Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 16-06-2011) 12-10-2011, n. 36785

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Svolgimento del processo

1.- Con ordinanza 3 maggio 2010 il Tribunale di Modena, in funzione di giudice dell’esecuzione, respingeva la richiesta proposta da C.A. volta ad ottenere l’applicazione della disciplina del reato continuato in relazione ai reati per i quali aveva riportato condanna in forza delle seguenti sentenze: 1) Tribunale collegiale di Modena del 30 giugno 2005; 2) Tribunale monocratico di Modena del 22 luglio 2008; 3) Tribunale monocratico di Reggio Emilia del 22 dicembre 2006. Preliminarmente il tribunale dichiarava infondata l’eccezione difensiva concernente la competenza, rilevava in proposito: che la decisione passata in giudicato per ultima era la sentenza pronunciata dal Tribunale di Modena – sezione distaccata di Pavullo del 17.6.2005, irrevocabile il 17.12.2009, per cui doveva essere applicata la regola di cui all’art. 665 c.p.p., comma 4 bis, posto che, in ogni caso, la Sezione di Pavullo costituisce una articolazione del Tribunale di Modena e non un organo giudiziario diverso. Nel merito riteneva l’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta in quanto dall’esame dei provvedimenti impugnati non risultava sussistente l’unitaria ideazione dei vari episodi criminosi a cagione della distanza temporale tra gli stessi e delle diverse modalità di condotta con le quali erano stati realizzati.

2.- Propone ricorso per Cassazione l’avvocato Paolo Virgili, difensore di C.A. adducendo a ragione:

a) Violazione dell’art. 665 c.p.p. e manifesta illogicità e/o mancanza di motivazione. Assume il ricorrente che l’eccezione formulata dal legislatore all’art. 665 c.p.p., comma 4 bis, proprio perchè si tratta di eccezione alla regola della competenza funzionale del giudice dell’esecuzione, che è inderogabile e la cui inosservanza è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, deve essere intesa in senso restrittivo per cui deve ritenersi giudice diverso, ai sensi dell’art. 665 c.p.p., comma 4, anche quello che giudica in una sezione distaccata, che non può ritenersi mera articolazione di un unico tribunale, a mente anche del contenuto dell’art. 163 bis disp. att. c.p.p.. Rilevava sul punto che già in precedenza sia il Tribunale di Pavullo che il la Procura della Repubblica di Modena avevano individuato quale giudice dell’esecuzione competente quell’organo giudiziario in relazione ad una richiesta di condono.

2) Violazione dell’art. 671 c.p.p. in relazione all’art. 81 c.p. e mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della motivazione. Si duole il ricorrente che il giudice, nel merito, non abbia tenuto conto, ai fini del riconoscimento del vincolo della continuazione anche solo tra alcuni di essi, che si tratta di reati contro il patrimonio, commessi nel periodo dal 1994 al 2008 in un ambito territoriale ristretto, con ciò violando il combinato disposto dell’art. 81 c.p. e art. 671 c.p.p. quale delineato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di requisiti per l’applicazione della disciplina della continuazione in esecutivis.

1.3.- Il Procuratore Generale presso questa Corte dott. Francesco Mauro Iacoviello, con atto depositato il 13.12.2011, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile con le conseguenze di legge.

Motivi della decisione

1.- Il ricorso infondato.

2.- Quanto al primo motivo di ricorso è appena il caso di rilevare che la competenza del giudice dell’esecuzione attiene all’ufficio giudiziario e non al giudice persona fisica o comunque alla sezione che ha eventualmente pronunciato in sede di cognizione, poichè la suddivisione degli affari tra le sezioni ed i singoli giudici attiene a questione tabellare interna e non alla capacità e tanto meno alla competenza del giudice (Sez. 2, sent. 18.6.2008, n. 27948, Rv.

240697; Sez. 1, sent. 1.2.2007, n. 12484, Merico, Rv. 236383; Sez. 6, sent. 14.7.2005, n. 27856, Colubriale, Rv. 232310).

Ai sensi, infatti, dell’art. 33 c.p.p., comma 2, non attengono alla capacità del giudice e, pertanto, non sono riconducibili alla previsione dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a), le disposizioni relative all’assegnazione dei processi alle sezioni, ivi comprese quelle distaccate, del medesimo ufficio giudiziario, all’interno del quale esse sono costituite per finalità meramente organizzazione, con la conseguenza che non è configurabile una questione di competenza per territorio nei rapporti fra le sedi dello stesso ufficio.

Il D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 217 ha inserito nel codice di rito l’art. 163 bis disp. att. c.p.c., il quale, al comma 1, dispone che "l’inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica è rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado". Al comma 2, poi, la stessa norma prevede che "il giudice, se ravvisa l’inosservanza o ritiene, comunque, non manifestamente infondata la relativa questione, rimette gli atti al presidente del tribunale che provvede con decreto non impugnabile". Tale disciplina è collegata alla disposizione di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 1, art. 48 quater, anch’esso introdotto dal D.Lgs. 19 febbraio 198, n. 51 con l’art. 15, il quale dispone che "nelle sezioni distaccate sono trattati gli affari civili o penali sui quali il tribunale giudica in composizione monocratica, quando il luogo in ragione del quale è determinata la competenza per territorio rientra nella circoscrizione delle sezioni medesime". La normativa richiamata ha costituito una distribuzione degli affari tra articolazioni appartenenti ad un unico ufficio, prevista per ragioni di organizzazione interna e di migliore fruibilità del servizio giustizia, e non già un riparto di competenza territoriale, rispetto al quale siano configurabili questioni di competenza (Sez. 6, sent. 1.12.2003, n. 2544, PM in proc. Permetta, Rv. 228067).

3.- Riguardo al secondo motivo di gravame osserva il Collegio che, sulla base della ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, la continuazione presuppone l’anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo, almeno a grandi linee, nella loro specificità, situazione che va tenuta distinta dalla mera inclinazione, da parte del reo medesimo, a reiterare nel tempo reati della stessa specie, anche quando tale propensione alla reiterazione sia dovuta ad una scelta di vita deviante. Tra gli indici rivelatori dell’identità del disegno criminoso devono essere apprezzati la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la tipologia dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le circostanze di tempo e di luogo. Qualora ricorra anche solo taluno di detti indici il giudice deve accertare se sussista o meno la preordinazione di fondo che cementa le singole violazioni con valutazione che va eseguita sulla base del raffronto del contenuto decisorio delle sentenze di condanna conseguite alle azioni od omissioni che si assumono essere "in continuazione" (Cass. Sez. 1, 16.1.2009, n. 3747, RV 242537).

Nel caso di specie la circostanza che tutti i reati in relazione ai quali è domandata l’applicazione della disciplina di cui all’art. 81 cpv. c.p. e art. 671 c.p.p., siano reati contro il patrimonio, di per sè stessa, non è significativa dell’assunta identità della comune e contestuale origine ideativa e programmatoria delle varie condotte delittuose laddove, con apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità, il giudice dell’esecuzione ha accertato, previo esame dei dati specifici ricavabili dalle singole sentenze, che difettano altri indicatori imprescindibili dell’assunta identità dell’originario programma criminoso, per alcune delle varie condotte delittuose: quali la contiguità temporale, i titoli di reato e la coincidenza in ordine modalità di consumazione degli illeciti, in particolare la diversità dei soggetti con i quali il C. si è associato o ha concorso per la commissione dei fatti, gli obiettivi delle azioni criminose.

Su tutti questi aspetti il ricorrente nulla deduce limitandosi ad enumerare e riportare una serie di massime di diritto enucleate da questa corte di legittimità, senza ancorarle ad alcuna emergenza fattuale specifica attinente al caso concreto.

4.- Per le ragioni sopraesposte il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-04-2012, n. 6613 Opposizione

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Svolgimento del processo

Con citazione ritualmente notificata il Comune di Sulmona proponeva opposizione al d.i. del Presidente del Tribunale di Sulmona che gli ingiungeva il pagamento di L. 44.766.792 per sorte capitale, L. 447.000 per diritti di revisione e L. 13.386.615 per interessi più spese per prestazioni professionali dell’ing. V.G..

Assumeva l’opponente di aver affidato all’opposto l’incarico di progettazione di una piscina comunale, di averne approvato il progetto e di averlo nominato direttore dei lavori ma che l’opera non era stata portata a termine a causa di errori di progettazione riconducibili alla responsabilità professionale, con necessità di predisporre un progetto di completamento.

Concludeva per l’insussistenza del credito sia perchè alcune prestazioni non erano state rese sia perchè le opere realizzate manifestavano vistosi vizi che aggravavano i danni patrimoniali del Comune, come da riconvenzionale proposta. L’opposto chiedeva il rigetto dell’opposizione ed, avendo nelle more proposto altro giudizio per il pagamento delle ulteriori prestazioni per un importo di L. 184.665.715, si provvedeva alla riunione.

Con sentenza 73/01 il tribunale revocava il d.i. e, per le ulteriori prestazioni, condannava il comune al pagamento di L. 212.765.846, oltre accessori, sentenza appellata dal V. ed, in via incidentale dal Comune.

Con sentenza n. 2/2006 la Corte di appello di L’Aquila rigettava gli appelli e compensava le spese sul presupposto che l’imputazione al V. del danno di lire 16.666.666 era conseguenza degli errati computi metrici e delle conseguenti previsioni economiche con non esatta corrispondenza tra l’opera progettata ed i costi mentre l’incidentale si basava su inammissibili censure alla ctu.

Ricorre V. con cinque motivi, e relativi quesiti, illustrati da memoria, non svolge difese il Comune.

Motivi della decisione

Con il primo motivo (indicato come L1) si deducono violazioni dell’art. 112 c.p.c. sui vizi relativi alla responsabilità per costi aggiuntivi perchè mai il Comune aveva chiesto la ripetizione dei costi aggiuntivi per l’ulteriore progettazione essendosi limitato a chiedere genericamente il risarcimento dei danni e dei pregiudizi subiti e subendi.

Col secondo motivo (indicato come 1.2) si lamenta contraddittoria motivazione sotto il medesimo profilo.

Col terzo motivo (indicato come 1.3) si denunzia omessa od insufficiente motivazione perchè la Corte di appello nell’accogliere parzialmente l’appello incidentale, ha ritenuto il V. corresponsabile nella misura di 1/3 nella causazione del danno per l’onere aggiuntivo economico di L. 50.000.000. Col quarto motivo (indicato come 3.1) si denunzia violazione dell’art. 1124 c.c. e della L. n. 143 del 1949, art. 9 sul calcolo degli interessi.

Col quinto motivo (indicato come 3.1) si lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. per essere stati chiesti sia in primo che in secondo grado enpai ed iva spettanti per legge. Le prime tre censure, che possono esaminarsi congiuntamente, sono infondate. In ordine al primo motivo non esiste alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c. perchè il Comune aveva lamentato errori di progettazione con necessità di predisporre un progetto di completamento con aggravio di spese chiedendo i danni sofferti in conseguenza dell’attività prestata dal professionista da liquidarsi secondo ctu o in via equitativa e la sentenza ha imputato il danno di L. 16.666.666 per una parte di colpa nella causazione in ordine all’onere aggiuntivo di L. 50.000.000 per procedere ad una nuova progettazione, precisando che l’imputazione era conseguenza degli errati computi metrici e delle conseguenti previsioni economiche.

Nè vi è alcuna contraddizione nella motivazione, come lamentato col secondo motivo.

In ordine al terzo motivo, a prescindere dal rilievo che la Corte di appello non ha accolto parzialmente l’incidentale del Comune ma respinto l’impugnazione principale sul punto, valgono le stesse considerazioni circa l’assenza di vizi della sentenza impugnata.

In ordine al quarto motivo la sentenza ha statuito che la decorrenza degli interessi risulta correttamente fissata con riferimento al deposito della ctu, da considerarsi la data in cui è stato accertato il credito.

Il quinto motivo, oltre che genericamente formulato, omette di considerare che la sentenza riferisce di un appello del V. solo in ordine alla ingiusta imputazione di L. 16.666.666 ed alla decorrenza degli interessi nè si chiarisce a quale dei due giudizi riuniti si riferisca la pretesa.

Donde il rigetto del ricorso, senza pronunzia sulle spese, attesa la mancata costituzione del Comune in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 28-05-2012, n. 8477 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

Con ricorsi depositati in data 18 giugno 2007 presso la Corte d’appello di Roma, P.M., B.P. e C. A. hanno chiesto il riconoscimento dell’equa riparazione per la irragionevole durata di un processo, introdotto dinnanzi al TAR del Lazio con ricorso depositato il 22 luglio 1998 e concluso con sentenza depositata il 25 settembre 2006.

L’adita Corte d’appello ha ritenuto violata la durata ragionevole del processo per cinque anni circa, liquidando in favore di ciascuno dei ricorrenti la somma di Euro 5.000,00, computata sulla base di un importo di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, con interessi dalla data della domanda al saldo.

Per la cassazione di questo decreto P.M. propone ricorso sulla base di due motivi; l’intimata amministrazione non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Il collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e degli artt. 6, par. 1, e 13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 cod. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia riconosciuto l’indennizzo solo in relazione agli anni di eccessiva durata del giudizio presupposto e non alla intera durata di tale giudizio, come imposto dalla giurisprudenza della Corte Europea.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione rilevando che la Corte d’appello, pur avendo affermato di volersi attenere ai parametri della Corte Europea, si è di fatto poi da tali parametri distaccata.

Il ricorso, i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte è saldamente orientata nel senso che ai fini della liquidazione dell’ indennizzo del danno conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo stesso, essendo vincolante, per il giudice nazionale, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole (Cass. 21597 del 2005).

Tale interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 è poi stata ritenuta immune da dubbi di costituzionalità, essendosi dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità del citato L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’equa riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo eccedente il termine di ragionevole durata, non essendo ravvisabile alcuna violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in riferimento alla compatibilità con gli impegni internazionali assunti dall’Italia mediante la ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente osservato il parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione dell’indennizzo, la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal giudice Europeo; diversamente opinando, poichè le norme CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata del processo, rispetto al novellato art. 111 Cost., comma 2, in base al quale il processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo profilarsi, quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con altri diritti costituzionalmente tutelati. Nè a conclusioni diverse perviene la stessa giurisprudenza della predetta Corte internazionale che – nei precedenti Martinetti e Cavazzuti c. Italia del 20 aprile 2010, Delle Cave e Corrado c. Italia del 5 giugno 2007 e Simaldone c. Italia del 31 marzo 2009 – ha osservato che il solo indennizzo, come previsto dalla Legge Italiana n. 89 del 2001, del pregiudizio connesso alla durata eccedente il ritardo non ragionevole, si correla ad un margine di apprezzamento di cui dispone ciascuno Stato aderente alla CEDU, che può istituire una tutela per via giudiziaria coerente con il proprio ordinamento giuridico e le sue tradizioni, in conformità al livello di vita del Paese, conseguendone che il citato metodo di calcolo previsto dalla legge italiana, pur non corrispondendo in modo esatto ai parametri enunciati dalla Corte EDU, non è in sè decisivo, purchè i giudici italiani concedano un indennizzo per somme che non siano irragionevoli rispetto a quelle disposte dalla CEDU per casi simili (Cass. n. 478 del 2011).

Il Collegio condivide tale orientamento, sicchè, avendo la Corte d’appello liquidato per gli anni eccedenti la ragionevole durata del processo presupposto un indennizzo di Euro 1.000,00 per anno, e quindi un indennizzo pienamente in linea con gli orientamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo e di questa Corte, il ricorso deve essere rigettato.

Non avendo l’amministrazione intimata svolto attività difensiva non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-10-2011) 06-12-2011, n. 45358

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.-. D.L. e D.S. ricorrono per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di Appello di Firenze ha confermato la condanna di entrambi, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, alla pena (condizionalmente sospesa) di mesi sei di reclusione ciascuno per i reati di abuso dei mezzi di disciplina e tentata violenza privata commessi ai danni della figlia minore, D.A..

I ricorrenti deducono:

– Erronea applicazione dell’art. 571 c.p., e vizio di motivazione sul punto, in quanto la Corte di merito si sarebbe limitata ad affermare la sussistenza degli eccessi punitivi ai danni della minore senza prendere in considerazione il contesto socio-culturale e la totale mancanza di finalità vessatorie nei comportamenti tenuti, dettati unicamente dalla paura che la ragazza, invaghitasi di un coetaneo italiano, potesse andarsene di casa.

– I medesimi vizi in riferimento alla "segregazione" (da loro asseritamene riservata alla figlia minore), non potendosi qualificare come tale il divieto temporaneo imposto, in funzione meramente educativa, alla ragazza di usare il telefonino e di terminare il suo lavoro in un bar per la stagione estiva.

– Insussistenza in ogni caso dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 571 c.p..

– Violazione dell’art. 610 c.p., non sussistendo realmente le minacce contestate.

– Insussistenza di tutti i reati contestati, anche alla luce della ricostituzione del nucleo familiare, nel frattempo intervenuta.

2.-. I ricorsi sono inammissibili per genericità e per manifesta infondatezza. Tutte le censure prospettate negli atti di impugnazione sono, infatti, già state sottoposte alla Corte di merito, che le ha rigettate con idonea motivazione. In particolare, la Corte di Appello di Firenze, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, ha preso in esame il contesto socio-culturale e le finalità che animavano gli imputati (correggere la figlia al fine di farla adeguare ai loro canoni di vita), ma ha osservato che, tuttavia, sussisteva il contestato abuso di mezzi di correzione per la indubbia sproporzione tra i mezzi adoperati e le modalità della loro attuazione.

A parte il fatto che questa Corte ha precisato che integra addirittura il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore (Sez. 6, Sentenza n. 48272 del 07/10/2009, Rv. 245329,: E.F.) e che ai fini dell’integrazione della fattispecie prevista dall’art. 571 c.p., è sufficiente il dolo generico, non essendo richiesto dalla norma il fine specifico, ossia un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare la condotta di abuso (Sez. 6, Sentenza n. 18289 del 16/02/2010, P.G. in proc. P.).

Quanto alla asserita inesistenza nel caso in esame della contestata "segregazione" della figlia e delle minacce ascritte ai prevenuti, deve rilevarsi che le censure dei ricorrenti attengono alla vantazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimità quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica. Nel caso di specie, i giudici di appello, come si è visto, hanno preso in esame tutte le deduzioni difensive e sono pervenuti alla decisione impugnata attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.

Le residue doglianze sono anch’esse inammissibili per difetto di specificità, atteso che la censure sono formulate in modo astratto e stereotipato, senza alcuna illustrazione concreta delle doglianze a cui la motivazione della sentenza impugnata avrebbe omesso di rispondere.

3.-. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che, in relazione ai motivi dell’inammissibilità, si stima equo determinare in Euro mille.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.