Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-06-2012, n. 10953 Risoluzione del contratto per inadempimento

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 9 maggio 1994 il sig. B. C., sulla premessa che con contratto preliminare del 18 gennaio 1992 la Taurus Club s.r.l. si era impegnata a cedergli il locale commerciale in (OMISSIS), per il prezzo di lire 700.000.000, e che egli aveva contestualmente versato la caparra di lire 200.000.000 senza che alla scadenza pattuita del luglio 1992 gli fosse stato consegnato l’immobile e che, poi, venisse stipulato il contratto definitivo, malgrado la notificazione di diffida ad adempiere del 1 aprile 1994, conveniva la suddetta società dinanzi al Tribunale di S. Maria Capua Vetere per ottenere la dichiarazione di risoluzione del suddetto contratto preliminare e la condanna della Taurus Club s.r.l. al pagamento del doppio della caparra (pari a L. 400.000.000), oltre interessi dal 1 agosto 1992.

La Taurus Club s.r.l., costituitasi in giudizio, chiedeva in via riconvenzionale la risoluzione del contratto per inadempimento del B., il riconoscimento del diritto ad incamerare la caparra, la condanna dell’attore al pagamento di ulteriore somma da quantificarsi in corso di causa per le opere realizzate su richiesta dello stesso.

Con sentenza in data 12 febbraio 2002 il Tribunale adito pronunziava la risoluzione del preliminare per inadempimento della Taurus Club s.r.l., rigettava la domanda riconvenzionale, condannava la predetta società convenuta ai rimborso della somma di lire 200.000.000, al pagamento della ulteriore somma di lire 200.000.000 a titolo risarcitorio, incrementata quest’ultima della rivalutazione monetaria in lire 40.724.465, oltre interessi sulla somma di lire 400.000.000 dalla domanda.

Interposto appello da parte della Taurus Club s.r.l. e nella resistenza dell’appellato, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 810 del 2005 (depositata il 17 marzo 2005), confermava l’impugnata decisione.

A sostegno dell’adottata sentenza la Corte territoriale escludeva l’incapacità a testimoniare del figlio dell’attore, richiamava la seconda scrittura tra le parti in cui si prevedeva il pagamento di lire 150.000.000 al 20 gennaio 1992 a titolo di caparra, di lire 400.000.000 alla stipula del rogito notarile, di lire 100.000.000 entro il 31 gennaio 1992 e si fissava alla data del 31 gennaio 1992 il momento in cui sarebbe dovuto intervenire il saldo del prezzo, consentito successivamente alla stipula, rilevando che, comunque, la stipula con la consegna avrebbe, a tutto voler concedere, dovuto aver luogo entro il termine stabilito per il pagamento del saldo, essendo inconcepibile che il promittente acquirente, pur obbligandosi a pagare l’intero prezzo entro il 31 gennaio 1992, avesse poi rimesso all’arbitrio del venditore ogni decisione in ordine alla data della consegna e alla stipula del definitivo. Rilevava, altresì, la Corte di secondo grado che, in ogni caso, vi era stata la diffida ad adempiere e la risposta data a tale diffida era inverosimile, considerandosi, inoltre, che l’inadempimento dell’appellante non era di scarsa importanza. Rilevava, altresì, la Corte territoriale che, alla stregua della clausola n. 9 contenuta nel contratto preliminare, l’appellante era stata legittimamente condannata, oltre che alla restituzione della caparra incamerata, anche al pagamento dell’ulteriore somma di L. 200.000.000 prevista a titolo di penale per il risarcimento del danno in caso di eventuale risoluzione del contratto.

La Taurus Club s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza di appello basandolo su un unico complesso motivo;

ha resistito il B. con controricorso. Il difensore della ricorrente ha, altresì, depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. Deve, in primo luogo, essere rigettata l’eccezione di difetto di "ius postularci" formulata nell’interesse del controricorrente sulla scorta dell’assunta genericità della procura speciale apposta a margine del ricorso, non contenente uno specifico riferimento all’impugnazione della sentenza della Corte di appello di Napoli n. 810 del 2005. Infatti, secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, la procura a ricorrere per cassazione apposta a margine del ricorso, ancorchè con espressioni generiche ed onnicomprensive dell’estensione del mandato, ma che tuttavia non escludano univocamente la volontà della parte di proporre ricorso per cassazione, deve ritenersi speciale, e non generica, proprio in quanto incorporata al ricorso ed in applicazione del principio interpretativo di conservazione dell’atto giuridico di cui è espressione, in materia processuale, l’art. 159 c.p.c. (cfr, ad es., Cass. n. 3349 del 2003 e Cass. n. 2340 del 2006).

2. Con il proposto motivo la ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. e art. 112 c.p.c., nonchè (in virtù dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) il vizio di contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia. In particolare, con tale complessa doglianza, la Taurus club s.r.l. ha inteso dedurre il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale, nel procedere all’interpretazione della clausola n. 9 del contratto preliminare e nel confermare la statuizione di primo grado, pur dando atto che con la predetta clausola le parti avevano inteso escludere l’applicazione del principio della restituzione del doppio della caparra (nel caso di inadempimento della promittente venditrice) introducendo l’obbligo per l’inadempiente di pagare una penale in una misura corrispondente alla caparra stessa, aveva ritenuto che la parte inadempiente fosse obbligata alla restituzione della caparra e, in più, al pagamento della penale pari all’importo della caparra, senza considerare che il promissario acquirente non aveva formulato il necessario recesso. Pertanto, secondo la prospettazione della ricorrente, la Corte partenopea aveva erroneamente liquidato in favore del B., a titolo di penale, il doppio della caparra malgrado tale ipotesi sia prevista in caso di esercizio di recesso e non in caso di risoluzione del contratto, così incorrendo nella violazione dell’art. 1385 c.c., comma 2, ragion per cui, nella specie, il B. avrebbe potuto aver diritto alla sola restituzione della comma conferita di L. 200.000.000 all’atto della stipula del preliminare.

3. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Al di là del profilo che, nel caso di specie, la ricorrente non ha specificamente dedotto alcuna violazione riconducibile ai criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. c.c. in ordine alla valutazione della contestata clausola di cui al punto n. 9) del contratto preliminare del 18 ottobre 1992 intercorso tra le parti, rileva il collegio che non sussistono nè la dedotta violazione di legge nè il supposto vizio di ultrapetizione (in ordine al quale, peraltro, avrebbe dovuto richiamare la violazione riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) nè la prospettata contraddittorietà del percorso motivazionale. Infatti, con motivazione logica ed adeguata oltre che rispondente alla comune volontà delle parti e alla condotta dalle stesse complessivamente adottata anche posteriormente alla conclusione del suddetto contratto preliminare (all’atto della cui stipula è incontroverso che il B. ebbe a versare la somma di L. 200.000.000 a titolo di caparra), la Corte territoriale ha correttamente statuito che, in effetti, mediante la previsione di cui all’anzidetta clausola (nella quale era stato stabilito che l’inosservanza di una qualsiasi delle clausole contrattuali sarebbe stata causa di rescissione – rectius:

risoluzione – del contratto e la penale rimaneva fissata in una somma pari alla sola caparra), le parti inteso evidentemente escludere l’applicazione del principio della restituzione del doppio della caparra (per l’eventualità dell’inadempimento del promittente venditore), introducendo, tuttavia, l’obbligo per l’inadempiente di corrispondere all’altra parte una penale equivalente (nel suo importo) alla misura della caparra stessa versata al momento della conclusione del preliminare. In tal senso, dunque, ed avendo del tutto legittimamente reintepretato i termini del "decisum" del giudice di primo grado (che era giunto alla medesima conclusione, ancorchè discorrendo impropriamente di restituzione del doppio della caparra, ma distinguendo la funzione delle due differenti somme di L. 200.000.000), la Corte di appello non è incorsa nel supposto vizio di ultrapetizione, avendo qualificato, sul piano giuridico, correttamente la portata della domanda originariamente proposta dal B. sulla base dei fatti posti a suo fondamento e della esatta portata del contenuto contrattuale. Del resto è risaputo che il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (cfr., ad es., Cass. n. 19331 del 2007; Cass. n. 3012 del 2010 e, da ultimo, Cass. n. 23794 del 2011).

Non sussiste – come già preannunciato – nemmeno la prospettata violazione di legge ricondotta all’illegittima applicazione dell’art. 1385 c.c., comma 2. Deve, in proposito, osservarsi che, in tema di caparra confirmatoria, il principio di cui all’art. 1385 c.c., comma 2 (in virtù del quale la parte non inadempiente ha facoltà di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta od esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile (come, in effetti, dedotto dalla ricorrente) tutte le volte in cui la parte non inadempiente, anzichè recedere dal contratto, si avvalga del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, perdendo, in tal caso, la funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno;

tuttavia, deve affermarsi (cfr., ad es., Cass. n. 11356 del 2006) che, qualora, anzichè recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio (come verificatosi nella specie), la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacchè in tale ipotesi essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 ss. c.c. (salvo che non ne sia stata convenzionalmente predeterminata la misura sotto forma di clausola penale). In altri termini, qualora la parte non inadempiente, invece di recedere dal contratto, manifesti la volontà di optare per l’esercizio del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, la restituzione di quanto versato a titolo di caparra è dovuta dalla parte inadempiente quale effetto della risoluzione stessa in conseguenza della caducazione della sua causa giustificativa, senza alcuna necessità di specifica prova del danno, essendo il danno stesso (consistente nella perdita della somma capitale versata alla controparte maggiorata degli interessi) "in re ipsa", mentre la prova richiesta alla parte che abbia scelto il rimedio ordinario della risoluzione del preliminare riguarderà esclusivamente l’eventuale maggior danno subito in conseguenza dell’inadempimento dell’altra parte. Tuttavia, per il caso di previsione cumulativa di caparra e penale nello stesso contratto, tale ulteriore danno sarà automaticamente determinato nel "quantum" previsto a titolo di clausola penale che ha la funzione di limitare il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anzichè recedere dal contratto, domandarne la risoluzione. A tale principio la Corte partenopea si è correttamente attenuta nella fattispecie allorquando, nell’interpretare globalmente la menzionata clausola n. 9 del contratto preliminare in discorso, ha adeguatamente rilevato che, nel caso di inadempimento della promittente venditrice e di intervenuta risoluzione del contratto, la Taurus club s.r.l.

sarebbe stata tenuta alla restituzione della caparra e, in aggiunta, al pagamento della penale quantificata in una misura corrispondente a quella della caparra stessa (e non, quindi, al pagamento della sola penale corrispondente all’importo di L. 200.000.000, evidenziando anche l’illogicità degli effetti discendenti dall’opzione ermeneutica proposta dall’appellante secondo cui il promittente venditore, in caso di risoluzione del contratto, sarebbe stato autorizzato a trattenere la caparra e a pagare soltanto la penale).

Occorre, infine, rilevare che solo nella memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. il difensore della ricorrente ha dedotto l’erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva riconosciuto la rivalutazione monetaria sulla somma computata a titolo di penale.

Tale deduzione, tuttavia, non può essere esaminata, in quanto inammissibilmente proposta solo nella suddetta memoria senza costituire oggetto di autonoma censura nel formulato ricorso per cassazione. La giurisprudenza uniforme di questa Corte (cfr., per tutte, Cass., S.U., n. 11097 del 2006) è concorde nel ritenere che nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 c.p.c., destinate esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie, non è possibile specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie censure che non fossero state prospettate con il detto atto introduttivo, diversamente violandosi il diritto di difesa della controparte in considerazione dell’esigenza per quest’ultima di valersi di un congruo termine per esercitare la facoltà di replica.

4. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte di cassazione, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 17-01-2011, n. 245

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 59/05 del 7 febbraio 2005 è stato accolto il ricorso proposto dai signori S.A., A.M.C. e B.C. avverso una concessione edilizia (per cambio di destinazione d’uso con opere) rilasciata alle signore P. e M.T.S.. Queste ultime, con atto notificato il 21 marzo 2006, proponevano appello avverso la citata sentenza, contestando l’annullamento, nella medesima disposto, della predetta concessione edilizia.

Con memoria depositata in vista dell’udienza in data odierna, tuttavia, le appellanti comunicavano di non avere più interesse alla decisione, essendo stata nel frattempo rilasciata la concessione edilizia in sanatoria n. 2113 del 17 aprile 2008.

A seguito delle contestazioni delle controparti, tuttavia, con sentenza interlocutoria n. 7294/10 del 5 ottobre 2010 il Collegio disponeva una verifica in ordine all’effettività dell’intervenuta sanatoria dell’intervento di cui trattasi, tramite acquisizione – da parte dell’amministrazione comunale competente – di una documentata relazione, in cui si attestasse l’avvenuto rilascio, o meno, del prescritto titolo abilitativo per tutti gli interventi, oggetto dell’annullata concessione edilizia n. 5527 prot. E.P. n. 374/2002 del 5 giugno 2003, per cambio di destinazione d’uso da ufficio ad autorimessa, con opere parzialmente in sanatoria, sull’area sita in via San Giacomo 4 di Bergamo. Con documentazione depositata il 19 novembre 2010 la Direzione "Territorio e Ambiente" – Divisione Gestione del Territorio del Comune di Bergamo ha attestato come la concessione edilizia annullata si riferisse ad "opere di sopraelevazione di pavimento….sostituzione della controsoffittatura…e di eliminazione di pareti divisorie interne", con precisazione del carattere di tali opere come "funzionali al cambiamento della destinazione d’uso, da ufficio ad autorimessa, come risultante dagli elaborati grafici, debitamente timbrati come parte integrante della concessione stessa". Nella medesima nota (P.G. n. 00109801 – n.374/02 del 9.11.2010) l’Amministrazione comunale precisava anche che con la sanatoria n. 2113 del 17 aprile 2008, rilasciata ex art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla l. 24 novembre 2003, n. 326, doveva ritenersi assentito quanto risultante dagli elaborati grafici, a loro volta timbrati come parte integrante del titolo abilitativo rilasciato in via di sanatoria, "e cioè opere di sopraelevazione del pavimento….sostituzione della controsoffittatura con una ignifuga ed eliminazione di pareti divisorie interne". In base ai predetti elaborati grafici, inoltre, arebbe stato verificabile come lo stato di fatto, precedente all’abuso, fosse quello di "ufficio", mentre quello, condonato, conseguente all’abuso stesso sarebbe stato individuabile come "autorimessa", con "oblazione versata… corretta in relazione alla richiesta".

Tenuto conto di quanto sopra, non resta al Collegio che dare atto dell’improcedibilità dell’appello, per sopravvenuta carenza di interesse, avendo le appellanti – con ogni evidenza – conseguito in via di sanatoria il titolo abilitativo, annullato con la sentenza appellata; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto della peculiarità della vicenda sottoposta a giudizio, la cui soluzione è riconducibile alla sopravvenienza di normativa a carattere eccezionale.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, dichiara improcedibile il ricorso in appello specificato in epigrafe; compensa le spese giudiziali.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini, Presidente

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Manfredo Atzeni, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 25-06-2013, n. 27755

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Svolgimento del processo
1. – Con sentenza deliberata in data 29 novembre 2010, depositata in cancelleria il 30 novembre 2010, il Tribunale di Genova applicava a A.O., ex art. 444 cod. proc. pen., per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter la pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione con sostituzione della pena detentiva con la libertà controllata per il doppio della durata.
2. – Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, ha interposto tempestivo ricorso per cassazione A.O. chiedendone l’annullamento per violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all’art. 129 cod. proc. pen..
Motivi della decisione
3. – La fattispecie che punisce la condotta di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore, ancorchè posta in essere prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, deve considerarsi non più applicabile nell’ordinamento interno, a seguito della pronuncia della Corte di giustizia U.E. 28 aprile 2011 (nell’ambito del processo xxx, C- 61/11PPU), che ha affermato l’incompatibilità di detta norma incriminatrice con la predetta normativa comunitaria, determinando effetti sostanzialmente assimilabili alla "abolitio criminis": con la conseguente necessità di dichiarare, nei giudizi di cognizione, che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e fare ricorso in sede di esecuzione – per via di interpretativa estensiva – alla previsione dell’art. 673 cod. proc. pen. (cft. Sez. 1, 28 aprile 2011, n. 22105 e 29 aprile 2011, n. 20130). Il decreto L. 23 giugno 2011, n. 89, convertito con modificazioni in L. 2 agosto 2011, n. 129 – recante disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione alla direttiva suindicata sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari – ha quindi novato la fattispecie (sostanzialmente confermando l’intervenuta abolitio criminis). La nuova formulazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, introdotta con l’intervento normativo suindicato, non realizza infatti una continuità normativa con la precedente disposizione, non soltanto per lo iato temporale intercorrente con l’effetto della direttiva, ma anche per la diversità strutturale dei presupposti e la differente tipologia della condotta necessari ad integrare l’illecito delineato. Sul punto basterà ricordare che oggi alla intimazione di allontanamento si può pervenire solo all’esito infruttuoso dei meccanismi agevolatori della partenza volontaria e allo spirare del periodo di trattenimento presso un centro a ciò deputato (CIE). Il D.L. citato ha istituito dunque una nuova incriminazione, applicabile solo ai fatti verificatisi dopo l’entrata in vigore della novella. L’intervenuta abolitici criminis, impone quindi di risolvere il problema che si pone nella presente fattispecie, connotata dalla particolarità della inammissibilità del ricorso (avendosi riguardo a sentenza di applicazione della pena richiesta dalla stesso imputato, con motivazione che, ancorchè succinta, sarebbe in astratto adeguata ai parametri richiesti per tale genere di decisioni), nel senso che l’incompatibilità è destinata a prevalere anche sulla causa di inammissibilità del ricorso, in quanto alla impossibilità di rilevare cause di non punibilità in costanza di ricorso inammissibile, resistono le ipotesi di successione di leggi, riconducibili all’art. 2 cod. pen. La nozione di condanna, ricavabile da tale norma in combinato con l’art. 673 cod. proc. pen., non può essere difatti che ricondotta al giudicato formale e ciò comporta che, fin tanto che esso non si è formato, spetta al giudice della cognizione prendere atto, in particolare, della intervenuta abolitio criminis e annullare la condanna per fatto divenuto privo di rilievo penale.
4. – Ne consegue che deve adottarsi pronunzia ai sensi dell’art. 620 cod. proc. pen. come da dispositivo.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato non è previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2013

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Corte cost. 18-04-2007 (18-04-2007), n. 125 (ord.) Processo penale – Decreto di rinvio a giudizio di funzionari del SISMI e di agenti di un servizio straniero

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ORDINANZA
Nel giudizio di ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, presso il Tribunale di Milano – in relazione al decreto che dispone il giudizio emesso il 16 febbraio 2007 nei confronti di funzionari del SISMi, tra cui il suo Direttore, di agenti di un servizio straniero e di altri, per essere stato adottato anche sulla base di fonti di prova incise dal segreto di Stato – promosso con ricorso depositato in cancelleria il 14 marzo 2007 ed iscritto al n. 3 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 18 aprile 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con ricorso del 14 marzo 2007, depositato in pari data, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato – previa deliberazione del Consiglio dei ministri, assunta in data 7 marzo 2007 – conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, presso il Tribunale di Milano, in relazione «al decreto di rinvio a giudizio emesso il 16.2.2007 su richiesta di rinvio a giudizio della Procura della Repubblica di Milano», nei confronti di funzionari del SISMi, tra cui il suo Direttore, di agenti di un servizio straniero e di altri, in quanto adottato «sulla base (anche) di documentazione secretata e di altre fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato che accompagnavano la richiesta di rinvio a giudizio», così esercitando la funzione giurisdizionale in materia sottratta alla competenza dell’autorità giudiziaria;
che il ricorrente premette di aver già sollevato conflitto di attribuzione tra poteri nei confronti del Procuratore della Repubblica di Milano, in relazione ad atti di indagine, compiuti nel corso del procedimento relativo al sequestro di persona di Nasr Osama Mustafa Hassan, alias Abu Omar, utilizzando documenti coperti da segreto di Stato, allegati poi alla richiesta di rinvio a giudizio, ed adottando specifiche modalità di esecuzione di tali atti – riguardanti intercettazioni telefoniche, interrogatori di indagati e la formulazione di una richiesta di incidente probatorio – comportanti la violazione del segreto di Stato;
che, all’udienza preliminare del 16 febbraio 2007, il Giudice per le indagini preliminari emetteva decreto che dispone il giudizio, sulla base anche degli atti già oggetto del citato ricorso;
che, in punto di ammissibilità del conflitto, il Presidente del Consiglio dei ministri, richiamate le sentenze n. 110 e n. 410 del 1998 e le ordinanze n. 426 del 1997 e n. 266 del 1998 di questa Corte, evidenzia la natura di potere dello Stato del Giudice dell’udienza preliminare, «attesa la natura "diffusa" del (potere) giudiziario»;
che, riguardo al merito, il ricorrente, assumendo «che la violazione da parte del G.I.P. – G.U.P. delle prerogative del Presidente del Consiglio in materia di segreto di Stato (sia) automatica conseguenza della pregressa violazione, operata a monte dal P.M.», ripropone le identiche censure formulate nel precedente ricorso per conflitto;
che, in particolare, il ricorrente, richiamata la sentenza n. 86 del 1977 di questa Corte, evidenzia come il livello "supremo" dei valori tutelabili con il presidio del segreto di Stato, postula la resistenza di tale presidio anche rispetto ad altri valori e funzioni, ancorché costituzionalmente tutelati, tra cui la funzione giurisdizionale;
che, sotto tale profilo, l’apposizione del segreto da parte del Presidente del Consiglio su determinate notizie integrerebbe l’esercizio di una potestà costituente "sbarramento al potere giurisdizionale stesso" (cfr. sentenze n. 86 del 1977 e n. 110 del 1998);
che il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che il decreto che dispone il giudizio, in quanto provvedimento adottato sulla base di documenti ed altre fonti di prova coperti da segreto di Stato, violi le prerogative del Governo nella materia del segreto di Stato;
che pertanto il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto conflitto di attribuzione – deducendo la violazione degli artt. 1, 5, 52, 87, 95, 102 e 126 della Costituzione, in relazione agli artt. 12 e 16 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, ed agli artt. 202, 256 e 362 cod. proc. pen. – per sentir dichiarare che non spetta al Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, «né acquisire, né utilizzare, sotto alcun profilo, direttamente o indirettamente, atti, documenti e fonti di prova coperti da segreto di Stato» e che non spetta al medesimo organo, a fronte di una richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero, prendere conoscenza dei suddetti documenti e fonti di prova e «su tale base disporre il rinvio a giudizio e fissare l’udienza dibattimentale, così offrendo tali documenti e fonti di prova ad ulteriore pubblicità»: con il conseguente annullamento del decreto che dispone il giudizio e restituzione dei documenti coperti da segreto di Stato ai legittimi detentori.
Considerato che in questa fase del giudizio, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte costituzionale è chiamata a delibare senza contraddittorio in ordine all’ammissibilità del conflitto di attribuzione, sotto il profilo della sussistenza della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza»;
che il Presidente del Consiglio dei ministri è legittimato a sollevare il conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla legge 24 ottobre 1977, n. 801, ma anche alla stregua delle norme costituzionali che ne definiscono le attribuzioni (sentenze nn. 487 del 2000, 410 e 110 del 1998, 86 del 1977; ordinanze nn. 320 e 321 del 1999, 266 del 1998 e 426 del 1997);
che la legittimazione del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, a resistere nel conflitto deve essere affermata, avuto riguardo alla giurisprudenza di questa Corte che riconosce ai singoli organi giurisdizionali la legittimazione ad essere parti di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, competenti a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà del potere cui appartengono (sentenza n. 225 del 2001; ordinanza n. 102 del 2000);
che, quanto al profilo oggettivo del conflitto, è lamentata dal ricorrente la lesione di attribuzioni costituzionalmente garantite, essendo devoluta alla responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il controllo del Parlamento, la tutela del segreto di Stato quale strumento destinato alla salvaguardia della sicurezza dello Stato medesimo (v. sentenze nn. 487 del 2000, 410 e 110 del 1998, 86 del 1977; ordinanze nn. 321 e 320 del 1999, 266 del 1998 e 426 del 1997);
che tale preliminare valutazione, adottata prima facie ed in assenza di contraddittorio, lascia impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione relativamente anche ai profili attinenti alla stessa ammissibilità del ricorso, avuto riguardo alla diversità delle condotte assunte come invasive delle attribuzioni del potere ricorrente;
che pertanto, allo stato, va dichiarata l’ammissibilità del ricorso, tanto sotto il profilo oggettivo, che sotto quello soggettivo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, presso il Tribunale di Milano, con l’atto indicato in epigrafe;
dispone:
a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri;
b) che, a cura del ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati al Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati nella cancelleria di questa Corte entro il termine di venti giorni dalla notificazione, a norma dell’art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

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