Cons. Stato Sez. IV, Sent., 28-01-2011, n. 682 Trattamento economico

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con ricorso al TAR del Lazio i signori in epigrafe specificati, ufficiali appartenenti alle varie armi dell’esercito, premesso di essere stati trasferiti d’autorità presso sedi straniere (in funzione di assistenza tecnico militare) e quindi di essere assoggettati al trattamento retributivo di cui alla legge n.642/1961, domandavano l’accertamento del diritto a percepire l’assegno di lungo servizio all’estero senza la riduzione del 20%, imposta dall’amministrazione in ritenuta applicazione dell’art.28, primo comma, del d.l. 4 luglio n.223/2006 n.223 (conv. nella legge n.248/2006) e la condanna del Ministero della difesa al pagamento delle somme conseguentemente spettanti.

2.- Il Tribunale amministrativo tuttavia ha respinto il ricorso sent. n.5709/2009). Di qui l’appello proposto dai ricorrenti ed affidato ai motivi trattati nel prosieguo dalla presente decisione. Si è costituita nel giudizio l’amministrazione notificataria dell’appello resistendo al gravame ed esponendo in successiva memoria le proprie argomentazioni difensive, che si hanno qui per riportate.

3.- Alla pubblica udienza del 30 novembre 2010 il ricorso è stato discusso e trattenuto in decisione.

4.- L’appello è infondato, dovendo essere confermata la sentenza resa in primo grado.

4.1 Quest’ultima viene contestata nella sua premessa di fondo, costituita dalla applicazione alla fattispecie dell’art.28 della legge n.248/2006, la quale, ove ha stabilito la riduzione del 20% per tutte le diarie, deve intendersi riferita anche a quelle che concorrono a formare il predetto assegno di lungo servizio all’estero (ALSE). L’orientamento espresso dal TAR viene avversato dagli appellanti, i quali pongono in rilievo la natura stipendiale (e non indennitaria) dell’assegno in parola, ciò che precluderebbe di assoggettarlo alla riduzione di cui è controversia.

Questa argomentazione non può trovare accoglimento.

Nel rigettare la censura svolta dai ricorrenti che evidenziavano come la loro destinazione all’estero non costituisse invio in missione, ma trasferimento (sfuggendo perciò all’ applicazione del predetto art.28), il TAR ha affermato che:

– "l’art.1 della legge sopra citata n.642 del 1961 ragguaglia il c.d. assegno di lungo servizio a trenta diarie, sicché, già da un’interpretazione letterale del testo normativo, non v’è ragione per escludere che l’art.28 della legge parimenti citata n.248 del 2006, che ha stabilito la riduzione del 20% di tutte le diarie, abbia inteso riferirsi anche a quelle che concorrono a formare il predetto assegno;

– si presenta del resto evidente che nel momento in cui ha ragguagliato l’assegno di lungo servizio alla misura della diaria, il legislatore ha inteso connettere le vicende del primo a quelle di quest’ultima", secondo la tecnica interpretativa del rinvio recettizio, in questo caso alla correlativa disciplina concernente la diaria, "cosicché, come è avvenuto che l’assegno in questione (assegno di lungo servizio) sia aumentato nel tempo quanto alla misura con l’aumentare della misura della diaria, così – e per la stessa ragione – non può essere evitato che laddove la diaria venga a subire riduzioni anche l’assegno in questione si riduca".

Nel ritenere meritevoli di conferma le ragioni poste a fondamento di questa interpretazione,la Sezione deve aggiungere che alla stessa conclusione negativa dei primi giudici si perviene prendendo in considerazione la natura dell’ALSE, come emerge dalle stesse argomentazioni degli appellanti. Ed invero essi pongono in giusto rilievo proprio che la "ratio" sottesa all’attribuzione dell’ assegno "de quo" è quella di consentire al militare, inviato (presso le delegazioni e le rappresentanze) all’estero, di fronteggiare le ingenti spese derivanti dal trasferimento e dalla permanenza in quella sede. Ma tale finalità è esattamente quella sottesa all’attribuzione dell’indennità di missione, la quale notoriamente non ha natura retributiva per la funzione svolta, ma di reintegro delle spese sostenute a causa della prestazione del servizio fuori della sede ordinaria (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 5832/2003).

5.- Conclusivamente l’appello deve essere respinto.

6.- Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c) e sono perciò da porsi a carico degli appellanti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione IV), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, respinge l’appello.

Condanna gli appellanti al pagamento, in favore del Ministero della Difesa, delle spese del presente grado di giudizio che liquida complessivamente in Euro tremila oltre accessori.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente

Armando Pozzi, Consigliere

Salvatore Cacace, Consigliere

Sandro Aureli, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cassazione penale SS. UU. 7537/2011 Indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato anche nel caso di false attestazioni per evitare il ticket?

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Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Messina, con sentenza del 19 ottobre 2009, ha confermato la sentenza 19.12.2006 del Tribunale monocratico di Patti, che aveva affermato la responsabilità penale di P. G.E. in ordine ai reati di cui all’art. 483 c.p., art. 61 c.p., comma 1, n. 2, in relazione al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 76 e 46, e all’art. 640 c.p., comma 2, in danno della A.U.S.L. n. (OMISSIS) di Messina; per avere autocertificato, con dichiarazione falsa resa all’impiegato addetto all’ufficio ticket dell’ospedale di Patti, di percepire redditi non superiori a quelli previsti dalla legge per l’attribuzione del diritto alla fruizione delle prestazioni mediche in regime di esenzione contributiva, così procurandosi l’ingiusto profitto costituito dal risparmio sulla quota di partecipazione alla spesa con correlato danno per l’ente pubblico – in (OMISSIS); e, riconosciute circostanze generiche equivalenti all’aggravante contestata per il delitto di truffa, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 c.p., comma 2, lo aveva condannato alla pena (condizionalmente sospesa) di mesi quattro e giorni quindici di reclusione, nonchè al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, il quale ne ha chiesto l’annullamento articolando due doglianze.

In particolare ha prospettato:

2.1. che la falsa attestazione in addebito, non essendo contenuta in un atto pubblico, non sarebbe idonea ad integrare il contestato reato di cui all’art. 483 c.p..

La falsità configurabile sarebbe, invece, quella di falso ideologico in scrittura privata e ciò perchè la dichiarazione sostitutiva di certificazioni è un documento con lo stesso valore giuridico di un atto di notorietà soltanto se ad essa è allegato un valido documento di identità. Opinando diversamente si resterebbe esposti al serio pericolo che il dichiarante possa indicare false generalità, spacciandosi per altri;

2.2. che la falsità contestata non sarebbe altresì idonea ad integrare l’elemento degli "artifici e raggiri", proprio del reato di truffa, perchè il mero mendacio acquista tale idoneità soltanto a condizione che inerisca ad un attestato o documento avente carattere fidefacente. Il carattere fidefacente mancherebbe in relazione ad un’autocertificazione alla quale non è allegato alcun documento di riconoscimento e sarebbe stato necessario, pertanto, un quid pluris per integrare l’elemento degli artifici e raggiri.

3. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda sezione penale, la quale, all’udienza del 21 ottobre 2010 (con ordinanza depositata il successivo 29 ottobre), ne ha rimesso la trattazione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale riferito alla assorbente questione della qualificazione giuridica della condotta consistente nel rendere una falsa dichiarazione circa le condizioni di reddito indicate in quelle di legge, allo scopo di fruire dell’esenzione dal pagamento del c.d. ticket sanitario.

La Sezione rimettente ha evidenziato, in proposito, che alcune decisioni di questa Corte (Sez. 2: n. 24817 del 25/02/2009, dep. 16/06/2009, Molonia; n. 32849 del 26/06/2007, dep. 13/08/2007, Mannarà) qualificano la condotta sopra descritta in termini di truffa aggravata in danno di ente pubblico e non già come reato di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato o di altri enti pubblici, muovendo da quanto statuito dalle Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carchivi – circa i rapporti tra le fattispecie criminose di cui agli artt. 316 ter e 640 bis c.p..

Le Sezioni Unite hanno ricondotto l’ambito di operatività dell’art. 316 ter c.p., a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, e dai principi affermati si evincerebbe che il reato di cui all’art. 316 ter ricorre quando l’erogazione del contributo non presupponga l’effettivo accertamento, da parte dell’erogatore, dei presupposti necessari per la concessione del contributo richiesto.

L’oggetto dell’attività dell’autore è costituito dal conseguimento, secondo quanto recita la norma, di "contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate".

Esula, invece, dalla previsione normativa dell’art. 316 ter c.p., il caso in cui non ricorra la percezione di una pubblica sovvenzione ma la esenzione dalla corresponsione di una somma. Il concetto di contributo o di finanziamento o di mutuo agevolato non è assimilabile a quello di esenzione da un pagamento, ma va ricompreso nella generica accezione di sovvenzione, ossia di aiuto economico concesso sotto forma di elargizione o prestito agevolato, che si concretizza nell’attribuzione pecuniaria giustificata dall’attuazione di un interesse pubblico e che si correla, nella commissione del reato di cui all’art. 316 ter, al danno patrimoniale dell’ente, identificabile esclusivamente con il danno emergente sorto al momento dell’elargizione del denaro.

La Seconda sezione ha quindi dato atto di un diverso ed opposto orientamento, secondo il quale la condotta di cui si discute non integra il reato di truffa, bensì quello di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato o di altri enti pubblici, restando in esso assorbito il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico, e ciò anche nel caso in cui, dato il livello quantitativo dell’indebita percezione, il fatto integri una mera violazione amministrativa.

Anche questo secondo orientamento fa richiamo alla già citata sentenza Carchivi delle Sezioni Unite, ma valorizza quel passo della decisione in cui si afferma che nella nozione di "erogazioni pubbliche" rientrano pure quelle di natura assistenziale. Trae dunque la conseguenza che nel concetto di erogazione rientra non solo l’ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo ma altresì l’esenzione dal pagamento di una somma dovuta a enti pubblici, perchè anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio, che è posto a carico della comunità.

La Sezione rimettente cita, in proposito, alcune decisioni che esplicitamente interpretano il concetto di erogazione di cui all’art. 316 ter come comprensivo "sia di somme versate dall’ente pubblico, sia di somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi da detto ente" (Sez. 5, n. 39340 del 9/07/2009, dep. 9/10/2009, Nicchi; Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 05/08/2009, Arcidiacono; Sez. 6, n. 28665 del 31/05/2007, dep. 18/07/2007, P.M. in proc. Piga).

4. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente: "quale sia la corretta qualificazione giuridica del fatto criminoso consistente nella falsa attestazione del privato di trovarsi nelle condizioni di reddito per fruire, a termini di legge, delle prestazioni del servizio sanitario pubblico senza il versamento della quota di partecipazione alla spesa sanitaria". 2. Sul punto si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

2.1 Alcune decisioni hanno affermato che la condotta dianzi descritta, connotata, com’è, dall’artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto, deve essere qualificata in termini di truffa, ex art. 640 c.p., comma 2. Si è sostanzialmente di fronte ad una falsificazione della realtà, consistente nella dichiarazione di trovarsi nelle condizioni di reddito previste dalla legge per l’esenzione, e questo è un dato di fatto che da corpo all’elemento degli artifici e dei raggiri richiesto dalla fattispecie criminosa come sopra individuata.

La condotta medesima non può essere ricondotta alla previsione di cui all’art. 316 ter c.p., anche perchè l’elemento dell’esenzione da un pagamento resta estraneo alla nozione di "contributo, finanziamento o mutuo agevolato", elementi questi ricompresi tutti nella generica accezione di "sovvenzione" (vedi Sez. 2, n. 32849 del 26/06/2007, dep. 13/08/2007, Mannarà; Sez, 5, n. 38478 del 09/07/2008, dep. 14/10/2008, Nicotera, Sez. 2, n. 24817 del 25/02/2009, dep. 16/06/2009, Molonia).

L’orientamento in esame risulta organicamente delineato, da ultimo, nella sentenza della Sez. 2, n. 32578 del 27/04/2010, dep. 01/09/2010, Di Costanze che – a fronte di una pronunzia di condanna ai sensi dell’art. 483 c.p., e art. 640 c.p., comma 2, n. 1, in un contesto fattuale di mero mendacio riferito alle condizioni di reddito e finalizzato ad ottenere l’esenzione dal pagamento del ticket sanitario – ha rigettato la tesi difensiva della riqualificazione ai sensi dell’art. 316 ter, evidenziando che:

– la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., ha carattere residuale rispetto a quella della truffa, con la quale non è in rapporto di specialità e può con essa concorrere, ove della stessa siano integrati i presupposti (se, ad esempio, le falsità e le omissioni si risolvano in un’artificiosa rappresentazione della realtà capace di indurre in errore);

– la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 95 del 2004, ha escluso la sovrapponibilità delle condotte individuate dall’art. 316 ter c.p., con quelle integranti il reato di truffa;

– le Sezioni Unite penali – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carenivi – hanno precisato che l’ambito di applicazione dell’art. 316 ter si riduce a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, aggiungendo come l’erogazione delle pubbliche sovvenzioni possa non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore nella misura in cui può legarsi, almeno in vìa provvisoria, all’esistenza della formale dichiarazione del richiedente;

– il concetto di contributo, finanziamento o mutuo agevolato, di cui alla enunciazione della fattispecie incriminatrice posta dall’art. 316 ter, non è assimilabile a quello di esenzione da un pagamento, ma va ricompreso nella generica accezione di "sovvenzione", ossia di aiuto economico concesso sotto forma di elargizione o prestito agevolato.

2.2 In senso contrario si esprimono altre pronunzie, secondo le quali la condotta di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si distingue da quella di truffa aggravata in ragione dell’assenza dell’elemento dell’induzione in errore realizzata attraverso la messa in atto di artifici o raggiri.

Nell’ambito delle erogazioni pubbliche di natura assistenziale, indicate dall’art. 316 ter c.p., rientrano anche quelle concernenti l’esenzione dal ticket per prestazioni sanitarie. Nel concetto di erogazione deve ritenersi compreso, infatti, non solo l’ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo, ma pure l’esenzione dal pagamento di una somma dovuta ad enti pubblici, perchè anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio che viene posto a carico della comunità (così Cass.: Sez. 5, n. 41383 del 17/09/2008, dep. 06/11/2008, Capalbo; Sez. 6, 21/10/2010, dep. 22/11/2010, Gelsi).

3. Appare utile ricordare che – sempre sulla premessa che nel termine "erogazioni", che si rinviene nell’art. 316 ter c.p., rientrano non solo le somme versare dall’ente pubblico, ma anche le somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi dal predetto ente – sono state inquadrate nell’ambito applicativo dell’art. 316 ter c.p., le condotte del privato che dichiari un reddito familiare inferiore a quello effettivamente percepito al fine di ottenere:

– un canone agevolato per la locazione di alloggio appartenente all’Amministrazione provinciale (Sez. 5, n. 39340 del 09/07/2009, dep. 09/10/2009, Nicchi);

– un abbonamento mensile, con tariffa agevolata, al servizio municipale di trasporto pubblico (Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 05/08/2009, Arcidiacono).

4. Le Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 19/04/2007, dep. 27/04/2007, Carchivi – hanno risolto un duplice contrasto relativo sia alla riconducibilità o meno delle sovvenzioni pubbliche a carattere assistenziale o previdenziale alle previsioni degli artt. 316 ter e 640 bis c.p., (a seconda il diverso conformarsi delle singole fattispecie) sia alle differenze tra gli elementi costitutivi di tali delitti.

Nella citata decisione – quanto ai rapporti tra il reato di truffa aggravata e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici – le Sezioni Unite hanno posto anzitutto in rilievo che l’art. 640 bis c.p., "prevede una circostanza aggravante del delitto di truffa, che si pone in rapporto di specialità con la circostanza aggravante di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (così già Sez. Unite, 26/06/2002, Fedi).

Infatti, se si raffrontano le due norme, risulta immediatamente evidente come sia concentrico l’ambito di applicazione delle circostanze aggravanti da esse previste. La circostanza prevista dall’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, si applica a qualsiasi truffa commessa a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare. La circostanza prevista dall’art. 640 bis c.p., si applica solo quando la truffa abbia comportato l’indebita erogazione di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee".

Hanno quindi osservato – in congruenza con l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 95 del 2004 – che l’introduzione nel codice penale dell’art. 316 ter ha risposto all’intento di estendere la punibilità a condotte "decettive" (in danno di enti pubblici o comunitari) non incluse nell’ambito operativo della fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Con questa premessa hanno condotto il problema a una secca alternativa: o la riduzione dell’ambito di applicazione dell’art. 316 ter in termini di radicale marginalità o la riduzione sostanziosa dell’ambito di applicazione della fattispecie di truffa.

Rispetto alla delineata alternativa, che riassumeva il contrasto giurisprudenziale allora esistente, le Sezioni Unite hanno optato per la soluzione di tenere fermi i limiti tradizionali della fattispecie di truffa e di ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 316 ter le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore o un danno per l’ente erogatore, con la conseguente compressione dell’art. 316 ter a situazioni del tutto marginali, "come quello del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale".

Una falsa rappresentazione della realtà in capo all’erogatore può dipendere, oltre che dalle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto, sicchè l’accertamento dell’esistenza di una induzione in errore, quale elemento costitutivo del reato di truffa, ovvero la sua mancanza in favore dell’applicabilità dell’art. 316 ter, è questione di fatto riservata al giudice del merito.

5. La Corte Costituzionale – con la citata ordinanza n. 95 del 2004 – ha affermato, come dato inequivoco, il carattere sussidiario e residuale dell’art. 316 ter rispetto all’art. 640 bis c.p., chiarendo che, alla luce del dato normativo e della ratio legis, l’art. 316 ter assicura una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella offerta agli stessi interessi dall’art. 640 bis, coprendo in specie gli eventuali margini di scostamento – per difetto – del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode. Ha quindi rinviato all’ordinario compito interpretativo del giudice l’accertamento, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie dell’art. 316 ter integri anche la figura descritta dall’art. 640 bis, dovendosi, in tal caso, fare applicazione solo di quest’ultima.

6. A fronte del quadro interpretativo dianzi delineato, queste Sezioni Unite ritengono che debba essere affermato il principio secondo il quale:

"L’art. 316 ter c.p., punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perchè in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente".

Rileva in proposito il Collegio che la giurisprudenza di questa Corte, in relazione al reato di truffa, ha gradualmente svalutato il ruolo della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del delitto in senso causale, ove ciò che rileva non è tanto la definizione dei concetti di artifici e raggiri, quanto, piuttosto, la idoneità di quelle condotte a produrre l’effetto di induzione in errore del soggetto passivo. Si è così assistito al consolidarsi della affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di truffa, l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso.

Le Sezioni Unite, già con la sentenza 24/01/1996, Panigoni, ebbero ad evidenziare la rilevanza della questione "se il concetto di artifizi e raggiri sia integrato anche dalla menzogna pura e semplice e cioè dalla menzogna che, senza particolari modalità ingannatorie aggiuntive, abbia determinato l’errore nel soggetto passivo":

questione – avvertivano le Sezioni Unite – senz’altro seria, "potendosi ritenere che la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri".

A fronte di tale avvertimento, poi, sempre le Sezioni Unite – con la sentenza n. 16568 del 2007, Carchivi – hanno statuito che "vanno ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 316 ter – e non a quella di truffa – le condotte alle quali non consegua un’induzione in errore per l’ente erogatore, dovendosi tenere conto, al riguardo, sia delle modalità del procedimento di volta in volta in rilievo ai fini della specifica erogazione, sia delle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto".

Questo principio va ribadito ed alla stregua di esso la truffa va ravvisata solo ove l’ente erogante sia stato in concreto "circuito" nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi.

La sussistenza della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall’altro, deve formare oggetto (come segnalato dalla Corte Costituzionale) di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto.

Significazioni in tal senso possono trarsi, del resto, dalla stessa collocazione topografica dell’art. 316 ter c.p., e dagli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel testo della norma, chiaramente evidenzianti la volontà del legislatore di perseguire sostanzialmente la percezione sine titulo delle erogazioni in via privilegiata rispetto alle modalità attraverso le quali l’indebita percezione si è realizzata.

7. Il principio dianzi enunciato va poi specificato nel senso che:

"Integra il delitto di cui all’art. 316 ter c.p., anche la indebita percezione di erogazioni pubbliche di natura assistenziale, tra le quali rientrano quelle concernenti la esenzione del ticket per prestazioni sanitarie ed ospedaliere, in quanto nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perchè anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità".

La nozione di "contributo" va intesa, infatti, quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante e tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro.

Appare utile rilevare, in proposito, che l’art. 316 ter è stato inserito nel codice penale dalla L. 29 settembre 2000, n. 300, nel quadro delle misure di adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee redatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, e nessun argomento contrario all’inclusione anche delle prestazioni assistenziali nelle previsioni dello stesso art. 316 ter potrebbe trarsi dalla locuzione "contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo", che pure nella normativa comunitaria viene formulata con termini del tutto generici e privi di uno specifico significato tecnico riferibile soltanto a sovvenzioni in danaro e non anche ad agevolazioni ed ausili economici di qualsiasi tipo, attribuiti con scopi sociali.

Deve considerarsi, poi, che – mentre la norma peculiare posta dall’art. 316 bis c.p., è rivolta specificamente a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali sono stati erogati – l’art. 316 ter, sanziona la percezione di per sè indebita delle erogazioni, senza che vengano in rilievo particolari destinazioni funzionali, e ciò può ritenersi ulteriore elemento confermativo della possibilità di ricondurre nell’ambito di quest’ultima fattispecie anche erogazioni a destinazione non vincolata quali quelle assistenziali.

8. Esaminato secondo l’impostazione dianzi delineata, il caso che ci occupa appare caratterizzato dalla inesistenza di quella "induzione in errore", che integra elemento costitutivo del reato di truffa.

La vicenda, invero, nei suoi elementi fattuali, non è integrata dall’esistenza di un attestato o di un certificato di esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria, in relazione al reddito, rilasciato dall’azienda USL in seguito alla compilazione di un’autocertificazione del beneficiario, ma l’assistito ha apposto la propria firma in calce ad un timbro impresso sul retro dell’impegnativa di prescrizione (riferita ad accertamenti specialistici) recante la dichiarazione "Sono licenziato e disoccupato. Il mio nucleo familiare non supera il reddito previsto per l’esenzione". In base a ciò solo la struttura sanitaria ha erogato le prestazioni in regime di esonero.

Nella Regione Siciliana soltanto con la L.R. 31 maggio 2004, n. 9 (attuata con decreto assessoriale n. 3665 del 18.6.2004 ed ulteriormente integrata nel novembre del 2007) è stata introdotta una disciplina delle esenzioni del ticket sanitario, secondo la quale, per essere esentati dal pagamento, è necessario munirsi del certificato ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), ottenibile presso i CAF o CAAF previa compilazione, da parte dell’utente, di una dichiarazione sostitutiva unica D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, ex artt. 38, 46 e 47, avente validità di 12 mesi dalla data di rilascio.

Tale normativa non era vigente all’epoca dei fatti per i quali si procede (agosto 2002) e – tenendosi comunque presente che nel concetto di "induzione in errore" non può essere assorbito quello di "falsa rappresentazione" – la esenzione del ticket venne ammessa quale conseguenza automatica della formale dichiarazione del richiedente (questo regime è stato successivamente emendato in senso restrittivo proprio a cagione del rilevante numero di abusi che ad esso si riconnettevano).

Per la relazione di residuante e sussidiarietà rispetto alla ipotesi di truffa (già evidenziata dianzi), dunque, trova applicazione la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p..

9. Le Sezioni Unite, con la citata sentenza Carchivi, hanno già dato risposta alla ulteriore questione dei rapporti della fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., con i reati di falso ed in proposito hanno concluso che il reato di cui all’art. 316 ter assorbe quello di falso previsto dall’art. 483, in quanto l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce un elemento essenziale per la sua configurazione, nel senso che la falsa dichiarazione rilevante ex art. 483, ovvero l’uso di un atto falso, ne costituiscono modalità tipiche di consumazione.

Le Sezioni semplici si sono conformate a tale orientamento ed hanno ribadito che il concorrente reato di cui all’art. 483 c.p., resta assorbito nella fattispecie di cui all’art. 316 ter, dal momento che tale ultimo delitto ne contiene tutti gli elementi costitutivi, dando così luogo ad un reato complesso, e ciò pure quando occorra avere riguardo alla previsione dell’art. 316 ter, comma 2, non superandosi i livelli quantitativi dell’indebitamente percepito posti dalla legge come spartiacque tra il fatto di mera rilevanza amministrativa e quello di rilevanza penale (vedi Cass.: Sez. 6, n. 28665 del 31/05/2007, dep. 18/07/2007, P.M. in proc. Piga; Sez. 5, n. 41383 del 17/09/2008, dep. 06/11/2008, Capalbo; Sez. 5, n. 31909 del 26/06/2009, dep. 5/08/2009, Arcidiacono; Sez. 6, 21/10/2010, dep. 22/11/2010, Gelsi).

10. Nel quadro giurisprudenziale come sopra delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire i principi secondo i quali:

a) "Il reato di cui all’art. 316 ter c.p., assorbe quello di falso previsto dall’art. 483 c.p., in tutti i casi in cui l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elementi essenziali per la sua configurazione".

La fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altri enti pubblici, infatti, si configura come fattispecie complessa, ex art. 84 c.p., che contiene tutti gli elementi costitutivi del reato di falso ideologico.

Nè può attribuirsi rilevo alla diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme, considerato che in ogni reato complesso si ha, per definizione, pluralità di beni giuridici protetti, a prescindere dalla collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice. b) "L’assorbimento del falso ideologico nel delitto di cui all’art. 316 ter c.p., si realizza anche quando la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima dell’erogazione (Euro 3.999,96), integri la mera violazione amministrativa di cui al secondo comma dello stesso art. 316 ter".

Rientra, infatti, nelle valutazioni discrezionali del legislatore la scelta della natura e qualità delle risposte sanzionatorie a condotte antigiuridiche, e quindi l’assoggettabilità dell’autore, in una determinata fattispecie, a sanzioni amministrative, pure se frammenti di queste condotte, ove non sussistesse la fattispecie complessa, sarebbero sanzionabili con autonomo titolo di reato.

11. Nella vicenda in esame, in conclusione, i fatti contestati vanno ricompresi nello schema descrittivo dell’art. 316 ter c.p., ivi assorbiti i reati di falso e di truffa, ed a ciò consegue la declaratoria di non previsione del fatto come reato, in quanto non risulta superata la soglia di punibilità, ragguagliata al valore di Euro 3.999,96, indicata nel secondo comma della richiamata previsione legislativa.

Vanno revocate, quindi, le statuizioni civili e, per l’applicazione della prevista sanzione amministrativa, gli atti devono essere trasmessi al Prefetto di Messina.
P.Q.M.

Qualificati i fatti come fattispecie ex art. 316 ter c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Dispone la trasmissione degli atti al Prefetto di Messina per l’applicazione della sanzione amministrativa prevista dallo stesso art. 316 ter, comma 2.

Revoca le statuizioni civili della sentenza impugnata.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-12-2010) 04-01-2011, n. 40 Sequestro conservativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

In data 27.1.2009 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma richiese assistenza giudiziaria all’Autorità giudiziaria elvetica per ottenere l’acquisizione di documentazione bancaria ed il sequestro di somme giacenti su conti svizzeri, ove sarebbero state trasferite somme ritenute dal P.M. compendio di appropriazione indebita contestate a L.S.G..

Il Tribunale di Roma annullò il decreto di sequestro posto a base della richiesta di assistenza giudiziaria, limitatamente al sequestro delle somme, in quanto non sequestrabili con decreto di sequestro probatorio.

Su richiesta del P.M. il G.I.P. presso il Tribunale di Roma dispose il sequestro preventivo delle somme in questione in quanto confiscabili.

Avverso tale provvedimento fu richiesto riesame, ma il Tribunale di Roma, con ordinanza 26.6.2009 dichiarò inammissibile l’istanza sull’assunto che la possibilità di proporre riesame consegue all’esecuzione e non all’emissione del provvedimento di sequestro.

In data 29.10.2009 fu proposta nuova richiesta di riesame, avendo l’avv. Rossana Scornajenchi, che segue la procedura innanzi all’autorità elvetica, riferito all’interessato che il sequestro era stato eseguito.

Con ordinanza 10.11.2009 il Tribunale di Roma dichiarò inefficace il decreto di sequestro in conseguenza di un difetto di notifica dell’avviso all’indagato e della conseguente scadenza dei termini di cui all’art. 324 cod. proc. pen..

A seguito di ciò il G.I.P. emise in data 16.11.2009 nuovo decreto di sequestro preventivo, avverso il quale fu presentata richiesta di riesame.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 21.12.2009 dichiarò inammissibile la richiesta sull’assunto che difettava la prova che il sequestro fosse stato eseguito.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato deducendo violazione della legge processuale in quanto il termine per proporre riesame decorre dalla conoscenza dell’avvenuto sequestro, comunque intervenuta, sicchè anche la comunicazione del difensore all’estero varrebbe ad integrare tale conoscenza.

Il ricorso è fondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 27777 in data 11.7.2006 dep. 3.8.2006 rv 234213, hanno affermato che, in tema di misure cautelari reali, il difensore dell’indagato, pur essendo legittimato ad impugnare il provvedimento che dispone il sequestro conservativo o quello preventivo, non ha diritto alla notificazione dell’avviso di deposito. Conseguentemente, ai fini della decorrenza del termine per la presentazione della richiesta di riesame (che è unico per il difensore e per l’indagato) occorre fare riferimento al momento dell’esecuzione del sequestro o della sua effettiva conoscenza, e non al dato formale della notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento.

La regola iuris dettata dall’art. 324 cod. proc. pen., comma 1, ha lo scopo di individuare una data certa di decorrenza del termine fissato, a pena di decadenza, per proporre richiesta di riesame.

La mancanza di elementi probatori sul dato processuale in grado di individuare il dies a quo non può determinare il radicale epilogo di inammissibilità del ricorso, ma la pronuncia di provvedimento interlocutorio, finalizzato all’acquisizione della documentazione idonea a provare il momento in cui il provvedimento è stato eseguito ovvero quello, diverso e più favorevole, in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15398 del 23.3.2020, dep. 22.4.2010).

Del resto, poichè la richiesta di riesame non implica la conoscenza della motivazione del provvedimento impugnato, potendo essere immotivata, non vi sono ragioni per escludere che possa essere proposta prima della esecuzione del provvedimento. (V. con riferimento alle misure personali Cass. Sez. 3 sent. 26220 del 25.6.2010 dep. 9.7.2010).

L’ordinanza impugnata deve in conseguenza essere annullata senza rinvio e gli atti vanno restituiti al Tribunale di Roma, per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Roma per l’esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-11-2010) 26-01-2011, n. 2780 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione M.M. e S. A. avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo in data 13 ottobre 2008 con la quale è stata confermata quella di primo grado affermativa della loro responsabilità in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in concorso; il M. è stato ritenuto responsabile anche di bancarotta fraudolenta documentale. L’accusa mossa ai due imputati, marito e moglie, era quella di avere il primo, quale amministratore della OK srl (dichiarata fallita il 19 aprile 2002), distratto beni della società rappresentati da un ramo di azienda che veniva ceduto alla sas GeDiAI, amministrata dalla S. che ne era socia accomandataria. Il M. era stato ritenuto responsabile anche della tenuta delle scritture contabili della soc. fallita, in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione degli affari.

Deducono:

1) la violazione dell’art. 2 c.p., e del D.Lgs. n. 5 del 2006.

Per effetto della L. n. 5 del 2006, sono mutati i presupposti di identificazione dell’imprenditore soggetto a fallimento. Nella specie, dunque, posto che gli imputati non rientrerebbero nella detta nozione, dovrebbe essere loro applicata, in base al principio della retroattività delle norme più favorevoli, la novella menzionata.

2) la erronea applicazione della L. Fall., art. 216, e il vizio di motivazione con riferimento alla bancarotta patrimoniale.

Sarebbe illogica la ricostruzione degli eventi accreditata dalla Corte. Secondo tali giudici la cessione del ramo di azienda, risalente al gennaio 2001, sarebbe stata simulata in quanto nell’atto di cessione sarebbe stato espressamente escluso l’accollo dei debiti della società venditrice. In altra parte della motivazione, poi, si ammette che vi sarebbe una "quietanza" che, nella forma di una scrittura privata, invece conterrebbe l’elencazione dei detti debiti.

La Corte sarebbe dunque incorsa nella violazione degli artt. 2698 e segg. c.c., non considerando valida al scrittura privata di accollo dei debiti. D’altra parte vi sarebbe una controprova della effettività di tale impegno da parte della società acquirente del ramo di azienda. Se è vero infatti che la situazione contabile della OK srl al 31 dicembre 2000, data nella quale essa cessò di operare, prevedeva debiti verso fornitori per un ammontare di circa 600 milioni di lire e se è vero altresì che i crediti insinuati al passivo fallimentare erano di appena 54 milioni di L., doveva convenirsi, logicamente, che i debiti ulteriori e diversi erano stati accollati dalla S.. In altri termini non vi sarebbe stata, all’atto del fallimento, distrazione di beni sottratti alla massa dei Creditori, e dovrebbe trovare applicazione al giurisprudenza che riconosce che la valutazione del pregiudizio ai creditori, per effetto del la distrazione, deve essere effettuata con riferimento al momento del fallimento (Cass. 26 gennaio 2006, n., 7212).

3) la erronea applicazione della L. Fall., art. 216, e il vizio di motivazione con riferimento alla bancarotta documentale.

Il prevenuto aveva fornito tutte le schede extracontabili che avevano consentito al curatore di ricostruire la contabilità, sicchè non sussisterebbe il reato contestato.

Il difensore avanza anche istanza di sospensione della esecuzione delle statuizioni civili ai sensi dell’art. 612 c.p.p..

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Il primo motivo è invero manifestamente infondato.

Ben prima del deposito del ricorso in esame le Sezioni unite di questa Corte hanno preso posizione, autorevolmente e condivisibilmente, sullo specifico tema evidenziato dalla difesa, avallando l’orientamento secondo cui il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ex artt. 216 e seguenti, non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate al R.D. n. 267 del 1942, art. 1, dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p., sui procedimenti penali in corso (Rv. 239398). Con una motivazione ricca di argomenti esegetici, il supremo consesso giunge alla conclusione – dalla quale non vi è motivo di discostarsi anche perchè su di essa non incidono le contrarie deduzioni del ricorrente – in base alla quale "i nuovi contenuti della L. Fall., art. 1, non incidono su un dato strutturale del paradigma della bancarotta (semplice o fraudolenta) ma sulle condizioni di fatto per la dichiarazione di fallimento, sicchè non possono dirsi norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale. E il giudice penale, che non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento sulla base della normativa all’epoca vigente, allo stesso modo non può escluderne gli effetti sulla base di una normativa sopravvenuta".

Il secondo motivo di ricorso è infondato e per taluni versi lambisce la inammissibilità.

Invero la sentenza dei giudici di merito contiene l’affermazione, basata su un accertamento di fatto, che la cessione del ramo di azienda sia avvenuta senza la assunzione dei debiti da parte della cessionaria e quindi in termini fortemente penalizzanti per la massa dei creditori, rimasti privi di adeguata garanzia. L’evento peraltro costituiva il fine della intera operazione come affermato dall’imputato il quale aveva chiarito al curatore di volere fondare una società nuova per ricostituire l’affidamento dei fornitori dato che la OK srl era in forte sofferenza.

Quanto alla valutazione del contenuto della scrittura privata citata anche nei motivi di ricorso, non si ravvisa alcuna violazione di legge nella quale i giudici siano incorsi.

La scrittura in questione, come ogni prova documentale, è soggetta alla libera e prudente valutazione del giudice alla quale viene sottoposta, il quale è onerato del solo compito di motivare le ragioni dell’apprezzamento o del mancato apprezzamento.

Nel caso in esame la scrittura privata è stata congruamente analizzata e considerata priva della capacità di dimostrare la insussistenza del reato contestato i ragione del fatto che essa appariva priva di data certa ed era stata acquisita solo in esito alla istruttoria dibattimentale, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., come non si confà ad un documento che potrebbe avere valenza liberatoria per gli imputati.

Si tratta di un ragionamento per nulla irrazionale e tantomeno reticente, come suggerirebbe la difesa, la quale, oltretutto, cade nei menzionati profili di inammissibilità della doglianza, quando propone di sostanziarla con la citazione di circostanze di fatto (menzione di assegni e pagamenti vari) che questa Corte di legittimità non può e non deve essere chiamata a valutare in via diretta. Conclusivamente può osservarsi che gli argomenti logici evidenziati nel ricorso, non sono da soli capaci di rappresentare una causa di proscioglimento nel merito atteso che è risultata comunque presente, all’atto del fallimento, una cospicua quantità di crediti non soddisfatti, sicchè è priva di basi tesi della difesa secondo cui la vicenda distrattiva non avrebbe comunque creato una situazione di pericolo per la massa dei creditori.

Il terzo motivo è infondato.

In primo luogo vi è lo stesso profilo di ammissibilità evidenziato sopra, atteso che il motivo di ricorso si sostanzia nella rappresentazione di una circostanza di fatto (presentazione al curatore delle schede extracontabili) che la Corte ha ritenuto insussistente (si allude ad una contabilità ufficiosa) e comunque incapace di escludere il reato.

In secondo luogo, ed in stretto diritto, vi è da considerare il costante orientamento della giurisprudenza secondo cui sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (Rv. 247965).

Nella specie questa è l’ipotesi verificata ed accreditata dalla Corte, non essendo, d’altra parte, neppure sostenuto dalla difesa ricorrente il grado di affidabilità e di presunta completezza delle schede che essa assume essere state portate a conoscenza del curatore.

L’ultima richiesta rimane assorbita dalla definitività del processo, effetto della presente sentenza.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.