Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-04-2011, n. 9244 Carriera direttiva

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato mediante consegna dell’atto in data 10 febbraio 2007 all’ufficiale giudiziario, che aveva quindi provveduto alla trasmissione a mezzo del servizio postale ex art. 149 c.p.c., l’Agenzia delle dogane chiede, con un unico articolato motivo – relativo alla violazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 19; D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 12; 26 del Regolamento di amministrazione interno, D.L. n. 79 del 1997, art. 12, comma 3 e al vizio di motivazione – la cassazione della sentenza pubblicata il 13 febbraio 2006, con la quale la Corte d’appello di Milano aveva confermato la decisione di primo grado, di accoglimento della domanda del funzionario C.A. di annullamento degli atti, posti in essere nel corso degli anni 2001 e 2002, di copertura provvisoria di posizioni dirigenziali con personale non appartenente alla categoria di dirigente, in sede di avvio operativo dell’Agenzia, in luogo del soppresso Dipartimento del Ministero delle finanze.

La Corte territoriale aveva infatti affermato che, alla stregua dei criteri di buona gestione e trasparenza, i provvedimenti in questione avrebbero dovuto "evidenziare all’esterno i criteri della scelta" ed aveva accertato il difetto di motivazione di essi, in quanto contenenti solo un generico riferimento a precedenti esperienze degli interessati.

Col ricorso l’Agenzia delle dogane sostiene che, trattandosi di atti di esercizio della privata autonomia, gli incarichi di copertura provvisoria di posizioni dirigenziali in questione non avrebbero dovuto essere motivati e che la sentenza cadrebbe al riguardo in una evidente contraddizione laddove riconosce la natura privatistica di tali atti che peraltro sottopone a moduli operativi e di controllo tipici del provvedimento amministrativo.

Ricorda in proposito, che a norma dell’art. 26 del Regolamento di amministrazione, l’Agenzia, in attesa dell’espletamento dei concorsi per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti all’atto dell’avvio della nuova struttura, poteva stipulare, per un periodo comunque limitato, contratti di lavoro a termine con propri funzionari (con trattamento economico di dirigente), previa specifica valutazione dell’idoneità a ricoprire provvisoriamente l’incarico.

L’Agenzia aggiunge di avere rispettato tale disciplina, provvedendo a stipulare i contratti in questione con funzionari segnalati, quanto all’idoneità, dalle strutture periferiche di provenienza e dando atto in ogni provvedimento che si trattava di funzionario in possesso delle specifica esperienza di settore.

Nessuno degli intimati si è costituito nel presente giudizio.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Questa Corte ha ripetutamente precisato (cfr. per tutte, Cass. 14 aprile 2008 n. 9814) che gli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali hanno natura negoziale e sono pertanto sottratti alle regole proprie degli atti amministrativi (in particolare alle norme della L. n. 241 del 1990 e successive modificazioni), essendo viceversa ad essi applicabili le norme del codice civile relative all’esercizio del poteri del privato datore di lavoro.

Tale regola è riferibile anche al caso in esame in cui si trattava dell’attribuzione temporanea di incarichi dirigenziali a funzionari nelle posizioni rimaste scoperte nella nuova struttura, in attesa dell’espletamento del concorso per dirigente.

Quanto ai possibili limiti interni di tali poteri, è stato rilevato, in via generale, che essi si configurano in presenza di disposizioni, contrattuali, legali o di autoregolamentazione, che dettino regole relative al relativo esercizio, vuoi sul piano sostanziale che su quello procedimentale, "regole suscettibili di essere integrate e precisate dalle clausole generali che obbligano ad applicarle secondo correttezza e buonafede" (così, la sentenza n. 9814/08, citata).

Nel caso in esame, più che al D.Lgs n. 29 del 1993, art. 19 (e all’omologo D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19), che riguarda gli incarichi conferiti al personale inquadrato nella qualifica dirigenziale (su cui, comunque, v. ancora, quanto ai limiti interni di natura procedimentale, la sentenza di questa Corte citata) o al D.L. n. 79 del 1997, art. 12, comma 3 convertito in L. n. 140 del 1997 (estraneo alla presente fattispecie, in quanto relativo ad incarichi di reggenza di uffici dell’amministrazione finanziaria, che presuppongono l’emanazione di un decreto del Ministro, qui inesistente) è all’art. 26 del Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle dogane, emanato ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, artt. 60 e 71 e richiamato dalla sentenza e dal ricorso, che occorre fare riferimento per la individuazione di eventuali limiti interni e in particolare di quelli ritenuti esistenti dalla Corte territoriale.

Secondo quanto dedotto dalla stessa parte ricorrente, tale norma prevede, in fase di prima attuazione della nuova struttura denominata Agenzia delle dogane, per un periodo limitato e nell’ipotesi in cui, a seguito dei processi di mobilità attuati in tale fase, restino scoperte alcune posizioni dirigenziali, la possibilità per il direttore dell’agenzia di stipulare contratti di lavoro a termine con propri funzionari "previa specifica valutazione dell’idoneità a ricoprire provvisoriamente l’incaricò".

Con essa viene pertanto introdotto un limite interno a tale potere, condizionato alla sussistenza delle condizioni temporali e dei presupposti indicati e il cui esercizio comporta la specifica valutazione di idoneità del dipendente prescelto, che le clausole generali di correttezza e buona fede obbligano, nell’ambito di rapporti di natura contrattuale, ad esplicitare in maniera adeguata.

Ciò posto, con valutazione di merito, sulla quale le scarne deduzioni svolte al riguardo dall’Agenzia ricorrente non riescono ad incidere, la Corte territoriale ha ritenuto del tutto generiche e quindi inadeguate le motivazioni con le quali sono stati attribuiti gli incarichi dirigenziali in questione ai funzionari in epigrafe indicati come controinteressati.

Rilevato infine che la sentenza impugnata non è censurata quanto alle conseguenze tratte da tale accertamento, il ricorso va pertanto respinto.

Nulla per le spese.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 10-03-2011, n. 471 Ricorso giurisdizionale

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Svolgimento del processo

Il Pontificio Santuario Madonna di Pompei ha convenuto, con il comune di Cavallino, la cessione bonaria di alcune aree di sua proprietà oggetto di una procedura espropriativa iniziata dal Comune.

Con delibera comunale n. 32 del 27 luglio 2001, il Comune ha pertanto acquisito al proprio patrimonio le aree suddette, approvando altresì lo schema di contratto di cessione aree tra il Sindaco e l’ente espropriando.

Successivamente, il 30 luglio 2001, è stato sottoscritto l’atto definitivo di trasferimento della proprietà con la corresponsione di un’indennità in favore del soggetto cedente pari a Lire 173.000.000.

Il Pontificio Santuario, il 4 settembre 2001, ha inviato una nota al sig. A.Z., con la quale ha comunicato di aver ceduto la porzione dei fondi dallo stesso ricorrente condotti in affitto.

Il sig. Z., quindi, ha chiesto al Comune la liquidazione dell’indennità prevista dalla legge a favore dei fittavoli dei terreni espropriati.

Il Comune, con nota del 10 dicembre 2001, ha riscontrato negativamente questa richiesta ritenendo che lo stesso non possedesse la qualifica di coltivatore diretto, così come previsto dalla legge ai fini del riconoscimento dell’indennità richiesta.

In seguito a un incontro tenuto presso gli uffici comunali, il sig. Z., con nota del 5 agosto 2001, ha evidenziato che la somma richiesta poteva essere desunta dall’importo liquidato in sede di cessione bonaria all’Ente proprietario del terreno.

Il Sindaco, il 13 agosto 2002, ha comunicato la propria disponibilità a raggiungere un accordo bonario erogando la somma di Euro 1.549,37.

Il sig. Z., poi, constatato che il terreno in questione era stata recintato, ha proposto il 7 novembre 2002 istanza di accesso agli atti.

A seguito dell’accesso agli atti, il sig. Z. ha proposto il presente ricorso impugnando il decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 7 luglio 2000 di dichiarazione di pubblica utilità del Parco Archeologico del sito messapico del comune di Cavallino, integrato dal successivo D.M. del 19 settembre 2000 recante l’indicazione dei termini di inizio e fine della procedura espropriativa,e ha notificato lo steso ricorso anche all’Università.

Il ricorrente ha proposto i seguenti motivi: 1. Nullità e inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità per violazione dell’art. 13 l. 2359/1865. Violazione dei principi generali in materia di dichiarazione di pubblica utilità. Illegittimità derivata di tutti gli atti della sequela procedimentale e della disposta occupazione. Illiceità dell’azione amministrativa per carenza assoluta di potere. 2. lesione dello jus retentionis di cui agli artt. 43 e 50 l. 203/1982 nonché dell’art. 17 l. 865/1971. Illiceità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà. Arbitrarietà e perplessità dell’azione amministrativa. Carenza assoluta di motivazione. Sviamento di potere. 3. Violazione degli artt. 7 e ss. l. 241/1990. Mancata comunicazione di avvio del procedimento di occupazione del fondo.

Deduce il ricorrente: che la dichiarazione di pubblica utilità è illegittima perché con la stessa non sono stati indicati i termini iniziali e finali dell’espropriazione; che il successivo d.m. con cui sono stati fissati i termini non può sanare o convalidare il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità; che il ricorrente ha il diritto di ritenzione del bene per la tutela del credito derivante dal pregiudizio economico per l’estinzione del rapporto di affitto del fondo; che non è stato a lui comunicato l’avvio del procedimento.

Le Amministrazioni statali si sono costituite con atto del 3 gennaio 2003.

Il comune di Cavallino, con memoria del 28 gennaio 2003, ha eccepito: la carenza di legittimazione attiva del ricorrente perché non è stata fornita alcuna prova che attesti la qualità di coltivatore diretto rispetto al fondo in questione; la carenza di legittimazione passiva perché, essendo intervenuta la cessione bonaria, il ricorrente deve rivolgersi al proprietario del terreni; la tardività del ricorso perché il ricorrente, il 28 dicembre 2001, aveva ottenuto copia degli atti della procedura; l’inammissibilità del ricorso perché la mancata previsione dei termini iniziali e finali comporta la mancanza di interesse all’azione di annullamento.

Nel merito il Comune ha dedotto che non occorre la comunicazione di avvio del procedimento.

Con memoria del 1° dicembre 2003 l’Università ha chiesto l’estromissione dal giudizio perché la stessa Università si è limitata all’attività scientifica di scavo archeologico.

Con sentenza n. 161 del 14 gennaio 2010 è stata dichiarata l’interruzione del processo per decesso del ricorrente.

Con atto di riassunzione del 28 aprile 2010 si sono costituiti gli eredi del ricorrente.

Con memoria del 29 settembre 2010 il Comune ha ribadito le proprie deduzioni.

Gli eredi del ricorrente, con memoria del 31 dicembre 2010, hanno affermato che la conoscenza del contenuto degli atti impugnati si è avuta il 15 novembre 2002 e hanno dichiarato che l’interesse a essere reintegrati nel possesso era venuto meno ma persisteva l’interesse ad ottenere il risarcimento dei danni.

Nella pubblica udienza del 12 gennaio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Deve essere esaminata in primo luogo la richiesta estromissione dal giudizio da parte dell’Università.

La dottrina processualcivilistica ha avuto modo di evidenziare, anche sulla scorta delle specifiche fattispecie espressamente previste dalla normativa ( artt. 108 e 109 c.p.c.), come l’estromissione consegua al riscontro del difetto dei presupposti sui quali deve fondarsi la presenza in giudizio della parte e in particolare alla mancanza di qualsiasi domanda di essa o contro di essa.

Nel caso di specie il gravame risulta proposto avverso un provvedimento del tutto estraneo alla situazione giuridica soggettiva dell’Università, né la prospettazione ricorrente individua qualche particolare o concreta ragione per giustificare la legittimazione passiva di questa.

Pertanto, la richiesta di estromissione è fondata.

Sempre in via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di tardività del ricorso presentata dal Comune.

L’eccezione è fondata, perché, come risulta dalla documentazione depositata in giudizio, a seguito di domanda presentata il 21 dicembre 2001 il ricorrente ha preso visione di tutti gli atti della procedura espropriativa il 28 dicembre 2001, mentre il ricorso è stato notificato il 12 dicembre 2002, quindi ben oltre il termine decadenziale di sessanta giorni.

Il ricorso è quindi tardivo e deve essere dichiarato irricevibile.

Resta tuttavia da esaminare l’azione risarcitoria proposta dal ricorrente, perché, come ha ritenuto la Corte di cassazione, il risarcimento del danno da parte del giudice amministrativo, come forma di tutela dell’interesse legittimo, non presuppone necessariamente il previo annullamento dell’atto amministrativo (Sez. Un., 13 giugno 2006, nn. 13659 e 1360).

È da aggiungere che il superamento della pregiudiziale amministrativa è stato anche positivamente sancito dall’art. 30 del codice del processo amministrativo (anche se non applicabile ratione temporis alla presente controversia).

Posto quanto sopra, ai fini dell’individuazione dell’elemento illecito costituito dai profili di illegittimità degli atti, rileva la mancata fissazione nell’atto di avvio del procedimento espropriativo dei termini di inizio e ultimazione dei lavori, nonché dell’inizio della procedura espropriativa, perché la mancata previsione di questi termini non può essere sanata da atti successivi della procedura.

La richiesta di risarcimento del danno è, tuttavia, infondata perché il ricorrente non ha dato alcuna prova in ordine al danno lamentato.

In particolare, il ricorrente, nelle conclusioni dell’atto introduttivo, chiede di essere reintegrato nel possesso dell’immobile, con condanna dei resistenti al relativo rilascio, nonché al risarcimento del danno ingiusto,cioè del danno derivante dal mancato godimento del fondo come affittuario; non si può,poi, ritenere che il risarcimento richiesto attenga alla mancata percezione dell’equo indennizzo previsto dall’art. 43 della legge n.203 del 1982, così come appare dalla memoria del 31 dicembre 2010, sia perché un’eventuale richiesta in tal senso determinerebbe una modificazione, non consentita, della domanda,sia perché la richiesta del risarcimento del danno individuato nella mancata percezione del citato indennizzo si risolve nella richiesta dello stesso,richiesta mai chiaramente formulata.

Pertanto, si deve ritenere che la richiesta risarcitoria attenga al mancato godimento del bene come affittuario,cioè all’illegittimo spossessamento

Non è stato però indicato alcun elemento a riprova del danno subito.

Per giurisprudenza consolidata, dalla quale il Collegio non ha motivo nella specie di discostarsi, all’azione di risarcimento danni spiegata dinanzi al giudice amministrativo si applica il principio dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 c.c., in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e segnatamente del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario (ex multis, C.G.A.R.S. 12 maggio 2010, n. 640; T.A.R. Lombardia, sez. IV, 10 giugno 2010, n. 1787; T.A.R. Cagliari, sez. II, 5 febbraio 2010, n. 126). Conseguentemente, laddove la domanda di risarcimento danni si presenti genericamente formulata, e non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, essa deve essere respinta (C.d.S., sez. VI, 17 luglio 2008, n. 3592).

Nel caso in esame, il ricorrente non ha fornito alcun elemento idoneo a dimostrare nell’an e nel quantum il pregiudizio del quale si invoca il ristoro. Di tali elementi non vi è traccia né negli atti di gravame, né negli altri scritti difensivi depositati in corso di giudizio. In ogni caso, al di là della genericità dell’indicazione, le pretese risarcitorie formulate dalla parte ricorrente devono essere in ogni caso vagliate alla stregua dell’art. 1227 del c.c..

Infatti, già prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo l’articolo citato è stato utilizzato dalla giurisprudenza quale parametro per quantificare il danno e comunque, deve ritenersi che l’art. 30 cod. proc. amm., per il quale "Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti", ha valore di canone interpretativo del fondamentale principio stabilito dall’art. 1227 c.c. onde lo stesso può applicarsi anche alle fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore.

Nel caso in esame, la tempestiva impugnazione del provvedimento illegittimo avrebbe consentito la reintegra nel possesso del bene da parte del ricorrente con l’eliminazione dei danni oggi richiesti.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato irricevibile per tardività e deve essere respinta la domanda di risarcimento del danno.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: a) dichiara l’estromissione dal giudizio dell’Università, b) dichiara il ricorso irricevibile per tardività, c) respinge la domanda di risarcimento del danno. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 24-03-2011, n. 554 Concessione per nuove costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La ricorrente, titolare di una concessione demaniale marittima, ha chiesto al comune di Ugento l’autorizzazione a mantenere annualmente il chiosco in struttura precaria, facente parte del proprio stabilimento balneare.

Il Comune, con provvedimento del 17 settembre 2009, ha rilasciato la richiesta autorizzazione paesaggistica e l’ha inviata alla Soprintendenza per il controllo previsto dalla legge.

La Soprintendenza, con nota del 18 dicembre 2009, ha richiesto al Comune una planimetria in scala adeguata con indicazione delle aree SIC e delle aree parco e con l’ubicazione delle strutture stagionali per le quali veniva richiesto il mantenimento.

Con successivo provvedimento del 20 settembre 2010, la Soprintendenza ha disposto l’annullamento dell’autorizzazione rilasciata dal Comune, ravvisando un vizio di eccesso di potere (difetto di motivazione).

Avverso questo provvedimento è stato proposto il presente ricorso per i seguenti motivi: 1. Falsa ed erronea applicazione di legge: violazione art. 3 l. 241/1990; eccesso di potere per difetto di motivazione; contraddittorietà e illogicità manifesta; travisamento dei fatti. 2. Eccesso di potere per indebito controllo di merito sulle valutazioni tecnicodiscrezionali dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Sindaco; contraddittorietà manifesta. 3. Violazione di legge: l.r. 24/2008 – eccesso di potere per difetto di motivazione; contraddittorietà manifesta.

Deduce la ricorrente: che l’autorizzazione comunale è adeguatamente motivata; che non sussistono circostanze di fatto o elementi specifici che non siano stati esaminati dal Comune o siano stati da questo irrazionalmente valutati; che è stato effettuato un controllo di merito precluso alla Soprintendenza; che la l.r. 24/2008 consente il mantenimento annuale delle strutture; che l’opera era già stata assentita stagionalmente.

Le Amministrazioni statali si sono costituite con atto del 22 novembre 2010 e, con memoria del 24 dicembre 2010, hanno rilevato che: l’autorizzazione comunale è priva delle ragioni giustificatrici in base alle quali l’intervento è ritenuto compatibile con i valori paesaggistici; che la Soprintendenza ha effettuato un controllo di legittimità.

Nella pubblica udienza del 26 gennaio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto.

La Corte costituzionale (Corte cost. 7 novembre 2007, n. 367) ha, infatti, rilevato come la previsione dell’art. 159, 3° comma del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, non attribuisca "all’amministrazione centrale un potere di annullamento del nullaosta paesaggistico per motivi di merito, così da consentire alla stessa amministrazione di sovrapporre una propria valutazione a quella di chi ha rilasciato il titolo autorizzativo, ma riconosce ad essa un controllo di mera legittimità, che peraltro, può riguardare tutti i possibili vizi, tra cui anche l’eccesso di potere".

Anche con riferimento al potere di annullamento previsto dall’art. 159, 3° comma del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, deve pertanto trovare applicazione la tradizionale giurisprudenza che ha rilevato l’illegittimità di provvedimenti di annullamento fondati su un riesame del merito della valutazione effettuata dall’ente delegato, piuttosto che sulla esatta rilevazione di uno specifico vizio di legittimità dell’atto sottoposto a controllo: "il potere riconosciuto al Ministero per i beni culturali ai sensi dell’art. 159, d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, è da intendersi quale espressione non già di un generale riesame nel merito della valutazione dell’ente delegato, bensì di un potere di annullamento d’ufficio per motivi di legittimità, riconducibile al più generale potere di vigilanza che il legislatore ha voluto riconoscere allo Stato nei confronti dell’esercizio delle funzioni delegate alle regioni ed ai comuni in materia di gestione del vincolo; i parametri cui deve informarsi il giudizio della Soprintendenza ai fini dell’eventuale adozione dell’atto di annullamento sono, pertanto, riconducibili alla completezza della documentazione ed alla ragionevolezza e congruità della medesima, come evincibile dal corredo motivazionale dell’atto regionale o comunale" (Tar. Campania Napoli, sez. IV, 8 novembre 2006, n. 9415; Tar Lazio Roma, sez. II, 3 luglio 2006, n. 5347).

Nel caso di specie, l’annullamento disposto dalla Soprintendenza appare essere sostanzialmente fondato sulla rilevazione di un vizio di "eccesso di potere (difetto di motivazione)" in capo all’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Ugento; il semplice esame della detta autorizzazione paesaggistica evidenzia però una considerazione esaustiva dell’intera fattispecie, ed in definitiva una corretta gestione del vincolo (aspetto che è evidenziato anche dall’apposizione di una serie di prescrizioni specifiche finalizzate a limitare l’impatto paesaggistico della struttura).

La Soprintendenza, non ha avuto riguardo a quanto espresso dal Comune nella propria autorizzazione, nella quale si trovano adeguatamente indicate le ragioni che hanno indotto ad emettere un parere positivo.

Infatti, l’autorizzazione annullata evidenzia un’analisi estremamente approfondita delle caratteristiche dell’area e del progetto, laddove effettua una valutazione di generale compatibilità con il contesto paesaggistico, prevedendo alcune prescrizioni dirette alla tutela del paesaggio al fine anche di mitigare l’impatto delle opere, tra cui che "la struttura sia realizzata totalmente in legno e che siano evitate tassativamente opere a carattere permanente", che "il cordone dunale non sia minimamente toccato", che "l’intera struttura sia poggiata sul terreno" e che "la soluzione cromatica da adottarsi sia caratterizzata da colori chiari/tenui evitando tassativamente colori vivaci e contrastanti".

La Soprintendenza ha tralasciato di effettuare una concreta analisi delle specifiche ragioni in base alle quali l’intervento era stato autorizzato, proprio perché non ha avuto riguardo a tutti gli atti e pareri espressi precedentemente sulla compatibilità ambientale del progetto in esame.

L’illegittimità dell’avviso della Soprintendenza è tanto più evidente in quanto del medesimo intervento era già stata ritenuta la compatibilità paesaggistica per il periodo stagionale e nulla si adduce circa la incompatibilità dello stesso con l’ambiente per il resto dell’anno.

In conclusione, il presente ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, si deve disporre l’annullamento del decreto della Soprintendenza del 20 settembre 2010 n. 13527.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 11-07-2011, n. 15204 Servitù coattive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto del 1999, B.A., C.A., B.C. e A.M.T. convenivano di fronte al tribunale di Trento R.M.L. e una Congregazione religiosa e, premettendo di essere proprietari di alcuni fondi in agro di (OMISSIS), esponevano di essere nel possesso da oltre venti anni di servitù di presa d’acqua continua, di acquedotto e di passo e ripasso per la manutenzione delle opere necessarie, a carico di due particelle, intestate rispettivamente alle due convenute.

Chiedevano quindi venisse dichiarata l’intervenuta usucapione delle servitù predette e in subordine la costituzione di servitù coattiva, allegando lo stato di interclusione dei relativi fondi.

Si costituiva la R., allegando che la presa d’acqua fatta valere derivava da una convenzione del 1902, stipulata dal dante causa delle controparti con il Comune di Villazzano; non poteva pertanto farsi ricorso ai principi dell’usucapione.

Con sentenza del 2002, l’adito tribunale rigettava la domanda attorea e regolava le spese; avverso tale decisione proponevano appello i soccombenti, precisando di avere raggiunto un accordo con la Congregazione; resisteva la R., deducendo il difetto di competenza della Corte adita a favore del TSAP, contestando altresì la legittimazione attiva, tranne che per la C., degli altri originari attori.

Con sentenza in data 29.5/23.8.2004, la Corte di appello di Trento, dichiarava costituita per intervenuta usucapione ventennale servitù di acquedotto a carico della particella della R. e a favore della particella della C., rigettando ogni altra domanda e compensando le spese.

Osservava la Corte distrettuale che le due servitù, ancorchè funzionalmente legate tra loro, rimanevano sul piano giuridico, del tutto autonome e scindibili; tanto premesso, la natura dell’acqua aveva scarso rilievo in quanto almeno la C. aveva diritto a trarla indipendentemente dalla natura della stessa, mentre la domanda investiva soltanto la servitù di acquedotto. Tanto consentiva di superare il profilo afferente al titolo da cui discende il diritto alla derivazione dell’acqua, in quanto era in discussione solo quello relativo al mantenimento delle opere per l’attraversamento della medesima.

Non v’era prova alcuna che gli allora appellanti avessero acquistato per usucapione il diritto di servitù di presa d’acqua in quanto la sorgente rientra tra le acque pubbliche. Sussistevano poi opere visibili ed apparenti atte a giustificate l’acquisto per usucapione della servitù di acquedotto a carico del fondo della R., consistenti in una saracinesca che regola il deflusso dell’acqua nonchè di una condotta.

Peraltro, l’acquisto riguardava esclusivamente la particella delle C., ove esiste una fontana, opera visibile e permanente per il relativo esercizio.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la R. sulla base di sei motivi; resistono con controricorso i B., la C. e la A., proponendo anche ricorso incidentale, basato su di un solo motivo, cui la stessa R. resiste a sua volta con controricorso.
Motivi della decisione

I due ricorsi, principale ed incidentale, sono rivolti avverso la stessa sentenza e vanno pertanto riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Venendo all’esame del ricorso principale, con il primo motivo si lamenta violazione delle norme sulla competenza, error in procedendo, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia e, con il secondo, violazione di norme di legge, vizio di motivazione ed error in procedendo; ci si riferisce alla invocata competenza del TRAP, alla dedotta modifica della domanda attorca ed alla violazione delle norme afferenti alla natura delle acque, oltre che alla motivazione adottata dalla Corte distrettuale circa lo stato dei luoghi; i due motivi possono essere esaminati congiuntamente in ragione della tematica sotto plurimi aspetti comune che affrontano.

Va in primo luogo rilevato che nella specie non si controverte in materia di servitù di presa d’acqua, ma di servitù di acquedotto tra privati, cosa questa che elide ogni contrasto relativamente alla natura pubblica o privata delle acque in questione; è appena il caso di aggiungere che le modifiche normative intervenute non influiscono sulla questione in esame,atteso che la corretta interpretazione della c.d. legge Galli conduce a ritenere la disciplina ivi contenuta non innovativa sotto il profilo in esame. Quanto alla dedotta immutatio relativa alla domanda di controparte, va rilevato che la censura si risolve in una questione per un verso relativa allo stato dei luoghi (il passaggio della tubazione attraverso la particella della ricorrente principale) e quindi afferente al merito e, come tale non suscettibile di esame in sede di legittimità, e per altro verso derivante dalla valenza di atti processuali (la domanda effettivamente promossa dalle controparti), profilo riconducibile all’interpretazione della domanda stessa e devoluta all’apprezzamento discrezionale del giudice del merito, insindacabile in questa sede se immune da vizi di logica o di diritto. E’ appena il caso di rilevare che non vengono al riguardo dedotti specifici profili di violazione dell’art. 1362 c.c., e segg., cosa questa che rende la doglianza, per quanto attiene allo specifico vizio lamentato, inammissibile.

I due motivi non possono pertanto trovare accoglimento.

Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1033 c.c., e segg., art. 1050 c.c. e art. 1080 c.c., e segg., e vizio di motivazione in ordine alla natura della servitù in questione e all’effettivo stato dei luoghi, in particolare lamentandosi la insussistenza di un attraversamento della tubatura nella particella di essa ricorrente principale.

Premesso che le considerazioni svolte in ordine alla differenza tra servitù di presa d’acqua e di acquedotto sono condivisibili solo laddove si risolvono nell’affermare che oggetto della servitù di acquedotto è il diritto di far passare l’acqua attraverso il fondo altrui, va rilevato che le ulteriori considerazioni attengono allo stato dei luoghi, scivolando ineluttabilmente in profili di merito, che non sono sindacabili in questa sede.

Fermo il fatto che la sentenza impugnata afferma che, sia pure per brevissimo tratto, le tubature passano attraverso la particella della R., cosa questa che fa venir meno ogni ulteriore profilo di violazione delle norme citate, ha ininfluente incidenza la ulteriore qualificazione delle altre opere esistenti, atteso che è sufficiente l’attraversamento del fondo altrui con tubature per la conduzione dell’acqua per ritenere la sussistenza della ritenuta servitù di acquedotto.

Anche tale motivo non può pertanto trovare accoglimento.

Il quarto motivo lamenta violazione o falsa applicazione di norme di legge e vizio di motivazione; si assume infatti che il titolo costitutivo (del 1902) ha natura negoziale, e che con esso si era costituito un diritto di obbligazione e non reale, come del resto era stato riconosciuto dalla Giustizia austroungarica, che aveva escluso la natura reale dell’acquisto di acqua dal Comune.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza; avrebbero infatti, essendo stato denunciata violazione di norme sostanziali, essere riportati per intero e per esteso sia l’atto invocato che la pronuncia giudiziale cui si fa riferimento, non potendosi ritenere sufficienti ai fini che ne occupano citazioni parziali o per riassunto, come nella specie è stato fatto.

Con il quinto motivo si lamenta violazione degli artt. 1158, 1146,1033 e 1080 c.c., in buona sostanza affermandosi che, fermo il fatto che la C. aveva acquistato il terreno solo nel 1992, l’accessio possessionis non poteva trovare applicazione in zone ove vige il sistema tavolare, con la conseguenza che l’usucapione non poteva dirsi compiuta.

Il motivo è inammissibile atteso che propone per la prima volta in questa sede una questione mai dibattuta nella fase di merito e necessitante, per sua natura, di accertamenti incompatibili con la presente sede di legittimità.

Con il sesto motivo ci si duole della avvenuta compensazione delle spese nei confronti dei soggetti dei quali era stata ritenuta l’insussistenza della legittimazione attiva.

La doglianza è inammissibile, atteso che la compensazione delle spese è affidata alla discrezionale valutazione del giudice del merito, il quale nell’applicarla non è legato a ragioni di soccombenza o processuali, ma ad una sua prudente valutazione dello svolgimento del giudizio di merito.

Il ricorso principale non può pertanto trovare accoglimento.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale, ci si duole del ritenuto difetto di legittimazione attiva in capo ai B. ed alla A.; si sostiene che essendo la fontana l’unica opera visibile attestante la sussistenza della servitù, costoro si sarebbero venuti a trovare nella stessa situazione della loro consorte.

Il motivo è generico, in quanto non perviene a contestare le ragioni sulla cui base la Corte trentina è pervenuta alla decisione di cui ci si duole; la sentenza impugnata infatti ha svolto ragioni decisionali al riguardo che non sono state specificamente esaminate e sottoposte a critica.

Quanto alla ulteriore doglianza relativa alla compensazione delle spese, la stessa è pure inammissibile, anche per la ritenuta carenza di legittimazione passiva in capo ai B. ed alla A., ma principalmente in quanto spetta al giudice del merito pervenirvi o meno in ragione del completo esame dell’iter processuale.

Anche il ricorso incidentale deve essere pertanto respinto.

La reciproca soccombenza conduce alla compensazione delle spese relative al presente procedimento per cassazione.
P.Q.M.

riuniti i ricorsi, la Corte li rigetta e compensa le spese.

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