Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 01-04-2011) 19-07-2011, n. 28483 Danno

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Svolgimento del processo

Con ordinanza del 17.9.2010, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli dispose la custodia cautelare di P.L., S.R., Pa.Do., M. G. e C.G., indagati per il reati di associazione a delinquere finalizzata a truffe immobiliari aggravate dal danno patrimoniale di rilevante gravità.

Avverso tale provvedimento gli indagati proposero istanza di riesame, e il Tribunale del Riesame di Napoli, con ordinanza del 19.10.2010, confermava la misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di S.R. e C.G..

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato S.R., deducendo la nullità dell’ordinanza ex art. 606 c.p.p., lett. b) c) ed e) in relazione agli artt. 125 e 292 c.p.p., in quanto il Tribunale erroneamente ha valutato i presupposti e le condizioni che all’interno dell’ordinanza applicativa della misura possano giustificare una motivazione "per relationem" alla richiesta del pubblico ministero ex art. 291 c.p.p., trascurando di considerare che all’ordinanza applicativa della misura non risulta allegato l’atto al quale il giudice si riporta; in relazione agli artt. 125, 309, 274 e 275 c.p.p. per omessa motivazione sulle esigenze cautelari; in relazione agli art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, art. 141 bis c.p.p. avendo omesso il pubblico ministero di depositare i supporti audiovisivi degli interrogatori degli indagati o in sostituzione la trascrizione degli interrogatori; in relazione agli artt. 61, 62, 63, 64, 191, 192 e 273 c.p.p., art. 511 c.p.p., comma 4 in quanto tutta l’indagine ha inizio con le dichiarazioni di persone il cui contenuto non è mai leggibile perchè illegittimamente acquisito, e le denunce mai possono essere lette nei loro contenuti se non in relazione alle condizioni di procedibilità e tanto maggiormente laddove nelle stesse vi siano elementi idonei a far ritenere la sussistenza delle condizioni per l’assunzione della qualità di indagato; in relazione agli artt. 416 e 640 c.p., artt. 192 e 273 c.p.p., essendo stato erroneamente ritenuto che l’attività posta in essere dagli indagati fosse ideativa di un unico disegno criminoso e fosse posta in essere al fine di rafforzare l’uno l’attività degli altri, mentre le singole società hanno momenti costitutivi e finalità diverse; in relazione all’art. 610 c.p., artt. 192 e 273 c.p.p. in riferimento ai gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato laddove la stessa si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni del coindagato V.; in relazione all’art. 309 c.p.p., comma 9 avendo omesso il Tribunale di valutare quanto prodotto in udienza. L’ordinanza palesemente travisa poi con una erronea ricostruzione le risultanze delle indagini e in conseguenza gli elementi integranti i gravi indizi di colpevolezza, in riferimento ai ruoli e ai rapporti tra gli indagati, alla non operatività delle società e alle omesse restituzioni ai clienti.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato C.G., deducendo la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per illogicità e mancanza della motivazione, in riferimento ai gravi indizi di reità per il reato di associazione a delinquere, in quanto la presunta partecipazione del prevenuto all’associazione non trova alcun riscontro nè nell’ambito degli atti processuali nè nella condotta posta in essere dallo stesso; la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione agli artt. 61, 62, 63, 191, 192 e 273 c.p.p., art. 511 c.p.p., comma 4, in quanto tutta l’indagine ha inizio con le dichiarazioni di persone ( U.P., V. M., Pe.Sa., F.S., Ma.

S.) il cui contenuto non è leggibile perchè illegittimamente acquisito, in quanto anche queste persone dovevano ritenersi persone indagate e le dichiarazioni andavano assunte con le forme previste dall’art. 64 c.p.p..

Chiedono pertanto entrambi l’annullamento dell’ordinanza.

Motivi della decisione

Ricorso di S.R..

Il ricorso deve essere rigettato per non condivisibilità od inammissibilità delle censure articolate nei motivi che lo compongono.

Il primi due motivi del ricorso di S.R. sono manifestamente infondati.

Il Tribunale, rilevando che il provvedimento cautelare del giudice per le indagini preliminare ha valutato e preso cognizione del contenuto e delle ragioni della richiesta del pubblico ministero, ritenendola coerente con la sua decisione, ha rigettato l’eccezione di nullità con motivazione adeguata maniera adeguata e conforme ai principi rilevanti in materia.

Secondo un consolidato indirizzo, condiviso dal Collegio, il coordinamento dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c) bis (in base al quale a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio, il giudice nell’ordinanza cautelare deve esporre le specifiche esigenze cautelari e la necessità della custodia in carcere, esponendo i motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa) e quello dell’art. 309 c.p.p., comma 9 (in base al quale il tribunale può anche confermare il provvedimento cautelare per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dei provvedimento stesso) va stabilito nel senso che al tribunale del riesame deve essere riconosciuto il ruolo di giudice collegiale e di merito sulla vicenda de liberiate, onde allo stesso non è demandata tanto la valutazione della legittimità dell’atto, quanto la cognizione della vicenda sottostante e, quindi, primariamente la soluzione del contrasto sostanziale tra la libertà del singolo e la necessità coercitiva, con la conseguenza di relegare la dichiarazione di nullità dell’ordinanza impositiva a ultima ratio delle determinazioni adottabili. Tale nullità, invero, può essere dichiarata solo ove il provvedimento custodiale sia mancante di motivazione in senso "grafico", ovvero ove, pur esistendo una motivazione in tal senso, essa si risolva in clausole di stile, onde non sia possibile, interpretando e rivalutando l’intero contesto, individuare le esigenze cautelari il cui soddisfacimento si persegue.

(v., da ultimo, Cass.Sez. 2, sent. n. 39383/2008 Rv. 241868).

Inoltre, quando un provvedimento non si limita a richiamare altro atto, ma ne recepisca graficamente il contenuto, non può certo dirsi che "manchi" di motivazione, dovendo, piuttosto, equipararsi la situazione al caso di motivazione "per relationem", e cioè del provvedimento che richiami il contenuto di diverso atto, facendone propria la motivazione. E in tema di provvedimenti concernenti la libertà personale dell’indagato, deve ritenersi legittima la motivazione "per relationem" del provvedimento, sempre che quella richiamata sia conosciuta o conoscibile dall’interessato – in modo che questi sia in grado di controllarne, sia pure esaminando un provvedimento diverso, la congruenza, la logicità e la legittimità – e che il giudice abbia cura di "qualificare", agli effetti del quadro di gravità indiziaria e della sussistenza delle esigenze cautelari, gli elementi già indicati in precedenza, così dimostrando non una supina, apodittica ed immotivata adesione al precedente provvedimento, ma una sia pur sintetica e sommaria valutazione dei contenuti di questo, agli effetti della legittimità della misura cautelare imposta (cfr. Cass.Sez. 4, sent.n.4181/2007 Riv. 238674).

Con il terzo motivo, il ricorrente censura in modo del tutto generico la motivazione del provvedimento impugnato in riferimento alle esigenze cautelari, laddove il Tribunale in maniera logica e del tutto adeguata ha invece illustrato le esigenze cautelari in relazione alla gravità dei fatti, alla reiterazione delle condotta, sintomatica di un inserimento non occasionale, e alla adeguatezza della misura in relazione alla concreta possibilità di reiterazione, non evitabile con l’applicazione di una misura diversa dalla custodia in carcere, in considerazione dei complessi rapporti dell’indagato con una compagine dedita stabilmente ad attività illecite. Il ricorso anche su tale punto è pertanto inammissibile.

Il quarto motivo è infondato, in quanto la mancata trasmissione, da parte del pubblico ministero, al giudice per le indagini preliminari e al tribunale del riesame, unitamente al verbale redatto in forma riassuntiva delle dichiarazioni rese da soggetto in stato di detenzione, anche della relativa registrazione fonografica o audiovisiva non da luogo a inutilizzabilità delle dichiarazioni (cfr. Cass.Sez. 6, sent. n. 39376/2010 Rv. 248799; Cass.Sez. 2, sent.n.39486/2005, Riv.232672).

Anche il quinto motivo è infondato. Il Tribunale, dopo aver a lungo ragionato circa l’inutilizzabilità – a suo parere – delle dichiarazioni di U.P. e V.M. (v.pagg.6-7 del provvedimento impugnato), ha illustrato con ampiezza di argomentazioni tutte le altre numerose fonti di prova (v.pagg.7-21 del provvedimento impugnato) utilizzabili, e dalle quali attraverso lo sviluppo delle investigazioni svolte dalla polizia giudiziaria è stato possibile appurare con certezza l’esistenza dell’associazione a delinquere, identificarne i soggetti coinvolti ed individuarne i ruoli, ricostruendo con precisione le varie fasi in cui si articolava l’attività criminale, realizzata attraverso la costituzione di società sostanzialmente fittizie, gli stretti collegamenti tra tutti i consociati, un serrato procacciamento di affari realizzato inizialmente per iniziativa del P. o del S. e poi sviluppatosi rapidamente, la prospettazione da parte del venditore della tipologia dell’affare da concludere attuata secondo modalità del tutto seriali, la stipula di scritture private mediante la sottoscrizione da parte del cliente di moduli prestampati dalle denominazioni più varie e generiche con contestuale versamento di una somma a titolo di acconto. Non emerge dalla motivazione alcuna valida ragione per ritenere inutilizzabili anche le dichiarazioni di Pe.Sa., F.S. e Ma.Si., in quanto la mera partecipazione alla attività di gestione dei contratti in qualità di dipendenti (e per la Ma.Si. di socia di una società, come assunto dal ricorrente) non comporta in assenza di altri elementi, neppure adombrati nei motivi di ricorso, l’esistenza nei loro confronti di indizi di reità al momento delle dichiarazioni da essi rese alla polizia giudiziaria. A ciò aggiungasi, poi, che le dichiarazioni delle persone offese si confortano tra di loro e hanno trovato ampio riscontro, non solo nelle dichiarazioni dei dipendenti delle società, ma anche nella copiosa documentazione sequestrata e nelle indagini a riguardo della Guardia di Finanza. Sotto il profilo della credibilità soggettiva, il Tribunale ha, quindi, evidenziato che le varie persone offese non risultano aver preso parte alle condotte illecite realizzate dai sodali, e "se alcuni di loro (si pensi a G.B.) si sono attivati a diffondere la notizia tra amici e parenti, o hanno investito nel "giro" varie centinaia di migliaia di euro, il loro ruolo non risulta essersi trasformato nè in procacciatori di affari per conto del gruppo capeggiato da P. e S., nè in soci di fatto di quest’ultimi (come è invece successo per M., U. e V.), ragion per cui la loro posizione può essere valutata alla stregua dei canoni fissati per la persona offesa" (v.pag. 10 del provvedimento impugnato).

Con il sesto e settimo motivo, solo formalmente vengono evocati vizi di legittimità; in concreto le doglianze sono articolate sulla base di rilievi che tendono ad una inammissibile rivalutazione del merito delle statuizioni del Tribunale del riesame, statuizioni, peraltro, operate con argomenti esaurienti e privi di vizi logici sia sul punto della sussistenza dell’associazione a delinquere (programma criminoso, predisposizione comune di attività e mezzi, organizzazione) sia sul punto della gravità del quadro indiziario nei confronti del ricorrente, il cui ruolo, ampiamente descritto nell’ordinanza impugnata (v.pag.21 e segg.), appare essere, con il P., quello dell’organizzatore del gruppo delinquenziale, che già nel 2006 godeva dell’apporto, oltre che del P. e del C., anche di Pa. e di M..

A riguardo, rammenta il Collegio che, in materia di misure cautelari personali, allorchè sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte di legittimità spetta solo il compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Il controllo di legittimità sulla motivazione, pur dopo le modifiche della L. n. 46 del 2006, art. 8, non può riguardare la verifica della rispondenza delle argomentazioni poste a fondamento delle decisione impugnata alle acquisizioni processuali, provvedendosi così ad una rilettura degli elementi di fatto, atteso che la relativa valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito. Peraltro, il travisamento del fatto, ove prospettato, in tanto può essere oggetto dello scrutinio di legittimità, in quanto il ricorrente deduca e dimostri di aver rappresentato al giudice del riesame gli elementi dai quali avrebbe potuto rilevarsi il denunciato travisamento, cosicchè il giudice di legittimità possa desumere dal testo del provvedimento, o dalle specifiche, ed a tal fine autosufficienti, indicazioni processuali offerte dal ricorrente, se e come quegli elementi siano stati valutati (cfr Cass.Sez. 2, sentn.19547/2006 Riv.233772).

Il ricorrente afferma non essere vero che non vi siano state restituzioni, anche parziali, alle parti offese delle somme versate, e ammontanti – secondo i giudici di merito – a circa sette milioni di euro, e di aver prodotto documentazione a riguardo. La censura sulla carenza di motivazione in riferimento alla documentazione prodotta dalla difesa è del tutto infondata, avendo il Tribunale rilevato nel provvedimento impugnato che l’indagine è appena agli inizi, e che sono in corso accertamenti di polizia giudiziaria in ordine alla documentazione acquisita e alle dichiarazioni degli indagati.

Per quanto riguarda, infine, il reato di violenza privata, il Tribunale ha dato ampia ed esauriente motivazione sia in ordine alla qualificazione giuridica del reato che dei gravi indizi di reità, in considerazione delle dichiarazioni non solo di R.A. ma anche di quelle di Ma.Fr. (v.pag.27 della sentenza impugnata).

Ricorso di C.G..

Non essendo pervenuta valida rinuncia al ricorso da parte dell’indagato, anche tale ricorso deve essere rigettato, per la non condivisibilità od inammissibilità delle censure articolate nei motivi che lo compongono.

Il secondo motivo, avente ad oggetto l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di Pe.Sa., F.S. e M. S., è infondato per le medesime ragioni già esposte in riferimento alla medesima doglianza avanzata nel ricorso del S..

Con il primo motivo solo formalmente vengono evocati vizi di legittimità; in concreto, le doglianze sono articolate sulla base di rilievi che tendono ad una inammissibile rivalutazione del merito delle statuizioni del Tribunale del riesame, statuizioni, peraltro, operate con argomenti esaurienti e privi di vizi logici sia sul punto della sussistenza dell’associazione a delinquere in questione (programma criminoso, predisposizione comune di attività e mezzi, organizzazione) sia sul punto della gravità del quadro indiziario nei confronti del ricorrente (il cui ruolo, ampiamente descritto nell’ordinanza impugnata, è quello di presentarsi quale prestigioso titolare di due società lussemburghesi che agli occhi dei clienti assicuravano la buona riuscita degli affari. Oltre alle dichiarazioni delle persone offese e dei dipendenti F. e Pe., il Tribunale indica a suo carico le risultanze delle perquisizioni effettuate nei confronti degli altri coindagati, "che danno contezza di come lo stesso mantenesse costanti e continui rapporti tanto con il P., quanto con il S."), che in ordine alle esigenze cautelari in relazione alla gravità dei fatti, alla reiterazione delle condotta, sintomatica di un inserimento non occasionale, e alla adeguatezza della misura in relazione alla concreta possibilità di reiterazione, non evitabile con l’applicazione di una misura diversa dalla custodia in carcere, in considerazione dei complessi rapporti dell’indagato con una compagine dedita stabilmente ad attività illecite.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento.

Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente S.R., deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-12-2011, n. 28275 Passaggio ad altra amministrazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) chiede l’annullamento della sentenza di appello, che ha affermato il diritto della parte intimata, trasferita al Ministero, al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri profili, nonchè eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e art. 52, n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Ciò comporta che il ricorso per cassazione del Ministero che denunzia violazione del complesso normativo costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice di merito, il quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà verificare, in concreto e nel caso specifico la sussistenza, o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento ed accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale verifica. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 10-01-2012, n. 56 Responsabilità civile

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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’11/9/2006 la Corte d’Appello di Roma respingeva i gravami interposti dal sig. P.O., in via principale, e dai Sigg. L.A. e P.R., in via incidentale, nei confronti della la pronunzia Trib. Roma 4/11/2002 di rigetto delle riunite domande di risarcimento dei danni lamentati all’esito di sinistro avvenuto l'(OMISSIS) sulla strada (OMISSIS) tra la Fiat Uno tg (OMISSIS) di proprietà del sig. L.A. e condotta dalla moglie sig. P.R., assicurata per la r.c.a. con la compagnia Uniass Assicurazioni s.p.a., un’autovettura Fiat Uno rimasta non meglio identificata e l’autocarro di proprietà del sig. P.B. e condotto dal sig. P.O., sinistro all’esito del quale decedeva la trasportata sig. L.I..

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il sig. P. O. propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

Resiste con controricorso la società Ina Assitalia s.p.a.

(incorporante la società Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia s.p.a.), quale impresa designata per il F.G.V.S., che ha presentato anche memoria; nonchè con separato controricorso i sigg. L. e P., che spiegano altresì ricorso incidentale sulla base di unico motivo, e con ulteriore separato controricorso la società Duomo UniOne Assicurazioni s.p.a. (già Uniass Assicurazioni s.p.a. e quindi UniOne Assicurazioni s.p.a.), che spiega del pari ricorso incidentale sulla base di 2 motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso l’Ina Assitalia s.p.a., che spiega ricorso incidentale condizionato sulla base di unico motivo.

Motivi della decisione

Va preliminarmente posto in rilievo che il Collegio ha richiesto una motivazione semplificata.

Con unico motivo il ricorrente in via principale denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con unico motivo i ricorrenti in via incidentale L. e P. denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 2054, 2051 e 2043 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con il 1 motivo la ricorrente in via incidentale Duomo UniOne Assicurazioni s.p.a. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2043, 2051 e 2054 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il 2 motivo denunzia "omessa statuizione" su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con unico motivo la ricorrente in via incidentale Ina Assitalia s.p.a. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., art. 2947 c.c., L. n. 990 del 1969, art. 22, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

I ricorsi, principale ed incidentali, vanno dichiarati inammissibili, in applicazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, artt. 366-bis e 375 c.p.c., comma 1, n. 5.

I motivi recano infatti quesiti di diritto formulati in termini invero difformi dallo schema al riguardo delineato da questa Corte, non recando la riassuntiva ma puntuale indicazione degli aspetti di fatto rilevanti, del modo in cui i giudici del merito li hanno rispettivamente decisi, delle diverse regole di diritto la cui applicazione avrebbe condotto a diversa decisione, a tale stregua appalesandosi astratti e generici, privi di riferibilità al caso concreto in esame e di decisività, tali cioè da non consentire, in base alla loro sola lettura (v. Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433;

Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658;

Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr.

Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonchè di poter circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che essi debbano richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass., 23/6/2008, n. 17064), risolvendosi in buona sostanza in una richiesta a questa Corte di vaglio della fondatezza delle proprie tesi difensive.

Tanto più che nel caso essi risultano formulati in violazione del principio di autosufficienza, atteso che i ricorrenti fanno richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito, limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti e, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, se siano stati prodotti anche in sede di legittimità (v. Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279).

Nè può d’altro canto sottacersi che in base a principio consolidato in giurisprudenza di legittimità la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – e non anche come nella specie in termini di violazione di legge -, dovendo emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità.

Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, i motivi non recano la prescritta "chiara indicazione" – secondo lo schema e nei termini delineati da questa Corte – delle relative "ragioni", inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica della medesima, con interpretazione che si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (cfr. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), a fortiori non consentita in presenza di formulazione come detto nella specie altresì carente di autosufficienza.

I motivi si palesano pertanto privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo, e anteriormente rispetto alla data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (cfr. Cass., 23/11/2010, n. 23669; Cass., 29/4/2010, n. 10277; Cass., 16/12/2009, n. 26364 Cass., 26/10/2009, n. 22578).

All’inammissibilità del ricorso principale consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Le ragioni della decisione costituiscono giusti motivi per disporsi la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li dichiara inammissibili, assorbito l’incidentale condizionato. Compensa tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 08-06-2011) 29-09-2011, n. 35313 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 12 novembre 2010, il Tribunale di Taranto ha respinto la richiesta di riesame della misura cautelare della custodia in carcere applicata a A.O. per i reati di violenza privata, violenza sessuale, lesione personali, sequestro di persona ai danni della ex fidanzata.

Per l’annullamento della ordinanza, l’indagato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione; indi, nei modi e nelle forme di legge, ha rinunciato alla impugnazione senza indicare la ragione della sua scelta processuale.

In tale contesto, alla Corte non rimane che dichiarare la inammissibilità del ricorso, a sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1 sub d), con condanna del proponente (non risultando che l’interesse alla decisione del ricorso sia venuta meno dopo la sua proposizione) al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma – che il Collegio reputa congruo fissare in Euro cinquecento – alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro cinquecento alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.