Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-08-2012, n. 14654

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Svolgimento del processo
S.R., con atto di citazione del 1 settembre 1993, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Cremona, la cognata R.F. e, premesso di essere erede insieme al fratello B. della madre C.M., chiedeva che venisse accertata la nullità, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., della cessione di alcuni titoli di credito, operata dalla madre sul conto bancario della convenuta e che, pertanto, la convenuta fosse condannata alla restituzione nella misura della metà corrispondente alla quota ereditaria ad esso attore della somma di L. 150.000.000, nonchè, analoga pronuncia nel caso di accertamento, nel corso dell’istruttoria della trasmissione di ulteriori somme dalla madre alla sig.ra R.. Precisava l’attore che la madre nei 1992 aveva disposto l’accredito sul conto corrente aperto presso il credito commerciale di xxx intestato alla nuora R.F. del valore dei titoli di credito a suo nome scaduti. Assumeva che tale operazione integrava gli estremi di un mutuo, ovvero, di una donazione nulla per difetto di forma.
Si costituiva R.F. contestando la ricorrenza di un’ipotesi di mutuo o di donazione in quanto aveva ricevuto tali titoli in esecuzione di disposizione fiduciaria.
Il Tribunale di Cremona con sentenza n. 554 del 2002, ritenuto non provato il titolo di mutuo o di donazione sottostante il trasferimento delle somme di denaro, respingeva la domanda proposta dall’attore e compensava interamente le spese giudiziali tra le parti.
Con atto di citazione, notificato sia alla R.F. che alla Banca di credito cooperativo xxx, S.R., proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Cremona e avverso l’ordinanza camerale dello stesso Tribunale del 18 aprile 2002 con la quale era stato respinto il reclamo da lui proposto avverso il diniego di sequestro documentale, chiedendone la integrale riforma.
R.F. restava contumace, mentre la Banca di Credito Cooperativo xxx si costituiva rilevando la sua estraneità al giudizio.
La Corte di Appello di Brescia con sentenza n. 25 del 2006 dichiarava inammissibile la citazione della Banca di Credito Cooperativo xxx, respingeva l’appello e confermava integralmente la sentenza del Tribunale di Cremona. A sostegno di questa decisione, la Corte bresciana osservava: a) che la Banca di Credito Cooperativo xxx, non poteva essere parte nel giudizio di appello perchè non era mai stata parte nel giudizio di primo grado; b) che incombeva su S. l’onere di provare non solo il fatto oggettivo della cessione di titoli senza corrispettivo, ma anche l’animus donandi considerato che non ogni attribuzione patrimoniale gratuita integra una donazione ma solo quella fatta per spirito di liberalità. Tale prova non era stata raggiunta, mentre risultava l’esistenza di una pluralità di rapporti economici tra le parti astrattamente idonei a giustificare il trasferimento di somme di denaro al di fuori dell’ipotesi di donazione.
La cassazione della sentenza della Corte di Appello di Brescia è stata chiesta da S.R., con ricorso affidato ad un motivo. R.F. regolarmente intimata, in questa fase non ha svolto alcuna attività difensiva.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo S.R., lamenta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Avrebbe errato la Corte bresciana, secondo il ricorrente, nell’aver ritenuto non provato la spirito di liberalità mentre sarebbe parsa plausibile la tesi circa l’intestazione fiduciaria che delle somme in questione la convenuta R.F. avrebbe fatto alla C.M., perchè avrebbe trascurato di considerare che, mentre esisteva piena e sicura prova dei trasferimenti di somme di denaro dalla C. alla R., nulla di ragionevolmente plausibile era emerso circa il negozio in virtù del quale quelle somme di denaro sarebbe fiduciariamente intestate alla C.. In verità, specifica il ricorrente, i Giudici del merito avrebbero fondato il loro convincimento sulle deposizioni rese dal marito e dalla madre della convenuta le quali affermavano che S.B. avrebbe investito somme di denaro (circa un centinaio di milioni) in titoli intestando il dossier alla madre (scilicet C.M.). Ora, ritenere provato, sempre secondo il ricorrente – "sulla mera scorta di tale risultanze istruttorie, l’assunto della R.F. circa la pretesa intestazione fiduciaria alla C. delle somme che da quest’ultima, invece, sono documentalmente risultate trasferite alla R., non può non apparire del tutto privo di logica giuridica onde inoppugnabilmente viziata in radice ex art. 116 c.p.c., comma 1 ne risulterebbe la conclusione cui è pervenuta la Corte del merito".
1.1. Il motivo è infondato e non può essere accolto, non solo perchè si risolve nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie che non può essere proposta nel giudizio di cassazione, ma, soprattutto, perchè la sentenza impugnata indica sufficientemente le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione e comunque una razionale, articolata e convincente valutazione dei dati processuali acquisiti.
1.1.a). A bene vedere, nel caso in esame, l’istruttoria, in una sua considerazione unitaria evidenziava che S.B. "quando l’attività del maglificio R. andava molto bene (…) aveva investito somme di denaro (circa un centinaio di milioni) in titoli intestando il dossier alla madre che tra la R. e la C. e S.B. intercorrevano rapporti anche economici plurimi, che la C. convivente con il figlio e la nuora aiutava nel negozio (della R.) e si occupava anche dell’acquisto di capi di abbigliamento, la cui gestione economico – contabile del negozio, tuttavia, faceva capo a S.B.. Sicchè appare del tutto convincente ritenere – come ha chiarito la Corte bresciana che da un verso l’istruttoria non evidenziava alcun elemento a sostegno della tesi della dazione di denaro per spirito di liberalità e, al contrario, anche in via presuntiva indicava l’esistenza degli estremi di un negozio con pactum fiduciae tra C., S. e la R..
1.1.b). Come è opinione anche della dottrina dominante, il negozio fiduciario è il negozio con il quale un soggetto (il fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (il fiduciario) la titolarità di un diritto, il cui esercizio viene limitato da un accordo tra le parti (pactum fiduciae) per uno scopo che il fiduciario si impegna a realizzare, ritrasferendo poi il diritto allo stesso fiduciante o ad un terzo beneficiario. La fattispecie si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, e, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il factum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà della forma.
1.1.c). Ora, nel caso in esame l’attribuzione di somme di denaro dalla C. alla R. solo apparentemente era senza alcuna ragione giustificativa, perchè i rapporti tra le parti interessate – come è stato indicato dalla prova testimoniale – chiariva che quell’attribuzione, ragionevolmente, era effettuata in ragione e in forza di un obbligo che la C. aveva assunto con il fiduciante S.B. e non invece, per spirito di liberalità.
In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., condannato ai pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che verranno liquidate con il dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese giudiziali che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2^ Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. II 21-03-2007 (08-03-2007), n. 11935 Riqualificazione del fatto – Reato più grave – Esclusione della estinzione per prescrizione

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MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del Tribunale di Gorizia in data 1 marzo 2004 T. M. veniva dichiarato responsabile del delitto di furto, così qualificato l’originario addebito di ricettazione, e condannato alla pena di mesi 8 di reclusione ed Euro 400,00 di multa.
Proponeva appello l’imputato, deducendo anzitutto la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza e n secondo luogo l’eccessività della pena inflitta.
Con sentenza 30 gennaio 2006 la Corte d’Appello di Trieste confermava la sentenza impugnata, pur riqualificando il fatto come ricettazione, conformemente all’originaria rubrica.
Ricorre il T. a questa Suprema Corte, deducendo:
la sentenza di primo grado doveva essere dichiarata nulla per violazione dell’art. 521 c.p.p., e il giudice d’appello non poteva riqualificare il fatto come ricettazione lasciando immutata la pena, altrimenti quest’ultima sarebbe divenuta illegale perchè inferiore al minimo di legge previsto dall’art. 648 c.p.;
la riqualificazione del fatto come ricettazione costituiva comunque reformatio in pejus, indipendentemente dalla pena in concreto applicata, poichè allungava i termini di prescrizione rispetto al furto concretamente giudicato, che a seguito della concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti si sarebbe prescritto nell’agosto 2006.
Non era stato in alcun modo esplicitato il calcolo della pena;
la motivazione della sentenza impugnata con la quale si perveniva alla qualificazione ex art. 648 c.p.p., era afflitta da illogicità e contraddittorietà.
Il ricorso non è fondato.
Il principio di correlazione tra accusa e sentenza stabilito nell’art. 521 c.p.p., è funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa, sicchè la sua violazione non può essere semplicisticamente riscontrata con il mero confronto tra la fattispecie astratta contestata e quella ritenuta in sentenza, occorrendo invece che sia accertato un rapporto di effettiva eterogeneità dei due fatti storici, che abbia determinato la reale diminuzione delle possibilità di difesa. Effettivamente la derubricazione della ricettazione in furto parrebbe contrastare col precedente giurisprudenziale citato dalla sentenza impugnata, nel quale si rileva che mentre il furto contiene gli elementi costitutivi della ricettazione, non è vera l’affermazione reciproca. Si tratta, però di affermazione meramente teorica, del tutto condivisibile, se ci si limita alla comparazione delle fattispecie incriminatrici.
Nel caso di specie, risulta però che la derubricazione in furto è stata addirittura chiesta dallo stesso imputato come conclusione subordinata del processo di primo grado, il che dimostra che egli si è compiutamente rappresentato la possibilità che il fatto potesse essere qualificato come furto, avendo egli stesso argomentato in tal senso.
Non può dunque dirsi violata la prerogativa che il principio di correlazione tra accusa e sentenza è destinato a presidiare, e cioè il diritto di difesa.
Il motivo relativo all’illegalità della pena inflitta, perchè inferiore al minimo edittale previsto per la ricettazione, non è ammissibile, poichè non corrisponde ad alcun interesse concreto ed attuale del ricorrente; per altro verso, risulta impossibile anche l’intervento officioso di questa Corte, in assenza d’impugnazione da parte del P.M. (cfr. Cass. Sez. 5^, sent. n. 771 dep. il 29 marzo 2000, secondo cui "ove il giudice abbia inflitto una pena in contrasto con la previsione di legge ma in senso favorevole all’imputato, si ha un errore al quale la Corte di cassazione, in difetto di specifico motivo di gravame da parte del P.M., non può porre riparo, nè con le formalità di cui agli artt. 130 e 619 c.p.p., perchè si versa in ipotesi di errore di giudizio e non di errore materiale del computo aritmetico della pena; nè in osservanza all’art. 1 c.p., ed in forza del compito istituzionale proprio della.
Corte di cassazione di correggere le deviazioni da tale disposizione:
ciò in quanto la possibilità di correggere in sede di legittimità la illegalità della pena, nella specie o nella quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto a danno e non in vantaggio dell’imputato, essendo anche in detta sede non superabile il limite del divieto della "reformatio in pejus", enunciato per il giudizio di appello, ma espressione di un principio generale, valevole anche per il giudizio di cassazione).
Sempre in ordine alla pena, il T. lamenta la mancata esplicitazione del calcolo analitico, ma si tratta sostanzialmente di altro profilo dello stesso problema, chiaro essendo che nessun calcolo sarebbe potuto legittimamente pervenire alla determinazione di una pena inferiore al minimo edittale del reato ritenuto in sentenza. Conseguentemente, anche questo profilo è colpito da inammissibilità per carenza d’interesse.
La tematica della reformatio in pejus è oggetto del secondo motivo di ricorso, poichè il ricorrente ne sostiene la violazione attraverso la riqualificazione del fatto in ricettazione, che determina l’allungamento dei tempi di prescrizione. A prescindere dalla contraddittorietà di questo motivo rispetto alla pretesa impossibilità di derubricare la ricettazione in furto, deve essere chiarito che il principio in questione consiste esclusivamente nell’impossibilità di irrogare all’imputato, in assenza d’impugnazione del P.M., una sanzione più grave di quella già inflittagli, e non implica affatto l’intangibilità del trattamento penale nel suo complesso, tanto che l’art. 597 c.p., comma 3 prevede espressamente la facoltà del giudice di dare al fatto una definizione giuridica più grave. Il ricorrente non può quindi dolersi dell’allungamento dei termini di prescrizione derivato dalla nuova definizione giuridica (cfr. Cass. Sez. 6^, sent. n. 4075 dep. il 2 aprile 1998, secondo cui "In materia di cognizione del giudice di appello, se la nuova definizione giuridica, a differenza di quella originaria, non consente l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve escludere tale applicazione – e la conseguente estinzione del reato – essendo egli legittimato ad attribuire al fatto un diverso e più grave "nomen iuris". Il limite della "reformatio in pejus" non è, infatti, diretto ad attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma ha il solo scopo di impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio più severo di quello riservatogli dal primo giudice".
L’ultimo motivo, col quale si contesta la logicità della motivazione del provvedimento impugnato, è inammissibile, poichè vi si agitano esclusivamente questioni di fatto, volte a sollecitare valutazioni alternative della prova, in violazione del noto principio secondo cui la cognizione del ricorso non può estendersi ad un nuovo esame degli elementi di prova raccolti e utilizzati nel giudizio di merito, esame che è precluso a questa Corte (cfr. Cass. Sez 5^, sent. 1004 del 31 gennaio 2000, secondo cui "In tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento").
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-11-2010) 04-01-2011, n. 70 Misure cautelari

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 20 luglio 2010, il Tribunale di Napoli ha respinto l’istanza di riesame, proposta da R.G. e da suo figlio R.S. classe 1972 avverso il provvedimento del G.I.P. del medesimo Tribunale in data 14 giugno 1010, con il quale era stata ad essi applicata la misura cautelare della custodia in carcere, siccome indagati, in concorso con R.S. classe (OMISSIS), del delitto di omicidio pluriaggravato in danno di G.N., da essi condotto nell’estate del (OMISSIS) con una barca di loro proprietà al largo, dove la vittima era stata dapprima colpita con uno strumento di legno denominato "mezzo marinaio", poi ulteriormente colpito mortalmente alla testa con l’ancora, mentre cercava di difendersi; dopodichè il corpo, al quale erano state legate due ancore, era stato gettato in mare, dove era andato a fondo.

2. Il Tribunale ha ritenuto la sussistenza a carico dei due indagati di gravi indizi di colpevolezza, consistiti nelle concordi dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia G.L., G.G., G.S., G.R. e G.R., i quali avevano in maniera univoca delineato il contesto in cui era avvenuto l’omicidio in esame.

Era infatti emerso che la vittima G.N. frequentava la casa di R.G. e di sua moglie G.E., detta C.; che il G., approfittando della fiducia che i due avevano riposto in lui, aveva indotto la figlia di R. G., tale G., ad assumere droga ed ad avere rapporti sessuali con lui; detta G. era fidanzata con tale V. D., in quel momento in carcere, il quale aveva dato al suo amico G. l’incarico di vigilare sulla donna; inoltre il G. aveva intrapreso una relazione sessuale anche con M., altra figlia di R.G., di appena anni 13, più volte percuotendola, in tal modo violando la fiducia che era stata riposta in lui.

Secondo il Tribunale le concordi propalazioni rese dai collaboratori di giustizia anzidetti, dei quali i primi quattro erano cognati di R.G., siccome fratelli di sua moglie G. C., avevano trovato adeguato riscontro esterno, costituito dalla convergenza delle dichiarazioni rese da ciascuno di essi, sia riguardo alle modalità di esecuzione del delitto, sia riguardo al movente che aveva mosso i due indagati a commettere l’omicidio, il quale era avvenuto al di fuori di ogni logica camorristica, essendo stato commesso unicamente per motivi privati e cioè per vendicare un malinteso senso dell’onore familiare. Ulteriori riscontri esterni alle popolazioni dei collaboratori di giustizia di cui sopra erano stati rinvenuti dal Tribunale di Napoli nelle intercettazioni telefoniche svolte nell’ambito di un diverso procedimento penale in un periodo coincidente con quello in cui era avvenuto l’omicidio di G.N.; da tali intercettazioni, avvenute sull’utenza telefonica di casa R. in Napoli; sull’utenza del negozio di abbigliamento gestito da G.E. in (OMISSIS), nonchè sull’utenza installata presso l’abitazione di (OMISSIS)) in uso a G.E., era emerso che effettivamente il G. frequentasse la famiglia di G.E., svolgendovi varie incombenze esecutive; che sussisteva in modo inequivoco una segreta relazione amorosa fra la vittima e la minore tredicenne R. C. detta M.; che il G. avesse tenuto più volte atteggiamenti violenti e prepotenti non solo nei confronti di M., ma anche nei confronti di G., sorella di quest’ultima, avendo altresì iniziato entrambe all’uso di stupefacenti.

3. Il Tribunale ha tuttavia ritenuto che gli indizi emersi non fossero sufficienti per ritenere il coinvolgimento di R. S. classe (OMISSIS), fratello di R.G. nella commissione dell’omicidio, non essendo stato adeguatamente accertato che il medesimo avesse partecipato alla tragica gita in mare, nel corso della quale era stato commesso l’omicidio di G.N.. Il Tribunale ha rilevato come le propalazioni rese dai collaboratori di giustizia, sopra citati non potevano qualificarsi come chiamate in correità, ma erano dichiarazioni in gran parte de relato, si che occorreva verificare con particolare attenzione l’attendibilità dei dichiaranti e delle fonti.

Dei dichiaranti anzidetti solo tre ( G.G., G. L. e G.R.) avevano indicato come esecutori dell’omicidio di G.N. anche R.S. classe (OMISSIS); di essi certamente G.L. aveva fatto confusione nel primo interrogatorio reso il 20 gennaio 2003, allorquando aveva indicato quali complici di R.G. suo fratello F. e suo figlio S.; infatti sei anni più tardi, nell’interrogatorio del 5 novembre 2009, G.L. aveva dichiarato di aver errato nell’indicare F., inteso come R.S. classe (OMISSIS), avendo più esattamente specificato che il medesimo fosse da collegare ad un diverso fatto criminoso avvenuto a (OMISSIS) nell’ambito di una guerra fra clan camorristici; occorreva poi rilevare come l’identità del nome e del cognome tra i due R.S. indagati, rispettivamente zio e nipote, potessero aver ingenerato confusione anche negli altri due collaboratori circa il ruolo svolto da R.S. classe (OMISSIS) nell’omicidio del G..

4. Il Tribunale ha poi ritenuto la sussistenza di esigenze cautelari tali da giustificare la custodia cautelare inframuraria adottata nei confronti di R.G. e di RO.Sa. classe (OMISSIS), in considerazione della gravità del fatto, delle connotazioni oggettive dei delitto perpetrato, tali da denotare una loro significativa propensione al crimine, della sussistenza dei concreto pericolo che gli indagati, se rimessi in libertà, avrebbero potuto commettere altri gravi delitti della stessa specie.

A carico degli Indagati, indiziati per il delitto di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dal motivo futile, sussisteva poi la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, che imponeva l’applicazione della custodia cautelare in carcere, essendo stati acquisiti elementi dai quali poter desumere la sussistenza dei loro confronti di esigenze cautelari.

5. Avverso detto provvedimento del Tribunale del riesame di Napoli ha proposto ricorso per cassazione il PM presso il medesimo Tribunale, limitatamente alla parte in cui è stata annullata l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. di Napoli nei confronti di R.S. classe (OMISSIS).

Ha rilevato che non sussistesse in realtà l’errore di persona, sul quale il Tribunale aveva fondato l’impugnato annullamento, atteso che il collaboratore di giustizia G.L., nell’interrogatorio del 5 novembre 2009, aveva dato una spiegazione adeguata dell’erronea indicazione da lui fornita circa R.S. classe (OMISSIS) nel primo interrogatorio del 20 gennaio 2003, nel corso del quale R.S. classe (OMISSIS) era stato indicato come " F."; e da tale erronea indicazione di persona non poteva escludersi che R.S. classe (OMISSIS) avesse partecipato all’omicidio di G.N.; inoltre l’aver ritenuto che sussistesse un errore di persona era del tutto apodittico ed immotivato, atteso che il Tribunale, nella motivazione del provvedimento, aveva dato atto dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia G.G. e G.S.; il primo dei due inoltre fin dall’interrogatorio del 2 luglio 1999 aveva indicato R.S. classe (OMISSIS) quale corresponsabile dell’omicidio; lo stesso dichiarante aveva poi indicato nel corso del suo successivo interrogatorio del 20 settembre 1999 fra le fonti di conoscenza anche R.S. classe (OMISSIS), si che non era possibile parlare di incertezza del ricordo; infine il dichiarante G.R., nel corso dell’interrogatorio del 31 marzo 2009, in più passaggi aveva indicato come corresponsabile del delitto G. appunto R.S., indicato come fratello di R.G..

6. Anche R.G. e RO.Sa. classe (OMISSIS) hanno proposto ricorso per cassazione per il tramite del loro comune difensore, che ha proposto due motivi di ricorso.

Con il primo motivo deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, non essendo stati indicati i presunti gravi indizi di colpevolezza emersi nei loro confronti.

I collaboratori di giustizia G.G.; G.L.;

G.R.; G.S.; G.R. e R.F. non potevano ritenersi attendibili, in quanto tutti nutrivano sentimenti di odio e di rancore verso R.G.;

ed il Tribunale non aveva tenuto in alcun conto la copiosa documentazione da essi esibita, dalla quale emergeva l’ostilità ed il livore che i propalanti anzidetti avevano nei confronti di R.G.. Secondo i ricorrenti il Tribunale aveva operato una valutazione frazionata ed atomistica delle diverse componenti che formavano l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, avendo proceduto per compartimenti stagni.

In particolare il dichiarante G.L. era all’epoca dei fatti in soggiorno obbligato a (OMISSIS), si che era del tutto improbabile che R.G. abbia raggiunto il cognato nella località molisana per comunicargli l’andamento dei fatti; inoltre il dichiarante G.G. neppure era attendibile, avendo potuto confrontarsi in carcere con suo fratello R., in tal modo dimostrando che i fratelli G. avevano potuto conoscere gli eventi vissuti da ciascuno di essi.

I ricorrenti hanno poi rilevato che le propalazioni fatte dai dichiaranti anzidetti avevano natura "de relato"; e non era condivisibile quanto sostenuto al riguardo dal Tribunale, il quale aveva ritenuto che non potevano considerarsi "de relato" le dichiarazioni di coloro i quali, per il ruolo di vertice rivestito nell’ambito della organizzazione criminale di appartenenza, fossero in grado di riferire fatti relativi alla vita di quel sodalizio criminoso; in quanto il fatto storico da accertare nella specie non era riconducibile alla vita del sodalizio criminoso od a vicende di interesse comune, tali da giustificarne una conoscenza da parte dei vertici dell’organizzazione; era pertanto rilevabile l’assenza di conoscenze dirette, non vissute in prima persona dai dichiaranti, circa la sparizione di G.N.; il che valeva anche per le propalazioni fatte da G.R..

Inoltre sia G.L., sia tutti gli altri suoi fratelli, sebbene detenuti e monitorati dal servizio protezione, vivevano in simbiosi, comunicando liberamente tra loro, in alcuni casi condividendo addirittura la medesima struttura penitenziaria.

Non sussistevano poi nella specie riscontri estrinseci i quali, per consentire un positivo apprezzamento circa la intrinseca attendibilità delle dichiarazioni dei pentiti, dovevano avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad elementi di qualsiasi tipo e natura, anche di ordine puramente logico, ma che riguardassero direttamente la persona dell’incolpato in relazione a tutti gli specifici reati a lui addebitati; il che era particolarmente necessario in caso di accuse introdotte, come nella specie, mediante dichiarazioni de relato, che avevano ad oggetto la rappresentazione di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta, ma perchè appresi da terzi.

Secondo i ricorrenti le intercettazioni telefoniche riportate per riscontrare le accuse dei collaboratori anzidetti erano state lette in modo settario e suggestivo, atteso che le conversazioni riportate dal Tribunale smentivano il racconto offerto dai collaboratori ed escludevano la causale del delitto per come indicata da tutti i propalanti, non potendosi desumere dalle captazione effettuate il paventato proposito criminoso di R.G. e S.. Vi erano poi in atti intercettazioni telefoniche ed informative di polizia giudiziaria (annotazione dei carabinieri su delega del PM in data 10 novembre 2009 concernenti colloqui telefonici intercorsi fra G.E. e tale D.P.) che confutavano la ricostruzione del fatto storico operata dal giudice del riesame ed offrivano spunti investigativi differenti ed alternativi, di pari valenza probatoria; era quindi evidente che il collegio aveva omesso di commentare i rilievi a favore di essi ricorrenti.

La Procura, per sopperire alle carenze indiziarie presenti nel fascicolo, aveva disposto l’escussione dei congiunti del defunto G.N., utilizzando altresì intercettazioni ambientali all’interno della sala d’attesa dei carabinieri, nel veicolo in uso al fratello del defunto e sui telefoni dei familiari del medesimo; ma neppure da tali captazioni erano emersi elementi a conforto del quadro indiziario acquisito.

Col secondo motivo deducono inosservanza della legge penale e difetto di motivazione in quanto il G.I.P. si era limitato a recepire, a fronte della richiesta di misura pervenuta al suo ufficio, solo una parte degli atti trasmessi dal PM titolare dell’indagine, escludendo le intercettazioni e le informative di polizia giudiziaria, che avrebbero potuto fornire una differente ed alternativa ricostruzione del fatto.

La nullità dell’ordinanza impugnata sussisteva in quanto il G.I.P. non aveva analizzato l’indagine svolta dalla Procura nella sua interezza, nella parte in cui poteva desumersi il diretto coinvolgimento nella scomparsa di G.N., con ruoli di mandante ed esecutore materiale, di persone diverse e cioè G. E. e D.P..

Il Tribunale aveva ritenuto che tale informativa fosse del tutto generica e priva di richiamo alle fonti di conoscenza; aveva pertanto attribuito un ruolo preponderante alle propalazioni dei collaboratori di giustizia sopra specificati, svilendo il contenuto di atti pur sottoscritti da autorevoli esponenti della polizia giudiziaria;

l’errore commesso dal Tribunale consisteva nell’aver collocato le conversazioni tra G.E. e D.P. al di fuori della scansione cronologica degli avvenimenti, mentre al contrario erano rilevanti le assicurazioni telefoniche che il D. aveva fatto alla sua amica G.E., successivamente alla scomparsa del giovane, secondo le quali la questione era stata sistemata e che il G. non avrebbe dato più fastidio.

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto dal PM di Napoli avverso l’ordinanza del Tribunale di quella medesima città in data 20 luglio 2010 è inammissibile siccome proposto per motivi non consentiti nella presente sede di legittimità. 2. Con esso il PM ricorrente ha ritenuto la sussistenza a carico di R.S. classe (OMISSIS) di gravi indizi di colpevolezza, si da chiedere l’annullamento, nella parte de qua, del provvedimento impugnato, che aveva viceversa ritenuto inadeguati gli indizi emersi a carico del medesimo e tali da non consentire l’emissione nei suoi confronti di un’ordinanza cautelare in carcere.

Si osserva invero che il provvedimento impugnato nella presente sede ha proceduto ad un adeguato apprezzamento degli indizi, fino a quel momento emersi a carico di R.S. classe (OMISSIS), ritenendoli, con motivazione incensurabile nella presente sede, siccome immune da vizi logici e da contraddizioni, inadeguati a giustificare l’emissione nei suoi confronti di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, siccome corresponsabile, assieme agli altri due ricorrenti, dell’omicidio pluriaggravato di G.N..

Questa Corte di legittimità non è invero tenuta a riesaminare gli elementi di fatto posti a sostegno dell’atto impugnato, ovvero a proporne altri differenti, essendo il relativo apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice di merito ed essendo compito di questa Corte solo verificare se gli elementi di fatto valorizzati da tale ultimo giudice abbiano la necessaria valenza indiziaria e se la motivazione addotta al riguardo sia congrua rispetto ai canoni della logica ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie; ed esaminata in quest’ottica, la pronuncia impugnata si sottrae alle censure mosse (cfr., in termini, Cass. SS.UU. 22.3.2000 n. 11; Cass. 4^, 8.6.07 n. 22500).

2. Il Tribunale del riesame di Napoli ha escluso la sussistenza a carico di R.S. classe (OMISSIS) di indizi idonei a consentire l’emissione della misura cautelare anzidetta nei suoi confronti facendo riferimento: – alla circostanza che le propalazioni rese dai collaboratori di giustizia, sopra citati, non consistevano in chiamate in correità, ma in dichiarazioni in gran parte de relato, si che occorreva verificare con particolare attenzione l’attendibilità dei dichiaranti e delle fonti;

– alla circostanza che, dei dichiaranti anzidetti, solo tre ( G.G., G.L. e G.R.) avevano indicato come esecutore dell’omicidio di G.N. anche R.S. classe (OMISSIS) e che di essi certamente G. L. aveva fatto confusione in ordine alla esatta identificazione di quest’ultimo nel primo interrogatorio reso il 20 gennaio 2003, allorquando aveva indicato quali complici di R.G. suo fratello F. e suo figlio S., atteso che, sei anni più tardi, nell’interrogatorio del 5 novembre 2009, G. L. aveva dichiarato di aver errato nell’indicare F., inteso come R.S. classe (OMISSIS), spiegando che il medesimo fosse da collegare ad un diverso fatto criminoso e cioè ad uno scontro a fuoco avvenuto a (OMISSIS) nell’ambito di una guerra fra clan camorristici;

– alla circostanza che la coincidenza del nome e del cognome tra i due R.S. indagati, rispettivamente zio e nipote, ben poteva aver ingenerato confusione anche negli altri due collaboratori circa il ruolo svolto da R.S. classe (OMISSIS) nell’omicidio del G..

Gli argomenti sopra specificati sono pertanto idonei a giustificare la mancata conferma, da parte del Tribunale del riesame di Napoli, della misura cautelare della detenzione in carcere nei confronti di R.S. classe (OMISSIS); e le argomentazioni in senso contrario svolte dal P.M. consistono in realtà in differenti prospettazioni dei medesimi fatti, inibite nella presente sede di legittimità. 3. Sono invece infondati i due motivi di ricorso proposti da R. G. e da RO.Sa. classe (OMISSIS), da trattare congiuntamente siccome strettamente correlati fra di loro.

4. Con essi i ricorrenti hanno sostenuto l’inattendibilità delle propalazioni rese dai collaboratori di giustizia G. G.; G.L.; G.R. e G. S. per avere essi motivi di astio e di risentimento nei confronti di R.G..

Il provvedimento impugnato, con motivazione incensurabile nella presente sede, siccome immune da vizi logici e da contraddizioni, ha al riguardo rilevato come i collaboratori di giustizia erano nella gran parte dei casi persone con un vissuto criminale di notevole spessore, si che essi ben erano in grado di riferire in ordine a vicende di soggetti non inseriti nella propria organizzazione criminosa, ma facenti parte di gruppi in posizione di antagonismo e contrapposizione armata, si che non era sufficiente l’oggettiva sussistenza di sentimenti di odio e rancore nei confronti delle persone oggetto delle esternazioni a rendere intrinsecamente inattendibili tali ultime propalazioni. Va poi rilevato che il provvedimento impugnato ha fornito adeguata motivazione anche in ordine alla ulteriore specifica censura formulata dai ricorrenti circa l’attendibilità del propalante G.L., concernente il fatto che quest’ultimo, all’epoca dell’omicidio, si trovasse in soggiorno obbligato a (OMISSIS), si che non avrebbe potuto parlare nè prima nè dopo con R.G. e con i suoi fratelli R. e C..

Al riguardo il provvedimento impugnato ha correttamente rilevato come non vi fosse prova nè della data Iniziale nè di quella finale della sottoposizione del R. alla misura di prevenzione del soggiorno obbligato in (OMISSIS); inoltre il provvedimento impugnato ha correttamente affermato che, a fronte di riscontri così specifici, in ogni caso non poteva escludersi che il R. fosse riuscito ad entrare in qualche modo in contatto con il G., pur essendo quest’ultimo in soggiorno obbligato a (OMISSIS).

Adeguata è altresì la motivazione con la quale il provvedimento impugnato ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del propalanti sopra specificati, tenuto conto della loro rilevante e cospicua militanza criminosa, tale da ritenerli in grado di conoscere in misura maggiore rispetto ad altri soggetti anche vicende ad essi non direttamente riferibili; il che costituisce un riscontro valido, pur trattandosi nella specie di delitto maturato nell’ambito della famiglia G. e non strettamente riconducibile a logiche camorristiche.

Sono poi del tutto generiche le argomentazioni svolte dai due ricorrenti circa l’inattendibilità delle propalazioni rese dai pentiti, per essere essi vissuti in simbiosi, per avere comunicato liberamente fra di loro, per avere condiviso la medesima struttura penitenziaria; trattasi invero di censure prive di riscontri concreti.

Va piuttosto ritenuto che l’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali elaborati da questa Suprema Corte in ordine alla valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia. E’ noto al riguardo che la chiamata in correità fatta da un collaboratore di giustizia può costituire valido elemento di colpevolezza solo quando è sorretta da riscontri esterni individualizzanti, i quali devono essere significativi non solo in ordine all’accertamento in sè del verificarsi del fatto di reato, ma anche in ordine alla sua attribuzione ed alla sua riferibilità al soggetto ritenutone responsabile, secondo i canoni offerti dall’art. 192 c.p.p., comma 3 e 4, dettato in tema di valutazione della prova.

Pertanto le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia possono essere poste a fondamento di dichiarazioni di colpevolezza quando siano intrinsecamente attendibili e risultino corroborati da riscontri esterni, idonei a provare l’attribuzione del fatto reato al soggetto destinatario di esse. Tali riscontri esterni ben possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatone, le quali devono a loro volta essere caratterizzate dalla loro attendibilità intrinseca, oltre che dalla loro convergenza in ordine al fatto oggetto della narrazione; dall’essere state rese senza pregresse intese fraudolenti e senza suggestioni o condizionamenti tali da inficiarne la concordanza; nonchè dalla loro specificità, che tuttavia non può ritenersi estesa fino alla loro completa sovrapponibilità agli elementi d’accusa forniti dagli altri dichiaranti, dovendo piuttosto essere privilegiato l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale dei fatti da provare (cfr., in termini, Cass. 6^, 26.11.08 n. 1091; Cass. 2^, 4.3.08 n. 13473; Cass. 1^ 20.7.09 n. 30084). Applicando tali principi giurisprudenziali alla specie in esame, deve ritenersi adeguata, siccome immune da vizi logici e da contraddizioni, la motivazione addotta dal Tribunale del riesame di Napoli per ritenere la sussistenza di validi indizi di colpevolezza a carico degli odierni ricorrenti, essendo state ritenute credibili le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia sopra specificati; e le propalazioni rese da ciascuno di essi risultano essere state sorrette da validi riscontri esterni, costituiti sia dalle dichiarazioni rese da tutti gli altri collaboranti, siccome adeguatamente convergenti in ordine al nucleo essenziale del fatto omicidiario attribuito ai due ricorrente, sia dagli esiti delle intercettazioni telefoniche disposte sull’utenza telefonica di casa R. in (OMISSIS);

sull’utenza del negozio di abbigliamento gestito da G. E. in (OMISSIS), nonchè sull’utenza installato presso l’abitazione di (OMISSIS)) in uso a G.E..

Da tali intercettazioni era emerso che effettivamente il G. avesse frequentato la famiglia di G.E., svolgendovi varie incombenze esecutive; che sussisteva in modo inequivoco una segreta relazione amorosa fra la vittima e la minore tredicenne R.C. detta M.; che il G. avesse tenuto più volte atteggiamenti violenti e prepotenti non solo nei confronti di M., ma anche nei confronti di G., sorella di quest’ultima, avendo altresì iniziato entrambe all’uso di stupefacenti. Trattasi di indizi che, difformemente da quanto ritenuto dai ricorrenti, costituiscono valido riscontro esterno alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e tali da costituire adeguata conferma dell’attendibilità di queste ultime.

E’ infine infondato al limite dell’inammissibilità il motivo di ricorso con il quale i ricorrenti lamentano che il Tribunale del riesame non abbia dato credito alla diversa versione dei fatti da essi fornita, tale da poter ipotizzare una differente scenario entro il quale collocare l’omicidio di G.N., che avrebbe potuto essere attribuito a G.E. in qualità di mandante ed a D.P. in qualità di esecutore materiale.

Esula invero dai compiti di questa Corte di legittimità riesaminare gli elementi di fatto posti a sostegno dell’atto impugnato, ovvero a riproporne altri differenti, essendo il relativo apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice di merito ed essendo compito di questa Corte solo verificare se gli elementi di fatto valorizzati dal giudice di merito abbiano la necessaria valenza indiziaria.

Argomentando diversamente si finirebbe per trasformare questa Corte in un ulteriore giudice del fatto, mentre invece essa è tenuta solo a verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità ed ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico degli indagati, controllando la congruenza della motivazione circa la valutazione degli elementi rispetto ai canoni della logica ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.

Esaminata in quest’ottica, la pronuncia impugnata si sottrae alle censure mosse, avendo il Tribunale del riesame di Napoli adeguatamente dato conto, come sopra riferito, delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario emerso a carico degli odierni indagati ed avendo esso congruamente valutato gli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (cfr., in termini, Cass. SS.UU. 22.3.2000 n. 11; Cass. 4^, 8.6.07 n. 22500).

5. Il ricorso proposta da R.G. e RO.Sa. classe (OMISSIS) va pertanto respinto, con loro condanna, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

13. Si provveda all’adempimento di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del P.M. e rigetta i ricorsi di R.G. e R.S., condannando questi ultimi due al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 21-01-2011, n. 139 Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I ricorrenti, tutti proprietari di terreni in Comune di Castelli Calepio, svolgono una serie di censure agli atti meglio indicati in epigrafe, con i quali detto Comune, nell’operare una variante al proprio strumento urbanistico generale, è intervenuto sul regime dei terreni stessi.

Più precisamente, G.P., M.A.B., la società V. e i consorti M. sono proprietari rispettivamente dei terreni censiti al catasto di Castelli Calepio, sezione di Tagliuno, mappali 3718 e 518; mappali 521 e 1687; mappali 519, 1490 e 1686, confinanti fra loro e già classificati come zona C2 edificabile di tipo estensivo, soggetta a piano attuativo; avevano in due occasioni richiesto all’amministrazione comunale di poter edificare in base a semplice concessione edilizia, ma hanno visto in base agli atti di piano impugnati mutare la classificazione del terreno in zona SC4, area pubblica attrezzata a parco e per il gioco. I soli consorti M. sono poi proprietari di un compendio immobiliare sito nel centro storico di Castelli Calepio, e lamentano che, sempre in base agli atti di piano impugnati, esso sia interessato dalla prevista realizzazione di un parcheggio pubblico (ricorso, pp. 2 e 3; i fatti storici sono non contestati).

Tutto ciò posto, hanno proposto in questa sede ricorso articolato in quattro censure, riconducibili secondo logica ai seguenti tre motivi, il primo concernente la posizione dei terreni in località Tagliuno, i restanti l’immobile M. nel centro storico; in dettaglio:

? con il primo motivo, corrispondente alle prime tre censure alle pp. 510 del ricorso, deducono eccesso di potere ovvero violazione dell’art. 3 della l. 241/1990 per difetto di motivazione, sostenendo l’illogicità della scelta di piano concernente il terreno di cui si è detto. Affermano infatti che la sopravvenuta inedificabilità dell’area frustrerebbe un loro legittimo affidamento sulla possibilità di costruirvi in base alle precedenti norme di piano e andrebbe contro il carattere di area già urbanizzata dei fondi circostanti; sostengono poi in ispecie che non sarebbe possibile spiegare la destinazione del terreno con l’intento di creare una fascia verde di salvaguardia a tutela di una collina, dato che in prossimità alla stessa sarebbe comunque consentita l’edificazione;

? con il secondo motivo, corrispondente alla prima parte della quarta censura a p. 10 del ricorso, deducono un ulteriore profilo di eccesso di potere, in quanto a loro dire la realizzazione del parcheggio pubblico di cui si è detto non si inserirebbe nel centro storico di Castelli Calepio, ed anzi potrebbe pregiudicarlo, comportando un aumento della circolazione di veicoli;

? con il terzo motivo, corrispondente all’ultima parte della quarta censura a p. 13 del ricorso, deducono ancora eccesso di potere quanto alla previsione di piano che consente di costruire nel centro storico gli immobili di cui al piano attuativo PR2, suscettibili a loro dire di menomare la visuale dell’antico borgo.

Resiste al ricorso il Comune intimato, con atto 25 ottobre 1999 e memoria 21 ottobre 2010, nella quale sostiene la cessazione della materia del contendere, dovuta all’approvazione, con delibera di Consiglio 25 luglio 2005 n°23 (doc. allegato alla memoria, copia di essa), di una nuova e non impugnata variante generale al piano.

Con memoria 11 novembre 2010, i ricorrenti hanno dichiarato che l’interesse alla decisione del ricorso rimarrebbe con riguardo alle previsioni degli atti impugnati relative all’immobile M. in centro storico, previsioni che sarebbero immutate nella successiva variante di cui si è detto (v. p. 7 memoria); con memoria 2 dicembre 2010, il Comune ha contestato tali deduzioni, osservando che esse integrerebbero una impugnazione in termini e forme non consentite della deliberazione del 2005 di cui si è detto.

La Sezione all’udienza del giorno 16 dicembre 2010 tratteneva il ricorso in decisione.
Motivi della decisione

1. Il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, non solo, come gli stessi ricorrenti affermano, con riguardo alle previsioni di piano che sono state modificate dalla sua nuova versione, ovvero dalla variante generale di cui in premesse, ma anche con riguardo a quelle che sono state reiterate con identico contenuto.

2. E’ infatti pertinente il costante insegnamento del Consiglio di Stato, espresso da ultimo nella recente sez. IV 3 giugno 2010 n°3538: il ricorso avverso un piano urbanistico diviene improcedibile se nelle more del processo il piano stesso viene sostituito da altro, anche contenente prescrizioni identiche a quelle impugnate, in quanto non vi è più alcun interesse a discutere della legittimità di una disciplina non più vigente, nemmeno sotto il profilo risarcitorio, che anzi riguarderebbe una domanda non ancora presentata e si tradurrebbe quindi "in un inammissibile accertamento preventivo" valido oltretutto "nei confronti… di una generalità di parti indeterminate non costituite" nel processo di che trattasi. Così la decisione citata; conforme anche, sempre di recente, C.d.S. 24 febbraio 2004 n°731.

3. Sussistono comunque giusti motivi per compensare le spese.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile. Compensa per intero fra le parti le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.