Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 22-06-2011) 12-10-2011, n. 36877

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.G.C. è stato processato per il reato di cui all’art. 612 c.p. per aver minacciato a C.G. un male ingiusto proferendo nei suoi confronti la frase: "tanto tu sei un uomo morto, stai attento che prima o poi ti farò danno", nonchè del reato di cui all’art. 581 c.p., per avere percosso il C. G. con uno schiaffo.

Con sentenza numero 26-09 del 27 febbraio 2009, il giudice di pace di Mascalucia condannava l’imputato alla pena di Euro 1000 di multa, ritenendolo responsabile di entrambe le fattispecie delittuose.

Il tribunale di Catania, giudicando in grado di appello, assolveva il prevenuto sulla considerazione dell’insufficienza della prova, per essere stata la responsabilità dell’imputato fondata sulle dichiarazioni della persona offesa, riscontrate dalla teste P., senza che fosse svolta un’adeguata valutazione di attendibilità e della persona offesa (la quale risultava condannata con sentenza numero 100-2008 per reato commesso in danno dell’odierno imputato) e della teste di riscontro P.V., la quale si trovava a distanza dal luogo della discussione e le cui dichiarazioni risultano contraddette dalla testimonianza di Pe.

V., che si trovava a una distanza notevolmente inferiore e che non percepiva alcuna violenza, fisica o verbale. Contro la sentenza assolutoria di secondo grado propone ricorso la parte civile adducendo mancanza, manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova per avere fondato il giudizio di inattendibilità della persona offesa su una circostanza contraria al vero, così configurandosi un travisamento del fatto. In particolare il tribunale dell’appello avrebbe ritenuto l’odierna persona offesa quale soggetto condannato con altra sentenza dello stesso tribunale, mentre in realtà avrebbe confuso i due soggetti, in quanto imputato nell’altro procedimento risultava C.G.M. e non C.G.C. (tale sentenza non risulta però prodotta, nè è rinvenibile nel fascicolo del presente procedimento). Per questo motivo, ritenuto il travisamento del fatto e considerato che per effetto dell’errore l’odierna persona offesa è stata ritenuta non idonea a testimoniare, in quanto imputata in procedimento connesso, ne deduce il crollo dell’intera architettura argomentativa della sentenza di secondo grado e pertanto ne chiede l’annullamento.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile perchè manifestamente infondato. L’asserito travisamento del fatto, per la confusione del tribunale dell’appello – che avrebbe, secondo la difesa, ritenuto l’odierna persona offesa quale soggetto condannato con altra sentenza dello stesso tribunale, mentre in realtà avrebbe confuso i due soggetti, in quanto imputato nell’altro procedimento risultava C.G.M. e non C.G.C. – è assunto meramente assertivo ed apodittico, dal momento che la sentenza indicata (n. 100/2008), pur indicata quale allegato del ricorso, non risulta però concretamente prodotta, nè è rinvenibile nel fascicolo del procedimento.

Per il resto, la sentenza di appello risulta correttamente ed approfonditamente motivata e le doglianze conclusive del ricorrente tendono ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione esente da vizi logici giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento, soffermandosi opportunamente sulla ridotta attendibilità della teste P. (sulle cui dichiarazioni si era fondata la decisione di condanna in primo grado), con adeguata giustificazione delle sue valutazioni.

Il ricorso, inoltre, pare doversi ritenere tardivo; la sentenza impugnata è stata emessa all’udienza del 9 aprile ed il giudice ha indicato in trenta giorni il termine per il deposito della motivazione, che è stata successivamente depositata (nel predetto termine) il 10 aprile. Ne consegue che il termine di 45 giorni per proporre impugnazione (ex art. 585, comma 1, lett. C) decorreva dalla scadenza dei trenta giorni dalla lettura del dispositivo e cioè dal 9 maggio. Il termine di impugnazione è dunque scaduto il 23 giugno del 2010, mentre l’atto di impugnazione (sul quale non risulta stranamente apposta alcuna data) è stato depositato presso la cancelleria del giudice di pace di Taormina il 2/07/2010 e pervenuto alla cancelleria del tribunale di Catania, sezione di Mascalucia, il successivo 9 luglio. Il ricorso, dunque, deve essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

La corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 a favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-04-2012, n. 6533 Accertamento

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Svolgimento del processo

L’agenzia delle entrate ricorre per cassazione, con due motivi, nei confronti della sentenza della commissione tributaria regionale della Sicilia, n. 105/14/2008, che ha accolto l’appello di Hera s.p.a. avverso la decisione con la quale la commissione tributaria provinciale di Agrigento aveva dichiarato l’inammissibilità di un ricorso avverso un avviso di accertamento.

L’intimata ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

Dalla sentenza risulta:

che la controversia era relativa all’impugnazione dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS) avente a oggetto, quanto all’annualità 1999, l’Iva, l’Irpeg e l’Irap;

– che l’atto aveva invero contestato l’indetraibilità (1) di costi per il personale fornito da altra società (capogruppo), (2) di vari costi per prestazioni professionali e per perdite su crediti non deducibili, (3) infine dell’Iva su fatture per (altre) prestazioni professionali;

– che, quanto all’impugnativa dell’accertamento detto, la controversia era stata decisa in primo grado, dalla commissione provinciale di Agrigento, con sentenza n. 269/05/2005 del 28/9/2005.

A fronte delle riferite emergenze, il ricorso viceversa: (a) descrive il fatto sostanziale controverso come relativo a "l’avviso di accertamento n. (OMISSIS)" sul presupposto che con esso era stata contestata "l’indetraibilità dell’Iva di L. 816.000 relativa ad una fattura di prestazione professionale ritenuta non inerente all’attività e di L. 15.000.000 su una nota di credito emessa nei confronti della SE.BO. s.r.l. in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, comma 3"; (b) descrive altresì il fatto processuale attinente alla fase decisionale del giudizio di primo grado come riferito alla sentenza della commissione provinciale di Agrigento "n. 270/05/05, pronunciata il 13/07/05".

Consegue che non v’è attinenza tra l’esposizione sommaria del fatto, che compare in seno al ricorso per cassazione, e l’oggetto del giudizio deciso dalla commissione tributaria regionale a mezzo della sentenza impugnata.

Tanto determina una violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 (v. ex multis Cass. n. 7825/2006; n. 4403/2006; n. 2831/2009), con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione. Rimane assorbito l’esame dei motivi. Spese alla soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.500,00, di cui Euro 100,00 per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2012, n. 8298 Dimissioni

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Svolgimento del processo

L.G., a seguito di procedimento cautelare a lui favorevole, riassunse il giudizio nei confronti della ex datrice di lavoro Denso Thermal Systems spa, chiedendo l’annullamento delle dimissioni che, asseritamente, aveva rassegnato cedendo alla pressione psicologica e alla minacce di licenziamento e di arresto rivoltegli dal capo del personale e dal responsabile della sicurezza aziendale, avanti ai quali era stato condotto a seguito del rinvenimento, nei locali dell’impresa, di un pacchetto di sigarette nel quale aveva riposto la propria tessera budget, la carta bancomat e una modica quantità di marijuana.

Il primo Giudice respinse la domanda e il gravame svolto dal L. venne rigettato dalla Corte d’Appello di Napoli con sentenza del 30.6- 23.9.2009.

A sostegno del decisum la Corte territoriale osservò che:

– non vi era prova che la parte datoriale avesse indotto il lavoratore a rassegnare le dimissioni mediante violenza o altra minaccia, tale da viziare il suo consenso; anzi era stato proprio il lavoratore a offrire le dimissioni in cambio della possibilità di evitare l’inizio di un procedimento disciplinare a suo carico ed una denuncia, le quali avrebbero determinato la pubblicità del caso e la lesione della sua reputazione;

– dalle risultanze testimoniali era risultato che era stato lo stesso lavoratore, una volta ammessa l’appartenenza della sostanza stupefacente, a prospettare la possibilità di dimettersi, tanto che era stato invitato a riflettere sul punto, dando comunque una risposta entro la serata; non vi era stata pertanto conferma della versione resa dal lavoratore circa le modalità intimidatorie asseritamente utilizzate nei suoi confronti;

– la parte datoriale si era in effetti limitata a preannunciare l’inizio di un procedimento cautelare, dall’esito peraltro nient’affatto scontato, e la possibilità di denunciare l’accaduto;

– il fatto era indubbiamente rilevante sul piano disciplinare (introduzione di sostanze stupefacenti in ambito lavorativo) e penale (la circostanza del rinvenimento di sostanze stupefacenti, ancorchè di modica quantità, non involgendo di per sè solo un uso personale);

– avendo poi in un primo tempo il lavoratore negato l’appartenenza della sostanza e, quindi, anche un suo utilizzo personale, giustamente il responsabile aziendale aveva dato immediata disposizione di denunziare l’accaduto alle forse di polizia, posto che il fatto fino a quel momento accertato integrava gli estremi di un reato procedibile di ufficio;

– una volta che il L. ebbe ammesso l’appartenenza degli stupefacenti rinvenuti, del tutto legittimamente la parte datoriale riconsiderò la vicenda, riservandosi la possibilità di denunziare o meno l’accaduto;

– pertanto la minaccia, nei termini descritti nel ricorso introduttivo, di arresto immediato e di licenziamento, di divulgazione della vicenda in ambito familiare e lavorativo, da evitarsi con le dimissioni, così come l’impossibilità di contattare soggetti qualificati per consigliarsi, non avevano trovato alcun riscontro in sede processuale; – nell’accertato contesto, essendo intervenute le dimissioni al di fuori di ogni intimidazione o violenza giuridicamente rilevanti, doveva ritenersi del tutto legittimo l’accordo intervenuto nell’occasione.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, L. G. ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo. L’intimata Denso Thermal Systems spa ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1434 e 1435 c.c., nonchè vizio di motivazione, deducendo che la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se l’iniziativa personale di esso ricorrente fosse stata eterodeterminata dal comportamento coercitivo e comunque intimidatorio della parte datoriale, considerando tutte le particolarità del caso concreto;

anche la rappresentazione di fare uso dei proprio diritto può infatti qualificarsi come minaccia, se tale uso violi i doveri di correttezza e buona fede e, nel caso di specie, a seguito delle rese dimissioni, la parte datoriale aveva omesso di comunicare l’accaduto all’Autorità giudiziaria; il comportamento datoriale era stato quanto meno sproporzionato rispetto alla concreta dinamica dei fatti e non poteva esser considerato legittimo, posto che un fatto di rilevanza penale o più in generale un illecito non era proprio configurabile, non costituendo reato la detenzione di stupefacenti per uso personale e dovendo ritenersi che la modesta quantità della sostanza rinvenuta rendeva evidente la sua destinazione ad un uso personale piuttosto che di spaccio; la circostanza che alle dimissioni fosse seguita l’omissione della denuncia stava a dimostrare che la parte datoriale aveva raggiunto il proprio obiettivo di allontanamento del dipendente; l’accordo sottostante alle dimissioni doveva esser considerato quale elemento di coartazione del lavoratore a dimettersi, atteso che anche l’uso strumentale di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere una valenza mediata di coartazione.

2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte le dimissioni del lavoratore, rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, sono suscettibili di essere annullate per violenza morale solo qualora venga accertata – e il relativo onere probatorio è carico del lavoratore che deduca l’invalidità dell’atto di dimissioni – l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso (cfr, Cass., n. 24405/2008); al contempo l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza e l’idoneità della minaccia a coartare la volontà di una persona si traduce in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato (cfr, Cass., n. 13035/2003). Nel caso di specie la Corte territoriale, sulla scorta delle risultanze istruttorie esaminate, ha escluso, così come diffusamente esposto nello storico di lite, che vi fosse stata minaccia di arresto immediato e di licenziamento, rilevando invece che il fatto nella sua materialità era oggettivamente di rilevanza disciplinare e che, riguardo al medesimo, soprattutto per come si era presentato in un primo tempo ai dirigenti aziendali, non potevano neppure essere negati profili di rilevanza penale.

Inoltre, su un piano più generale, va considerato che, secondo il costante orientamento di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie. Per conseguenza il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni dei giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004;

2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002). Al contempo va considerato che, affinchè la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004).

Nel caso all’esame la sentenza impugnata ha esaminato tutte le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite e immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole e che, pur non escludendo la possibilità di altre scelte interpretative anch’esse ragionevoli, è espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14212/2010; 14911/2010).

Per contro il ricorrente, lungi dal dimostrare l’esistenza di vizi logici nelle argomentazioni della Corte territoriale, si limita nella sostanza a prospettare una diversa interpretazione dei fatti, svincolata peraltro da obiettivi e precisi riscontri probatori che valgano a corroborarla. 3. Conseguentemente il motivo – e con esso il ricorso che sul medesimo si fonda – non può trovare accoglimento. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 40,00 (quaranta/00), oltre ad Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari, spese generali, Iva e Cpa come per legge.
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Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 16-11-2011) 06-12-2011, n. 45432 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 6.10.2009, il Tribunale di sorveglianza di Brescia dichiarava inammissibile l’istanza di riabilitazione interposta da M.G., sul presupposto che non era ancora spirato il termine di cinque anni dalla concessione del beneficio della sospensione dell’esecuzione della pena D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 90 (intervenuta il 7.6.2005), con il che il reato per cui aveva riportato condanna con sentenza Corte d’appello Brescia 8.4.2002, non poteva ritenersi estinto, dovendo decorrere, una volta esaurito il quinquennio dalla declaratoria di sospensione dell’esecuzione della pena, altri tre anni.

2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione la difesa dell’istante, per opporre che il reato era stato dichiarato estinto per indulto ex Lege n. 241 del 2006, cosicchè andava ritenuto estinto fin dal 2006, cioè dalla data di entrata in vigore del provvedimento indulgenziale, ragion per cui il triennio doveva intendersi ampiamente decorso.

3. Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso, sulla scorta della circostanza che non risultava esser stato pronunciato alcun provvedimento giurisdizionale di applicazione dell’indulto.

4. Medio tempore è stata depositata memoria della difesa, con cui è stato allegato provvedimento in data 11.11.2011, del Tribunale di Bergamo, di dichiarazione di estinzione per indulto della pena inflitta al M., con sentenza gup Tribunale di Bergamo 7.6.2001, confermata dalla Corte d’Appello di Brescia in data 8.4.2002, definitiva il 23.1.2003.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Poichè la difesa ha fornito la prova che è intervenuta, seppure successivamente al provvedimento impugnato, dichiarazione di applicazione dell’indulto e quindi di estinzione della pena inflitta con la sentenza in relazione alla quale è stata interposta domanda di riabilitazione, deve essere affrontata la questione, prettamente giuridica, relativa alla decorrenza del termine di anni tre, nel senso che va sciolto l’interrogativo se detto termine decorra dalla data di entrata in vigore della legge di concessione dell’indulto, ovvero dal provvedimento giurisdizionale di applicazione. Sul punto va ricordato che diversi arresti hanno concluso optando per la prima soluzione, sul presupposto che l’applicazione dell’indulto ha natura dichiarativa e quindi gli effetti vanno fatti risalire al momento dell’entrata in vigore della legge che lo concede, anche per non condizionare gli effetti del beneficio a fattori del tutto incontrollabili e casuali, quali il momento di applicazione del beneficio che può essere, come è provato nel caso di specie, molto lontano nel tempo, rispetto all’entrata in vigore della legge di concessione dell’indulto (ex multis sez. 1^ 9.12.2010, n. 44574). A tale conclusione deve addivenirsi senza difficoltà e senza grossi sforzi interpretativi, atteso che la sentenza di condanna venne pronunciata ben tre anni prima della legge di concessione dell’indulto. Qualora invece la condanna sia successiva alla legge concessiva dell’indulto, la data da cui inizia a decorrere il termine per la riabilitazione non può mai precedere il momento in cui la sentenza di condanna è divenuta definitiva (Sez. 1^ 6.4.2011, n. 16540): questa profonda differenza di presupposti segna il solo apparente contrasto di decisioni sul punto nella giurisprudenza di questa Corte.

Deve quindi esser annullata l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Brescia, per nuovo esame alla luce del principio di diritto sopra ricordato.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Brescia.

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