T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 24-03-2011, n. 518 Demolizione di costruzioni abusive

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Svolgimento del processo

1. I ricorrenti impugnano l’ordinanza di demolizione delle opere abusive, "come rilevate dalla P.L. con verbale del 24/3/2010", eseguite presso l’abitazione di loro proprietà già condonata e consistenti in: "porticato a piano terra di mq. 44,00 circa con struttura portante di pilastrini in legno e copertura con struttura intelaiata orizzontale in legno e perline e tegole di finitura della superficie coperta di mq. 34,00 circa in ampliamento; manufatto a primo piano con struttura in legno e copertura in tegole da adibire a civile abitazione della superficie di mq. 45,00 circa e volume di mc. 119 circa".

2. A sostegno del gravame deducono i seguenti motivi:

a) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 22, 27, 31, comma 2 e 3, e 32 del d.P.R. n. 380/01, dell’art. 83 delle N.T.A. del P.R.G. di Nardò, dei principi in materia urbanistica, edilizia e di procedimento sanzionatorio nonché dell’art. 3 della l. n. 241/1990;

b) eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, difetto di istruttoria e di motivazione, violazione del principio di affidamento.

3. Si è costituita l’Amministrazione comunale intimata, eccependo l’inammissibilità e concludendo, in via gradata, per il rigetto del ricorso.

4. Con ordinanza n. 676/2010 del 9 settembre 2010, questa sezione ha temporaneamente sospeso gli effetti dell’ordinanza impugnata, ritenendo, a un primo esame, che la stessa dovesse considerarsi illegittima per mancata esatta indicazione dei beni da acquisire al patrimonio comunale in caso di sua inottemperanza.

5. Alla Camera di Consiglio del 13 gennaio 2011 fissata per la trattazione la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

I. Con il primo motivo si deduce che nell’ordinanza di demolizione non è indicata l’area di sedime del porticato al piano terra nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe allo stesso, da acquisire in caso di inottemperanza all’ordine.

La censura non può essere accolta.

Secondo l’orientamento da ultimo espresso da questa sezione, "re melius perpensa", con ciò uniformandosi alla giurisprudenza prevalente, l’indicazione dell’area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, da acquisire al patrimonio comunale "non deve considerarsi requisito dell’ordinanza di demolizione – e dunque la mancanza non ne inficia la legittimità – giacché siffatta specificazione è elemento essenziale del distinto provvedimento con cui l’Amministrazione accerta la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell’ingiunto" (T.A.R. Puglia Lecce, sez. III, 9 dicembre 2010, n. 2809; nello stesso senso, T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 24 marzo 2010, n. 1577).

Infatti, il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione deve essere individuato in relazione alla funzione tipica del provvedimento, che è quella di prescrivere la rimozione delle opere abusive. Pertanto, ai fini della legittimità dell’atto è necessaria e sufficiente l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 9 febbraio 2010, n. 1785).

II. Con il secondo e terzo motivo di ricorso si sostiene che le opere edilizie realizzate non richiederebbero il previo rilascio del permesso di costruire, come ritenuto dall’Amministrazione intimata, ma sarebbe per esse sufficiente una mera denuncia di inizio attività, ex art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, con conseguente impossibilità di irrogare la sanzione demolitoriaripristinatoria di cui all’art. 31 del medesimo decreto.

Anche tali motivi sono infondati.

II.1. Con riferimento al porticato a piano terra, questo costituisce una vera e propria costruzione e, come tale, è soggetto a concessione edilizia e a ingiunzione di demolizione in caso di abusività (T.A.R. Molise Campobasso, sez. I, 10 dicembre 2010, n. 1549). Infatti, per il suo carattere trasformativo e innovativo esso costituisce un manufatto del tutto nuovo idoneo, per dimensioni, consistenza e con riguardo al tipo di copertura, a svolgervi varie attività della vita quotidiana, in quanto tale comportante nuova volumetria, nuova superficie utile e quindi, per la sua realizzazione, il previo rilascio del permesso di costruire (Consiglio Stato, sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7481; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 18 giugno 2010, n. 2107).

II.2. Quanto alla sopraelevazione mediante realizzazione di un manufatto sul solaio di copertura del piano terra dell’abitazione, se è vero che l’art. 10, comma 1, lett. c), del t.u. prevede la possibilità di ristrutturazioni che comportino modifiche di volume, sagoma, prospetti o superfici, subordinando interventi di questo tipo, alternativamente, a permesso di costruire ovvero a DIA, ex art. 22, comma 3, lett. a), va preliminarmente puntualizzato che la sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, auspicata dai ricorrenti, risulta testualmente limitata alla sola realizzazione di interventi edilizi di cui all’articolo 22, commi 1 e 2, con esclusione, dunque, della c.d. ristrutturazione pesante di cui al comma 3, invocata, per la quale resta salva, in relazione all’intervento abusivo realizzato, l’applicazione delle sanzioni demolitorie di cui agli articoli 31, 33 e 34 del decreto citato.

Fatta tale premessa di principio, ciò non significa che qualsiasi ampliamento abusivo di edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto alla fattispecie della ristrutturazione. Al contrario, un intervento abusivo che sia tale, per dimensioni e consistenza, da snaturare le caratteristiche dell’edificio originario, quale la sopraelevazione, è legittimamente sanzionato a termini dell’art. 31 del testo unico, che qualifica come "interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile" (comma 1), sanzionando con la rimozione o la demolizione – e, in caso di inottemperanza, con l’acquisizione di diritto del bene alla mano pubblica – "l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’art. 32"(T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 18 giugno 2010, n. 2107).

Inoltre, ancorché entrambe le opere, a piano terra e al primo piano, siano realizzate con materiali di facile rimozione, prevalentemente in legno, deve escludersene la precarietà, atteso che la destinazione impressa è finalizzata a fornire un’utilità prolungata nel tempo, nello specifico, a fini abitativi, con stabile alterazione dello stato del territorio e conseguente necessità del rilascio di specifica concessione edilizia. Tanto ciò è vero che l’art. 3, lett. e.5) definisce "interventi di nuova costruzione", subordinati, come tali, a permesso di costruire, l’installazione di manufatti leggeri, di prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.

III. Con il quarto motivo di ricorso le parti lamentano il difetto di motivazione del provvedimento impugnato anche alla luce del lungo lasso di tempo intercorso dalla realizzazione dell’abuso.

Il motivo è privo di pregio.

III.1. L’ordinanza di demolizione gravata risulta adeguatamente motivata in ordine ai presupposti di fatto ("opere realizzate abusivamente senza permesso di costruire") e alle ragioni giuridiche con richiamo alle norme violate e alle conseguenze sanzionatorie ivi previste (art. 31, d.P.R. n. 380/2001), che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione (sanzione ripristinatoria) in relazione alle risultanze dell’istruttoria (sopralluoghi del tecnico comunale e della Polizia locale).

III.2. Quanto alla presunta violazione dell’affidamento ingeneratosi per il lasso di tempo decorso dagli interventi contestati, secondo orientamento prevalente dal quale il Collegio non vede ragioni per discostarsi, "l’ordine di demolizione, in quanto atto vincolato, è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata irregolarità dell’intervento, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso – anche se risalente nel tempo – senza necessità di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti o sacrificati" (T.A.R. Veneto Venezia, sez. II, 13 maggio 2009, n. 1454), "non potendo l’abuso giustificare alcuna aspettativa del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare" (T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 6 settembre 2010, n. 17306; nello stesso senso Consiglio Stato, sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955).

Vero è che quella stessa giurisprudenza fa comunque "salva l’ipotesi in cui, per il protrarsi e il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi della inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi questa sola, in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato" (Consiglio Stato, sez. IV, 6 giugno 2008, n. 2705).

Nel caso specifico, tuttavia, il decorso del decennio, tra l’altro, riferito dalle stesse parti alla sola realizzazione del porticato e non anche alla sopraelevazione, più recente, non appare sufficiente a determinare la convinzione, sia pure errata, della intrinseca legittimità delle opere tanto da determinare la necessità di una motivazione più articolata.

IV. Per le ragioni che precedono, il Collegio respinge il ricorso.

V. Peraltro, la fattispecie presenta tratti di peculiarità tali da indurre il Collegio a compensare integralmente fra le parti le spese e competenze del giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Terza, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa tra le parti le spese e competenze di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 11-07-2011, n. 15193 onorari

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i inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo

L’Avvocato Monica Genovese ha chiesto al Tribunale di Palermo la liquidazione dei compensi per l’attività prestata, quale difensore di G.R., collaboratore di giustizia inserito nello speciale programma di protezione, parte civile costituita nell’ambito di un procedimento penale.

Il Tribunale di Palermo, con provvedimento depositato in data 3 giugno 2008, ha rigettato la domanda.

Avverso detto provvedimento il G. ha proposto ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 99 (T.U. disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia).

Il Presidente del Tribunale di Palermo, con ordinanza depositata il 27 aprile 2009, ha rigettato il ricorso.

Per la cassazione di detta ordinanza l’Avvocato Genovese e G. R. hanno proposto ricorso, con atto non notificato ad alcuno, depositato nella cancelleria del giudice a quo il 6 maggio 2009.

Il ricorso è affidato ad un unico motivo – privo del conclusivo quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ. (ratione temporis applicabile) – con il quale si denuncia violazione di legge.

La causa è stata trattata all’udienza pubblica del 10 giugno 2010, all’esito della quale questa Corte, con ordinanza n. 16162 del 2010, rilevato che il ricorso, conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ora stato proposto nelle forme del rito penale e che, invece, a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite n. 19161 del 2009, lo stesso doveva essere proposto nelle forme del rito civile, ha assegnato alla parte ricorrente il termine perentorio di giorni sessanta dalla comunicazione della medesima ordinanza per proporre e notificare ricorso per cassazione secondo le forme del codice di procedura civile, e il termine perentorio di giorni venti dalla notificazione per il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte.

La trattazione del ricorso è stata quindi fissata per la pubblica udienza del 22 marzo 2011.
Motivi della decisione

Rileva preliminarmente il Collegio che dalla certificazione della Cancelleria in data 19 gennaio 2011, emerge che nei termini indicati nell’ordinanza interlocutoria n. 16162 del 2010 non risulta essere stato presentato alcun ricorso con le forme del rito civile.

Il ricorso, dunque, deve essere dichiarato inammissibile perchè proposto nelle forme del rito penale e non notificato ad alcuno.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, non essendo il ricorso stato notificato ad alcuno.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-01-2011) 03-05-2011, n. 17130 Reato continuato e concorso formale

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rinvio del provvedimento impugnato.
Svolgimento del processo

Con ordinanza del 3.6.2010, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari dispose la custodia cautelare in carcere di 42 persone, alcune delle quali gravemente indiziate anche del reato associativo, oltre che di ipotesi di spaccio continuato in concorso di sostanze stupefacenti, tra i quali P.A., indagato per i reati di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.

Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, e il Tribunale di Bari, con ordinanza del 24.6.2010, dichiarava la nullità dell’ordinanza impugnata, rilevando che il Gip si era limitato ad una pedissequa riproduzione della richiesta di misura cautelare avanzata dalla Procura della Repubblica di Bari, la quale a sua volta, si era limitata a riprodurre l’informativa di polizia giudiziaria.

Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, Direzione Distrettuale Antimafia, deducendo l’erronea rilevazione di ufficio della insussistente nullità prevista dall’art. 292 c.p.p., comma 2, e l’omesso esercizio del potere dovere di integrazione attribuito al Tribunale del riesame dall’art. 309 c.p.p., comma 9. Rileva, al riguardo, il ricorrente che il Tribunale di Bari ha annullato il provvedimento in quanto il giudice per le indagini preliminari avrebbe svolto il processo motivazionale previsto dall’art. 292 c.p.p., lett. c) e c bis), limitandosi a far propri i contenuti dell’informativa della polizia giudiziaria a sua volta riprodotta nella richiesta cautelare del pubblico ministero, ed ha quindi ritenuto inesistente la necessaria motivazione del titolo cautelare, anche sotto il profilo delle esigenze cautelari, valutate in modo generico e cumulativo, e senza alcuna considerazione del tempo trascorso dalla commissione dei fatti, peraltro ricompresi nell’ambito dell’operatività dell’indulto. Il Tribunale ha omesso però di considerare che: 1) la richiesta cautelare del pubblico ministero riporta in calce ad ogni singola imputazione provvisoria le pagine in cui viene trattata quella singola imputazione; 2) la richiesta cautelare in questione non si è affatto limitata a riprodurre l’informativa della polizia giudiziaria, come dimostra il fatto che non è stata accolta la richiesta di misura nei confronti di alcuni indagati, e le misure richieste sono state calibrate considerando le posizioni di ogni singola persona; 3) sono state redatte dalla polizia giudiziaria, con l’annotazione di indagine n. 484/268-1 del 4.10.2007, le schede personali relative ad ogni singola persona interessata dalla richiesta cautelare, e le schede in parola, aggiornate al settembre 2007, costituiscono acquisizioni investigative rilevanti in relazione alla valutazione delle esigenze cautelari relative ad ogni singola persona sottoposta alle indagini. Il giudice per le indagini preliminari, dopo aver richiamato, a pagina 27 dell’ordinanza i gravi indizi relativi alle provvisorie imputazioni, così riportando nel provvedimento cautelare una serie di dati in puro fatto, già scrutinati e valorizzati dal pubblico ministero, ha poi testualmente affermato che "quanto sopra ritrova la totale condivisione di questo GIP che, quindi, si richiama alla richiesta medesima ad ogni effetto di legge. Anche riguardo alle richieste cautelari si condividono pienamente le considerazioni svolte dai p.m. richiedenti"; le affermazioni in questione, pur nella loro stringatezza, non consentono in alcun modo di ritenere insussistente il vaglio critico e di sostenere che il giudice della cautela abbia acriticamente riportato nel provvedimento custodiale genetico documenti di polizia giudiziaria affastellati dal pubblico ministero. D’altra parte, attesa la dimostrata certa presenza, ancorchè in nuce, nel provvedimento del g.i.p. di un apparato argomentativo fondante lo scrutinio e l’accoglimento delle tesi accusatorie del pubblico ministero, il Tribunale del riesame avrebbe potuto e dovuto integrare il provvedimento genetico, nelle parti ritenute insufficientemente motivate.

Chiede pertanto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato, e va pertanto rigettato.

Ben è vero che – secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale citato dal ricorrente e condiviso dal Collegio – il coordinamento dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c) bis (in base al quale a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio, il giudice nell’ordinanza cautelare deve esporre le specifiche esigenze cautelari e la necessità della custodia in carcere, esponendo i motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa) e quello dell’art. 309 c.p.p., comma 9 (in base al quale il tribunale può anche confermare il provvedimento cautelare per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dei provvedimento stesso) va stabilito nel senso che al tribunale del riesame deve essere riconosciuto il ruolo di giudice collegiale e di merito sulla vicenda "de libertate", e pertanto allo stesso non è demandata tanto la valutazione della legittimità dell’atto, quanto la cognizione della vicenda sottostante e, quindi, primariamente, la soluzione del contrasto sostanziale tra la libertà del singolo e la necessità coercitiva. Ne consegue che la dichiarazione di nullità dell’ordinanza impositiva è certamente l’ultima "ratio" delle determinazioni adottabili. Tale nullità, invero, può essere dichiarata solo ove il provvedimento custodiale sia mancante di motivazione in senso "grafico", ovvero ove, pur esistendo una motivazione in tal senso, essa si risolva in clausole di stile, onde non sia possibile, interpretando e rivalutando l’intero contesto, individuare le esigenze cautelari il cui soddisfacimento si persegue (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 2, sent. n. 39383/2008 Rv. 241868).

Inoltre, quando un provvedimento non si limita a richiamare altro atto, ma ne recepisca graficamente il contenuto, non può certo dirsi che "manchi" di motivazione, dovendo, piuttosto, equipararsi la situazione al caso di motivazione "per relationem", e cioè del provvedimento che richiami il contenuto di diverso atto, facendone propria la motivazione. E sulla motivazione "per relationem" da parte del G.I.P. alla richiesta del P.M si sono espresse le SS.UU. di questa Corte, con la sentenza n. 17 del 21 giugno 2000, ritenendola legittima, semprechè l’atto di riferimento sia conosciuto o conoscibile dall’interessato, la motivazione, contenuta nell’atto di riferimento, risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria al provvedimento di destinazione e sia chiaro che il decidente abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni del provvedimento di riferimento ritenendole coerenti alla sua decisione.

Orbene – tanto premesso – rileva il Collegio che, nella specie, l’atto richiamato dal Giudice per le indagine preliminari, integralmente riprodotto, è costituito dall’informativa di polizia giudiziaria, già recepita nella richiesta di misura avanzata dalla Procura, e che espone, secondo un mero ordine cronologico, l’esito delle intercettazioni telefoniche e delle altre attività di polizia giudiziaria.

In assenza di una qualsivoglia, seppur sintetica, analisi effettuata dal Giudice del riesame, per ogni singolo indagato, a fronte degli elementi indicanti l’attività di spaccio e, dove ravvisato, del suo collocamento all’interno dell’associazione per delinquere, nonchè delle esigenze cautelari in riferimento al tempo dei commessi reati in riferimento agli episodi di spaccio (reati collocati, peraltro, in un arco temporale non recente, e che va dal (OMISSIS)) e alle condotte degli indagati in epoca successiva al deposito dell’informativa di polizia giudiziaria nel giugno 2007, correttamente il Tribunale del Riesame ha ritenuto di non poter integrare la motivazione dell’impugnato titolo custodiale. Nè l’avrebbe potuto, e dovuto fare, sulla scorta delle "schede personali" di cui al ricorso, relative ad ogni singola persona e redatte dalla polizia giudiziaria nel settembre 2007 (e quindi quasi tre anni prima dell’ordinanza custodiale del 3.6.2010), dal momento che le stesse, pur costituendo acquisizioni investigative certamente rilevanti ai fini sia della richiesta della misura che del provvedimento custodiale, non possono però sostituire la valutazione degli indizi e delle esigenze cautelari, che è propria dell’ufficio requirente prima e del giudice delle indagini preliminari dopo, e che ben può esprimersi, per evidenti esigenze di economia processuale, anche "per relationem", ma che deve comunque essere attuale e contenere quel minimo di enucleazione degli elementi essenziali e individualizzati atti a consentire, da un lato, un’adeguata difesa all’indagato in riferimento alla fattispecie di reato contestata e, dall’altro, la verifica della sufficienza argomentativa ai Giudici del riesame.

Nè d’altra parte dallo stesso tenore delle deduzioni del ricorrente emerge in alcun modo che il giudice delle indagini preliminari abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento, in ordine ad ogni singolo indagato, e le abbia quindi meditate e ritenute coerenti con la sua decisione, risultando a tal fine del tutto irrilevante il breve inciso riportato in ricorso (e riferito senza distinzione alcuna a tutti gli indagati, e ciò a prescindere dal fatto che fosse contestata l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e/o quella di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, con le relative conseguenze sul piano dell’automatismo cautelare), e definito dallo stesso ricorrente apparato argomentativo "in nuce".
P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-09-2011, n. 19229 Contratto a termine

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sospensione del giudizio in attesa decisione Corte Costituzionale.
Svolgimento del processo

Con sentenza del 24/1/02 il giudice del lavoro del Tribunale di Roma, nell’accogliere la domanda proposta da P.S. nei confronti delle Poste Italiane s.p.a, dichiarò la nullità dei termini apposti ai contratti intercorsi tra le partì e, per l’effetto, accertò che il rapporto di lavoro era da intendersi a tempo indeterminato a decorrere dal 23/2/98, condannando la società convenuta a ripristinarlo e a corrispondere alla ricorrente le retribuzioni sin dalla messa in mora del 27/3/2000.

A seguito di impugnazione della società la Corte d’appello di Roma riformò parzialmente tale decisione con sentenza del 29/5 – 13/7/06, dichiarando che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 20/10/98, anzichè dal 23/2/98, mentre la confermò nel resto, compensando tra le stesse anche le spese del grado.

La Corte territoriale pervenne a tale decisione dopo aver ritenuto che era legittima l’apposizione del termine ai primi due contratti, stipulati rispettivamente per la ricorrenza delle esigenze eccezionali di cui all’art. 8 del ccnl del 26/11/94 (periodo 23/2 – 30/4/98) e per l’espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie (periodo 1/7 – 30/9/98), mentre era illegittima solo l’apposizione del termine al terzo contratto stipulato in relazione al periodo 20/10/98 – 30/1/99 per la medesima causale di cui al primo contratto.

Avverso tale sentenza propone ricorso in cassazione la società Poste italiane s.p.a che affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso la P., la quale propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato ad un motivo di censura al cui accoglimento si oppone la società postale.

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

1. Col primo motivo del ricorso principale vengono denunziati i seguenti vizi della sentenza: "Violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1362 c.c., e segg.; violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 425 c.p.c.;

insufficiente e contraddittoria motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla efficacia dell’accordo del 25/9/1997, integrativo dell’art. 8 ccnl 1994.

La ricorrente ritiene, in particolare, che la questione relativa alla sussistenza o meno di un limite temporale dell’accordo sindacale del 25/9/97, vale a dire la data del 30/4/1998, non abbia ancora trovato una uniforme soluzione, nè tantomeno nel senso prospettato, a suo parere erroneamente, dalla Corte territoriale.

Ciò premesso la società Poste Italiane s.p.a. chiede che questa Corte enunci i seguenti principi di diritto:

a) "L’accordo del 25 settembre 1997 non contiene, in sè, alcuna limitazione temporale, in quanto integrativo della disciplina del CCNL, per cui ha efficacia per l’intera durata di questo". b) " Gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25/9/1997 e sino al 18/1/2001, non avevano natura negoziale bensì meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare o meno ulteriori contratti a termine". c) "I termini individuati negli accordi successivi a quello del 25/9/1997 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo". d) "La posizione giuridica attiva affermata in giudizio meritevole di tutela può definirsi "diritto quesito" e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche qualora l’accertamento preliminare della sua esistenza non sia stata ancora oggetto di verifica giudiziale per il tramite di sentenza passata in giudicato".

Il motivo è infondato.

Osserva, invero, il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’ultimo dei tre contratti intercorsi tra le parti è stato stipulato, per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998, vale a dire il 19/10/98 per il periodo 20.10.98-30.1.99.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto "de quo".

Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del ccnl 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto "de quo", risultando superfluo l’esame di ogni altra censura al riguardo.

2. Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1233 c.c..

In particolare, ci si lamenta del fatto che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto conto della possibilità che la lavoratrice abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.".

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15/2/2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Così risultato inammissibile il motivo riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore da 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso principale va, pertanto, rigettato.

3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale è dedotta la violazione dell’art. 8 del ccnl dei dipendenti dell’ente Poste Italiane del 26/11/1994 e dell’art. 1362 c.c., e segg., nonchè della L. n. 230 del 1962, artt. 1, 2 e 3 (art. 360 c.p.c., n. 3).

Si ritiene, in relazione al secondo contratto intercorso tra le parti nel periodo 1/7 – 30/9/98, che il solo dato del periodo temporale giugno-settembre era insufficiente a giustificare, in mancanza della prova della carenza di personale dovuta alla fruizione massiccia delle ferie da parte dei dipendenti in ruolo presso l’ufficio di destinazione della ricorrente, il ricorso alla tipologia del contratto a termine per la sostituzione di personale assente per ferie.

Tale censura è priva di fondamento atteso che non sussistono le violazioni denunciate con riferimento sia alla norma di legge che a quella contrattuale.

Questa Corte intende, infatti, ribadire la propria giurisprudenza, formatasi nel vigore dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, nella sua originaria formulazione (cfr., fra le ultime, Cass. 2 marzo 2007 n. 4933), la quale, con riferimento ad una fattispecie simile a quella in esame, ha cassato la sentenza di merito che aveva affermato la necessità di uno specifico collegamento fra il singolo contratto e le esigenze aziendali; siffatta sentenza, ad avviso della S.C., era infatti viziata da violazione di norme di diritto e da un vizio di interpretazione della normativa collettiva.

La violazione di norme di diritto è stata individuata nella statuizione con la quale la sentenza di merito aveva negato che l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva fosse del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie; è stato rilevato in proposito che siffatta pronuncia del giudice del merito si poneva in contrasto col principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588; in base al suddetto principio, infatti, la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, che demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge.

Per quanto concerne il vizio di interpretazione della normativa collettiva è stato osservato che la statuizione del giudice del merito, nell’escludere che l’autorizzazione conferita dal contratto collettivo possa contemplare, quale unico presupposto per la sua operatività, l’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie, ha dimostrato una carenza di indagine sull’intenzione espressa dagli stipulanti; ed infatti il quadro legislativo di riferimento impone l’esame del significato delle espressioni usate dalle parti stipulanti, ed in particolare un’indagine sulle ragioni dell’uso di una formula diversa da quella della legge, priva di riferimenti alla sostituzione di dipendenti assenti, sostituiti dalla precisazione del periodo per il quale l’autorizzazione è concessa (pur potendo le ferie essere fruite in periodi diversi), onde verificare se la necessità di espletamento del servizio faccia riferimento a circostanze oggettive, o esprima solo le ragioni che hanno indotto a prevedere questa ipotesi di assunzione a termine, nell’intento di considerarla sempre sussistente nel periodo stabilito, in correlazione dell’uso dell’espressione in concomitanza; inoltre, altre decisioni di questa Suprema Corte (cfr. ad esempio Cass. 6 dicembre 2005 n. 26678) hanno confermato la decisione di merito che, decidendo sulla stessa fattispecie, aveva ritenuto l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie e interpretato l’autorizzazione conferita dal contratto collettivo nel senso che l’unico presupposto per la sua operatività fosse costituita dall’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie.

Atteso che la sentenza impugnata ha interpretato correttamente la normativa in esame, avendo fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, il ricorso incidentale deve essere rigettato.

La reciproca soccombenza delle parti induce la Corte a ritenere compensate tra le stesse le spese del presente giudizio.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Spese compensate.

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