005 e non indica in nuovo classamento.

Invece la visura storica catastale dell’immobile prodotta in atti dal Comune, completa fino ai giorni nostri mostra che fino al 2005 il seminterrato era classificato C/1, come sostenuto dalla ricorrente, ma dopo tale data era divenuta C/2 per effetto di "atto del 28 settembre 2005 n. 119842 e 1/2005 in atti dal 28 settembre 2005 a protocollo n. RM0679719".

E dunque ad un esame più approfondito della fattispecie, proprio della fase di merito, risulta evidente che sin dal momento in cui la ricorrente ha stipulato la compravendita del seminterrato in data 27 settembre 2006, ancorché ad essa vi fosse allegata la pianta relativa al precedente classamento "C/1 – negozio bottega", tuttavia essa ha acquistato il bene quando oramai era classificato "C/2 – deposito", di tal che se ora pretende di ripristinarne la precedente destinazione C/1 compiendo opere edilizie su di esso, il titolo abilitativo non può essere la DIA.

A questo punto si tratta di verificare se il ripristino della precedente destinazione di uso che, la ricorrente asserisce, con notazione smentita dalle superiori osservazioni, il locale non avrebbe mai perso, possa essere effettuato con le opere che ella ha denunciato a partire dalla prima DIA che esibisce in atti senza data.

E tale conclusione non può essere condivisa.

Il raffronto tra la pianta acclusa al contratto di compravendita del 27 settembre 2006 e quella acclusa alla perizia tecnica di parte in data 7 maggio 2008 mostra uno spostamento del locale wc nel cd. terzo ambiente, una modificazione del secondo ambiente con apertura verso il terzo e una modificazione della scala verso il cortile oltre alla creazione di spazi per servizi tecnologici (tubi di areazione) da tale secondo ambiente verso il cortile, esattamente come sanzionato nella determinazione a demolire, che rileva pure un ampliamento della scala di accesso di mt. 1,30 che il giudicante non ha potuto valutare in assenza di scala metrica delle due piante e la realizzazione di un wc in più non esistente nella pianta allegata al contratto del 2006.

Pertanto la censura va proprio respinta, come avviene pure per quella prospettata per seconda, nel rilievo che per costante giurisprudenza il cambio di destinazione di opere – come nel caso da C/2 a C/1 – ancorché realizzato tra categorie omogenee, come pure sostenuto dalla società ricorrente – essendo destinato ad incidere sul carico urbanistico non può essere effettuato senza oneri a carico dell’interessato (cfr. ex multis: TAR Lombardia Milano, sezione II, 16 marzo 2011, n. 740, TAR Lazio, sezione II, 8 aprile 2010, n. 5889).

Anche la terza doglianza con la quale parte ricorrente auspicherebbe la possibilità che le opere realizzate possano essere sanzionate pecuniariamente, in quanto non comportano modifiche essenziali all’immobile, non appare condivisibile, in parte per le superiori considerazioni ed in parte perché, contrariamente a quanto esposto in ricorso il cambiamento di destinazione di uso con opere appare acclarato, con la ulteriore conseguenza che, poiché le dette opere non potevano essere realizzate soltanto con DIA, non ricorrono i presupposti per l’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001.

4. In conseguenza della reiezione della domanda principalmente proposta non può neppure essere accolta la domanda di risarcimento del danno, a causa della rinvenuta legittimità del provvedimento impugnato.

5. Per le superiori considerazioni il ricorso va respinto.

6. Sussistono tuttavia giusti motivi per la compensazione delle spese di giudizio ed onorari tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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