Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 17-01-2011, n. 24

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) – Con ricorso notificato il 24 maggio 2004, i signori An.Fu., Fr.Fu., Gr.Ba., Pi.Fi., Le.In., An.In., Pi.In., Pa.Ia. e Gi.Co. adivano il T.A.R Sicilia, sede di Palermo, chiedendo l’annullamento dei provvedimenti della Sovrintendenza di Agrigento, prot. n. 2401 e 2402, notificate mediante raccomandate del 25 marzo 2004 e aventi a oggetto il diniego del nulla osta per le istanze di sanatoria relative a due edifici residenziali ubicati nel territorio del Comune di Realmonte, contrada (…).

2) – Con sentenza n. 143 del 1 febbraio 2008, il T.A.R. respingeva il ricorso.

Quanto al primo motivo di censura, concernente la violazione dell’art. 17, comma 11, della legge regionale siciliana 16 aprile 2003, n. 4, a mente del quale "il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell’opera abusiva", il giudice adito faceva presente che tale disposizione legislativa era stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 39 dell’8 febbraio 2006.

Era, altresì, respinto il secondo motivo di censura, con il quale i ricorrenti contestavano il potere della Soprintendenza di emanare provvedimenti limitativi del diritto di edificare in relazione a immobili la cui realizzazione (ancorché non ultimata) era cominciata in data anteriore a quella di imposizione del vincolo paesaggistico sull’area interessata.

Il T.A.R. faceva presente in proposito che lo stesso giorno in cui i lavori avrebbero dovuto essere avviati (secondo la comunicazione dei proprietari), il 14 maggio 1993, il Comune di Realmonte aveva diffidato i ricorrenti dall’intraprendere i lavori, emanando il successivo 19 maggio l’ordinanza di sospensione dei lavori.

Da tale momento – soggiungeva il T.A.R. – fino all’atto dell’imposizione del vincolo paesaggistico, nessuna sopravvenienza aveva mutato la situazione di fatto o di diritto in senso favorevole ai ricorrenti, si da consentire loro di poter legittimamente censurare i provvedimenti impugnati.

Il T.A.R. respingeva, infine, il terzo motivo di censura con il quale i ricorrenti contestavano il contenuto della scelta valutativa operata dall’Amministrazione preposta alla tutela del paesaggio, richiamando l’orientamento giurisprudenziale in base al quale "il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione deve pur sempre essere circoscritto nell’ambito di vizi della legittimità, non potendo sfociare nella pura e semplice sostituzione della scelta operata dall’amministrazione – se plausibile, corretta e tecnicamente accettabile – con la scelta tecnica del giudice".

3) – I ricorrenti hanno proposto appello contro la summenzionata sentenza.

Resiste all’appello l’intimata Amministrazione regionale.

4) – Con il primo motivo di censura, gli appellanti ripropongono la tesi secondo cui i vincoli paesaggistici, e comunque afferenti alle bellezze naturali, non operano retroattivamente, non risultando applicabili alle opere già autorizzate ed iniziate prima dell’imposizione dei vincoli medesimi.

In particolare, gli appellanti sostengono di avere realizzato i manufatti esistenti sui terreni di loro proprietà nel giorno 14 maggio 1993 e durante il periodo di tempo intercorrente fra il 1 settembre e il 30 settembre 1993, sulla scorta di concessioni edilizie pienamente valide ed efficaci.

La censura è infondata.

Come rettamente obiettato dall’Avvocatura dello Stato, tale doglianza costituisce – di fatto – la proposizione, sotto altra veste, del primo motivo originario d’impugnazione, respinto in prime cure e in questa fase di appello abbandonato, relativo alla dedotta violazione dell’art. 17 comma 11, della legge regionale siciliana 16 aprile 2003, n. 4. Sennonché, in virtù della sentenza n. 39/2006 della Corte costituzionale, tale norma è stata espunta dall’ordinamento giuridico.

Più in dettaglio, come ricordato da questo C.G.A. nella recente decisione 18 novembre 2009, n. 1091, la Corte Costituzionale ha specificato che: "l’interpretazione autentica dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37 del 1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l’art. 5, comma 3, della legge n. 17 del 1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione omogenea e incontrastata di una disposizione che altrimenti avrebbe potuto produrre applicazioni difformi. D’altra parte, a livello nazionale, si è venuta affermando una soluzione analoga in sede di interpretazione giurisprudenziale dell’art. 32 della legge statale n. 47 del 1985, specie dopo l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 22 luglio 1999, n. 20".

Ne consegue che, ai sensi dell’art. 23, comma 10, della legge regionale n. 37/1985, come autenticamente interpretato dall’art. 5, comma 3 della Legge regionale n. 17/1994, la concessione edilizia in sanatoria è subordinata al preventivo nulla osta della Soprintendenza anche per opere abusive realizzate in data antecedente all’imposizione del vincolo.

Ad ogni modo, nella fattispecie in esame deve escludersi che il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva, risultando dalla documentazione in atti che il provvedimento della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali del 15 giugno 1993 (che ha esteso il vincolo paesaggistico gravante sulla zona alle aree di proprietà degli appellanti) è stato affisso sull’albo pretorio del Comune di Realmonte in data 16 luglio 1993, quando, cioè, era stato realizzato soltanto "una parte dello sbancamento necessario per la realizzazione delle fondamenta degli edifici".

5) – Con il secondo motivo di appello si ripropone il terzo motivo di impugnazione originaria con il quale gli appellanti avevano dedotto la censura di eccesso di potere per difetto di motivazione.

In particolare, si ripropone il contenuto di una consulenza tecnica nella quale si cerca di dimostrare come i fabbricati in questione "non rechino alcun disturbo al panorama del promontorio di Lido Rossello".

La censura è infondata.

Come rettamente osservato dal giudice di prime cure, la valutazione tecnico-discrezionale che si pretende di censurare è cosa diversa dalla soggettiva ricognizione del "disturbo" al "panorama", essendo correlata ad un più complesso ed articolato procedimento valutativo, peraltro analiticamente riprodotto nella strutturata motivazione dei provvedimenti gravati. Detta motivazione, per vero, richiama un fenomeno di "disturbo ambientale", causato dal fabbricato considerato per effetto della sua frapposizione all’interno del cono visuale che unisce Capo Rossello con la Scala dei Turchi, ma lo collega, opportunamente, a "quegli aspetti singolari che il vasto panorama costiero con i suoi promontori suscitano a chi voglia ammirare in modo unitario lo splendore del panorama, che con ritmo serrato mostra il succedersi di forme e colori…".

A ben vedere, dunque, la pretesa di sindacare il merito della valutazione paesaggistica si infrange, prima ancora che contro i caratteri del sindacato giurisdizionale di tali poteri, contro i limiti di una critica non obiettiva e, soprattutto, non unitaria dello stato dei luoghi e delle connesse caratteristiche paesaggistico – ambientali.

6) – Con il terzo motivo di appello è riproposta la doglianza volta a censurare la parte motiva dei provvedimenti impugnati nella parte in cui la Soprintendenza aveva ritenuto di soffermarsi anche su questioni strettamente attinenti alla geologia e paleontologia con argomentazioni – come sostengono gli appellanti – che sarebbero state di esclusiva competenza dell’Ispettorato Ripartimentale delle Foreste il quale, nel caso di specie, aveva rilasciato il proprio nulla osta alla realizzazione degli interventi edilizi.

In particolare, la critica si appunta avverso la parte delle premesse dei provvedimenti impugnati in cui la Soprintendenza riferiva che "il sito in questione analogamente a punta Maiata e alla più celebre Scala dei Turchi è considerato, dal punto di vista delle condizioni lito-stratigrafiche di particolare pregio, di singolarità di tipo geologico con la presenza di calanchi argillosi il cui tipico aspetto è la sintesi di processi millenari determinati dagli aspetti esogeni; esso è parte integrante di una fascia in cui è riscontrabile una stratigrafia con peculiarità sedimentologiche e paleontologiche di notevole interesse a riferimento regionale e interregionale".

La censura è infondata.

Contrariamente a quanto sostenuto nella consulenza tecnica di parte deve escludersi che la Soprintendenza abbia voluto "prospettare una condizione di pericolo per la stabilità della formazione arrecata o comunque correlata con la presenza dei fabbricati".

Il giudizio espresso dalla Soprintendenza sul punto s’inserisce pur esso nella valutazione ambientale che si è sopra esposta.

7) – Gli appellanti hanno, infine, sostenuto l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto di disporre la loro condanna al pagamento delle spese di lite.

A loro avviso, il T.A.R. aveva omesso di considerare che il primo motivo di impugnazione, a mezzo del quale era stata dedotta la violazione dell’art. 17, comma 11, della L.R. n. 4/2003, pur fondato, non aveva potuto trovare accoglimento in quanto la richiamata disposizione di legge era stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 39/2006 della Corte Costituzionale.

La censura è infondata, perché non considera che, come si ricava dall’art. 136 Cost. e dalla legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, le sentenze di accoglimento di un’eccezione di illegittimità costituzionale hanno effetto retroattivo, con l’unico limite delle situazioni consolidate per essersi il relativo rapporto definitivamente esaurito (cfr., di recente, Cass. Civ., sez. III, 5 marzo 2007, n. 5074).

8) – In conclusione, per le suesposte considerazioni, l’appello deve essere respinto, con assorbimento di ogni altro motivo od eccezione, in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Le spese e gli onorari del giudizio sono posti a carico degli appellanti e sono liquidati a favore dell’Amministrazione appellata nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, respinge l’appello.

Condanna gli appellanti al pagamento a favore dell’Assessorato ai Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana delle spese, competenze e onorari del giudizio che liquida complessivamente in Euro 4.000,00 (quattromila/00) oltre accessori di legge.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo il 16 marzo 2010, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Chiarenza Millemaggi Cogliani, Guido Salemi, estensore, Filippo Salvia, Pietro Ciani, componenti.

Depositata in Segreteria il 17 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, Sent., 28-01-2011, n. 131

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il proposto ricorso viene impugnato il decreto del 3 settembre 2007, adottato dal Prefetto di Cosenza, con cui si fa divieto al ricorrente di detenere armi, munizioni e materie esplodenti.

Dall’avversato provvedimento si rileva che il ricorrente, in base alle note della Tenenza Carabinieri di Cassano allo Ionio, risulta coinvolto in diversi procedimenti giudiziari per i reati di falsità ideologica, emissione di assegni a vuoto, violenza privata, truffa in danno della CEE. Inoltre, in seguito ad un controllo effettuato sulle armi e munizioni in possesso del ricorrente, sono risultate mancanti alcune decine di munizioni per essere state esplose in occasione delle festività di fine anno.

Avverso il decreto prefettizio è proposto il presente ricorso a sostegno del quale sono dedotte le seguenti censure:

violazione ed errata interpretazione dell’art.39 R.D. del 18 giugno 1931 n.773;

abuso di potere per motivazione carente e/o inesistente e per travisamento dei fatti, per illogicità e contraddittorietà della ricostruzione della fattispecie.

Si è costituita in giudizio l’intimata amministrazione affermando l’infondatezza del ricorso e chiedendo che lo stesso venga respinto.

Alla pubblica udienza del 19 novembre 2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorso è infondato e pertanto va respinto.

Come si è detto, con il ricorso in esame è chiesto l’annullamento del decreto del Prefetto di Cosenza con cui è stato fatto divieto al ricorrente di detenere armi e munizioni.

Osserva il Collegio che la licenza di porto d’armi è provvedimento ampliativo che permette l’utilizzo di un mezzo in tutti gli altri casi vietato dall’ordinamento. In materia di rilascio (o di revoca) del porto d’armi, l’Autorità di P.S., poiché deve perseguire la finalità di prevenire la commissione di reati e/o fatti lesivi dell’ordine pubblico, ha un’ampia discrezionalità nel valutare l’affidabilità del soggetto di fare buon uso delle armi; a tal fine il provvedimento di rilascio del porto d’armi e l’autorizzazione a goderne in prosieguo richiedono che l’istante sia una persona esente da mende e al disopra di ogni sospetto e/o indizio negativo e nei confronti della quale esista la completa sicurezza circa il corretto uso delle armi, in modo da scongiurare dubbi e perplessità sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività. E ciò anche perché il rapporto giuridico che scaturisce dal rilascio di detta autorizzazione di polizia resta pur sempre subordinato, in tutto il suo svolgimento, alla coincidenza con l’interesse pubblico, rimesso appunto alla valutazione discrezionale della P.A., il cui giudizio non può essere sindacato se non sotto il profilo del rispetto dei canoni di ragionevolezza e della coerenza. (cfr., ex multis, Cons. St. Sez. VI 5.4.2007 n. 152, Sez. IV, 8.5.2003, n. 2424, 30.7.2002, n. 4073; 29.11.2000, n. 6347).

Il divieto di detenere armi adottato dall’autorità di P.S. ai sensi dell’art. 39, r.d. 18 giugno 1931 n. 773 è caratterizzato, quindi, da tratti significativi di discrezionalità, dato che è fondato su un giudizio prognostico di non abuso delle armi da parte del titolare, che ben può essere basato su elementi anche soltanto di carattere indiziario (Consiglio Stato, sez. VI, 06 luglio 2010, n. 4280).

Proprio perché i poteri dell’Autorità di P.S. nella materia in esame sono finalizzati alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, la giurisprudenza amministrativa ritiene che i relativi provvedimenti negativi sono sufficientemente motivati mediante il riferimento a fatti idonei a far dubitare, anche solo per indizi, della sussistenza dei requisiti di affidabilità richiesti dalla normativa in materia (cfr. in argomento, tra le tante, T.A.R. Molise Campobasso, 2 aprile 2008, n. 109), fermo restando che rientra nella discrezionalità amministrativa la valutazione, ai fini del giudizio di affidabilità rispetto al non abuso delle armi, di singoli episodi anche risultati privi di rilevanza penale (cfr. in argomento T.A.R. Piemonte, sez. II, 17 marzo 2007, n. 1317; T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 28 febbraio 2008, n. 341).

In ordine alla valutazione di affidabilità del soggetto interessato circa la detenzione di armi, prevista dall’art. 39 del Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), di cui al R.D. 18.6.1931, n.773., ovvero in ordine al giudizio prognostico circa la possibilità che egli ne abusi, il giudice amministrativo è titolare di un sindacato sul vizio di eccesso di potere limitato alla valutazione della congruità e della logicità della motivazione adottata dall’autorità di P.S. (cfr. Cons. Stato Sez. VI, sent. n. 379 del 29012010).

La giurisprudenza amministrativa, infine, relativamente alla motivazione dei provvedimenti in materia di armi, ha stabilito che gli stessi sono censurabili solo se la detta motivazione è del tutto mancante o manifestamente illogica, in quanto spetta all’Amministrazione decidere se il soggetto dia o meno affidamento in ordine al non abuso dell’arma (cfr. Tar Piemonte, sez. 2, 14.4.2004 n. 849; Tar Veneto, 01.06.2001 n. 1383; C.d.S., sez. IV, 19.12.1997 n. 1440).

Alla luce del richiamato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, ritiene il Collegio che il provvedimento impugnato è legittimo poiché adeguatamente motivato. Nella specie, infatti, le risultanze informative negative a carico del ricorrente, in atti del presente giudizio, sono sufficienti a giustificare l’apprezzamento operato dall’Autorità prefettizia in ordine al pericolo di abuso, che poi fonda il divieto di detenzione di armi e munizioni.

Nella documentazione prodotta dall’amministrazione, in particolare nella proposta per il diniego della detenzione di armi e munizioni formulata dai Carabinieri della Tenenza di Cassano allo Ionio si legge che il ricorrente è stato sottoposto agli arresti domiciliari per reato di falsità ideologica al fine di conseguire erogazioni pubbliche, è stato destinatario di un avviso orale, condannato per emissione di assegni a vuoto, per violenza privata, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla truffa in danno della CEE, dell’AIMA e dello Stato, denunciato per percosse e danneggiamento, invasione di terreni, truffa e falsità materiale ai danni dell’Inps e Inail.

Nel decreto di revoca del porto d’armi si legge anche che il ricorrente avrebbe esploso le munizioni mancanti (da 40 denunciate inizialmente ne sono state ritrovate solo 14 dai Carabinieri) " in occasione delle festività di fine d’anno secondo una consuetudine ormai invalsa".

Questi elementi, quindi, attesa la ampia discrezionalità che l’ordinamento riconosce all’Amministrazione nel rilascio di una autorizzazione di polizia, ben possono fondare il divieto in questione. Le circostanze sopra enumerate e che fondano il provvedimento impugnato sono sufficientemente idonee a far ritenere legittima la valutazione operata dall’amministrazione secondo cui l’interessato non riunisce più i requisiti soggettivi di affidabilità richiesti per il mantenimento della titolarità della autorizzazione di polizia rilasciata in precedenza.

Alla luce di tali considerazione il ricorso deve essere respinto.

Sussistono giustificate ragione per compensare le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Romeo, Presidente

Concetta Anastasi, Consigliere

Anna Corrado, Referendario, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cassazione n. 9847 del 24 aprile 2009 Circolazione stradale, multe, contravvenzioni, automezzi aziendali, turni di servizio ( 2009-05-12)

FATTO E DIRITTO

Il Comune di PARMA impugna la sentenza n. 1797 del 2005 del Giudice di Pace di Parma, con la quale veniva l’accolta l’opposizione proposta dall’odierna parte intimata, T.M. quale legale rappresentante della Ditta T.E. e. f. , avverso il verbale di accertamento n. 869Z/2005, col quale veniva comminata una sanzione di euro 357,00, ai sensi dell’articolo 180 C.d.S., comma 8, per aver la societa’ omesso senza giustificato motivo di ottemperare all’invito di indicare le generalita’ del conducente del veicolo di sua proprieta’ in relazione al quale era stata accertata la violazione di cui all’articolo 142 C.d.S..

Ricevuta la contestazione dell’infrazione e la richiesta di indicazione del nominativo del conducente, l’intimato aveva comunicato di non essere in grado di fornire tale indicazione in relazione al numero delle persone autorizzate all’uso del veicolo.

Il Giudice di Pace accoglieva l’opposizione, ritenendo giustificata la mancata comunicazione per la difficolta’ di individuare il conducente del mezzo al momento dell’accertata infrazione.

L’amministrazione ricorrente articola un motivo di ricorso col quale denuncia la violazione dell’articolo 126 bis C.d.S., comma 2, e articolo 180 C.d.S., comma 8, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO – SENTENZA 11 marzo 2011, n.5884 LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e dell’incidentale (art. 335 c.p.c.).

1. Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane S.p.A., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (con riguardo alla pretesa incompletezza della comunicazione di avvio della procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3), sostiene che il Giudice di secondo grado è pervenuto alla conclusione circa l’insufficienza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo per effetto di una errata interpretazione rigoristica della norma (L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3) che fissa il contenuto della predetta comunicazione. Secondo Poste Italiane S.p.A., il Giudice di appello, laddove ha ritenuto che la indicazione contenuta nella comunicazione iniziale dell’azienda delle qualifiche "quadro di 1^ livello e di 2^ livello", nonchè delle c.d. Aree professionali di inquadramento non integri la indicazione dei "profili professionali" del personale eccedente di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, si sarebbe attenuto ad una concezione estremamente formalistica del precetto legale, trascurando il carattere atecnico e quindi generico dell’espressione "profilo professionale" e che l’adeguatezza della comunicazione si sarebbe dovuta valutare in relazione alle finalità che il legislatore le assegna.

2. Con il secondo e terzo motivo di ricorso, si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, e vizio della motivazione, con riguardo alla determinazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità ed alla individuazione dei settori aziendali interessati alla procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4.

3. La Corte, esaminati unitariamente i motivi di ricorso per la connessione tra le diverse censure, li giudica fondati nei sensi e nei limiti delle considerazioni seguenti.

4. Devono essere, in primo luogo, richiamati i principi enunciati dalla giurisprudenza nella Corte nell’interpretazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni (Legge emanata sullo schema della direttiva Cee 1975/129, così come modificata dalla più recente direttiva 1992/56): a) come precisato da Cass. 12 ottobre 1999, n. 11455 e dalle conformi decisioni successive (v. più di recente Cass. n. 84/2009; Cass. n.4653/2009), la fattispecie del licenziamento collettivo per riduzione di personale ricorre in presenza dell’operazione imprenditoriale di "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" (art. 24), operazione che, da una parte, esclude dal suo ambito i licenziamenti dovuti a ragioni inerenti alla persona del lavoratore, per l’altra parte esclude anche i licenziamenti individuali per le stesse ragioni oggettive, ancorchè plurimi, qualora non sia siano presenti i requisiti di rilevanza sociale collegati agli indici previsti dalla legge (il numero dei licenziamenti ai sensi dell’art. 24, comma 1; oppure, indipendentemente dal numero, dalla circostanza che a licenziare sia un’impresa che ha ottenuto l’intervento pubblico della cassa integrazione guadagni, secondo la previsione dell’art. 4, comma 1);

b) la fattispecie di riduzione del personale regolata dalla L. n. 223 del 1991, non presuppone necessariamente una crisi aziendale, e neppure un ridimensionamento strutturale dell’attività produttiva, potendo il requisito della riduzione o trasformazione di attività o di lavoro ravvisarsi nella decisione di modificare l’organizzazione produttiva anche soltanto con la contrazione della forza lavoro, con incidenza effettiva e non temporanea sul solo elemento personale dell’azienda (Cass. 27 aprile 1992, n. 5010; 5 maggio 1995, n. 4874; 21 ottobre 1999, n. 117940);

c) nel disegno legislativo, la fattispecie di licenziamento collettivo per riduzione di personale è assoggettato a forme di controllo ex ante della decisione imprenditoriale, controllo di tipo sindacale e pubblico, ritenute maggiormente adeguate alla rilevanza sociale del fenomeno rispetto alle tecniche di controllo giudiziale ex post ed a dimensione individuale, restando escluso che la legittimità del recesso possa dipendere dai motivi della riduzione di personale, non sindacabili, infatti, dal giudice (tanto è vero che la riduzione di personale "ingiustificata" non è prevista dalla legge tra i motivi di annullamento dei singolo licenziamento);

d) la qualificazione del licenziamento in base al progetto di riduzione del personale con effetti sociali rilevanti comporta, in attuazione dell’art. 41 Cost., commi 2 e 3, che l’imprenditore sia vincolato non nell’an della decisione ma soltanto nel quomodo, essendo obbligato allo svolgimento della procedura di cui all’art. 4, che realizza così lo scopo di procedimentalizzare il potere di recesso, il cui titolare è tenuto non più a mere consultazioni, ma a svolgere una vera e propria trattativa con i sindacati secondo il canone della buona fede; l’operazione imprenditoriale diretta a ridimensionare l’organico si scompone, infine, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi sindacali, ma entro una cerchia di soggetti delimitati dal "nesso di causalità", ossia dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative poste a base della scelta imprenditoriale (arg. ex art. 5, comma 1, primo periodo);

e) ai due livelli descritti, l’uno collettivo – procedurale, l’altro individuale – causale, corrisponde l’ambito del controllo giudiziale, cui è estraneo, come detto, la verifica dell’effettività e ragionevolezza dei motivi che giustificano, nelle enunciazioni dell’imprenditore, la riduzione di personale (cfr. ex plurimis, Cass. 4970/1999; 11455/1999; 2463/2000; 9045/2000; 6385/03; 13182/2003;

9134/2004; 10590/2005; 528/2008), ed il sistema sanzionatorio di cui all’art. 5, cosicchè il lavoratore licenziato è abilitato a far valere l’inesistenza del potere di recesso per violazione delle regole della procedura (inefficacia del negozio risolutivo), ovvero la lesione del diritto ad un scelta imparziale per violazione dei criteri stabiliti dalla legge o dall’accordo sindacale (annullamento del licenziamento).

5, La sentenza impugnata motiva la decisione con esclusivo riferimento al disposto della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, nella parte in cui prescrive che la comunicazione preventiva per iscritto ai sindacati deve contenere, oltre all’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza e l’impossibilità di altre soluzioni, la precisazione del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente nonchè del personale abitualmente impiegato, nonchè delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma di messa in mobilità.

In apparenza, dunque, esercita il controllo giudiziale nell’ambito che la legge gli assegna in ordine al momento procedurale – collettivo; in realtà, lo estende indebitamente ai motivi determinanti la scelta imprenditoriale. La Corte distrettuale, infatti, dopo aver premesso, in linea con gli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità, che le violazioni della procedura (consistenti, in particolare, nell’insufficienza delle informazioni date alle organizzazioni sindacali) hanno effetti lesivi (anche) dei diritti individuali, con la conseguente irrilevanza, su questo piano, degli accordi sindacali comunque raggiunti (cfr. Cass. S.U. n. 302 e n. 419 del 2000; Cass. n. 15377/2004), ha ritenuto che non fosse stato adempiuto l’onere di indicare la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente nel presupposto, necessariamente implicito del ragionamento, che non fosse ammissibile ridurre il personale per le causali indicate dall’imprenditore. La decisione, quindi, proprio sulla base degli accertamenti di fatto compiuti dallo stesso giudice di merito e pacifici nella controversia, non è conforme, prima che al disposto della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, ai principi sopra riassunti e desumibili dagli artt. 1 e 24 della stessa Legge.

Per questa ragione non è possibile dare continuità al precedente costituito da Cass. 11 luglio 2007, n. 15479, che, decidendo su controversia analoga, ha rigettato il ricorso di Poste Italiane SpA essenzialmente sul rilievo che il giudice del merito aveva correttamente assolto il compito istituzionale di accertare il fatto della insufficienza della comunicazione preventiva di avvio della procedura. Peraltro, va anche ricordato che il diverso segno del rigetto del ricorso dei lavoratori, nella vicenda dei licenziamenti derivati dalla stessa riduzione di personale, è presente in altre decisioni della Corte (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; 14 giugno 2007, n. 13876, non massimata).

6. L’azienda postale aveva avviato la procedura di mobilità motivandola con l’esigenza di ridurre i costi mediante l’attuazione di una riduzione complessiva di personale; aveva precisato che il ridimensionamento concerneva in varia misura tutti i settori produttivi, tutte le professionalità impiegate e l’intero territorio nazionale, facendo altresì presente che le denunciate eccedenze avrebbero potuto avere un impatto sociale minimo nel caso di adozione del criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione, posseduto da molti dipendenti. Si preannunciava altresì, dopo i licenziamenti, una riorganizzazione del lavoro soprattutto mediante mobilità geografica del personale. La comunicazione alle organizzazioni sindacali precisava, quindi, il numero dei lavoratori ritenuti eccedenti suddivisi tra le quattro aree funzionali di inquadramento (area di base, area operativa, area quadri di secondo livello e area quadri di primo livello) e per regione geografica. La sentenza impugnata giudica, sotto questo specifico profilo, insufficiente il contenuto della comunicazione preventiva perchè il necessario nesso causale tra le "esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale" e i licenziamenti progettati non risultava in alcun modo precisato, non essendo idoneo a colmare la lacuna il criterio di scelta poi concordato con i sindacati (possesso dei requisiti per la pensione), criterio che presupponeva il nesso indicato e avrebbe giustificato i singoli licenziamenti fino a concorrenza del numero complessivo determinato dalle esigenze tecnico produttive ed organizzative.

Specificamente, l’insufficienza dei contenuti della comunicazione è ravvisata nella mancanza di indicazioni "in ordine alla specifica collocazione nei diversi uffici locali e profili professionali", o "concrete posizioni lavorative", del personale ritenuto eccedente, lacuna non colmata dal riferimento generico alle quattro aree contrattuali di inquadramento, ciascuna comprendente "professionalità estremamente varie ed eterogenee" (visto che vi erano state raggruppate le qualifiche funzionali e i numerosi profili professionali del precedente ordinamento pubblicistico) senza precisare quali, tra le posizioni professionali all’interno di ciascuna area, fossero da ritenere eccedenti. In definitiva, secondo la valutazione del giudice del merito, Poste italiane aveva l’onere di specificare l’eccedenza ufficio per ufficio, con riguardo al settore di attività e alla dislocazione territoriale, indicando gli addetti alle mansioni concrete ritenute non più utili per l’organizzazione.

7. Così decidendo e come già avvertito sopra, la sentenza impugnata ha violato le disposizioni dell’art. 1 e, conseguentemente anche della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3.

a) L’art. 1 perchè ha negato, al di là dei profili formali sui quali apparentemente si incentra la motivazione, la facoltà di Poste Italiane SpA, che svolge l’identica attività produttiva sull’intero territorio nazionale, di decidere il ridimensionamento dell’impresa con esclusivo riguardo alla consistenza complessiva del personale ed al fine di ridurre i costi di gestione, determinando le eccedenze in un certo numero di lavoratori regione per regione e per area di inquadramento professionale, così sottoponendo a sindacato la scelta imprenditoriale e finendo, nella sostanza, per considerare ingiustificata una riduzione di personale in questi termini progettata dall’imprenditore, in violazione del complesso dei principi richiamati sub n. 7.

b) L’art. 4, comma 3, perchè la sufficienza dei contenuti della comunicazione di avvio della procedura alle organizzazioni sindacali si deve necessariamente valutare con riferimento ai motivi, esternati nella stessa comunicazione, che determinano l’eccedenza e alle misure proposte dallo stesso imprenditore per attenuare l’impatto sociale dei licenziamenti.

8. Pertanto, in applicazione dei principi di diritto sopra precisati, il progetto di riduzione del personale complessivo dell’azienda postale imponeva di indicare soltanto la ripartizione delle eccedenze per categorie professionali, nonchè per le aree del territorio nazionale, anche in vista della conseguente necessità di una nuova distribuzione geografica del personale e di una riorganizzazione del lavoro. In relazione a tale progetto, infatti, non sarebbe stato coerente l’indicazione di uffici o reparti con eccedenze, coincidendo la "collocazione" dei dipendenti da licenziare con l’intero complesso aziendale; nè avrebbe avuto alcun senso la specificazione delle concrete posizioni lavorative che si intendevano eliminare, risultando tale profilo completamente estraneo alle ragioni della decisione imprenditoriale.

D’altra parte, – come chiarito da Cass. n. 84/2009; Cass. n. 4653/2009) il riferimento legislativo ai "profili professionali" va inteso si in termini di esclusione della prospettiva formale delle categorie (artt. 2095 e 2103 c.c.) al fine di privilegiare gli aspetti funzionali della categoria o qualifica di inquadramento, ma ciò non significa certo richiedere l’indicazione delle concrete posizioni lavorative, cioè delle mansioni svolte, restandosi pur sempre sul piano astratto della classificazione del personale alla stregua della disciplina applicabile al rapporto di lavoro; ed allora, se il giudice di merito aveva accertato che la contrattazione collettiva recava un sistema di inquadramento del personale per "aree funzionali", ciascuna caratterizzata dall’idoneità professionale allo svolgimento di una pluralità di mansioni, non si comprende perchè l’indicazione dell’area di appartenenza non sarebbe indicazione dei "profili professionali" (di totale incongruenza si palesa, poi, il riferimento al superato sistema di classificazione del personale presso l’azienda autonoma statale, prima della privatizzazione dei rapporti di lavoro).

9. La sentenza, inoltre, si pone anche in contrasto con il principio di diritto secondo cui, in ragione del fine delle informative sulla procedura di mobilità, che è quello di favorire la gestione contrattata della riduzione di personale, la circostanza che sia stato in concreto raggiunto tale fine, per essere stato stipulato un accordo con le organizzazioni sindacali, assume rilevanza nel giudizio di completezza della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, mentre le eventuali insufficienze o inadempienze informative possono, in ogni caso, essere fatte valere dalle organizzazioni sindacali e non dai singoli lavoratori, salvo che questi ultimi dimostrino l’idoneità in concreto di siffatte informative a forviare o ledere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali, con ricadute a essi lavoratori pregiudizievoli (Cass. n. 528/2008). Pur avendo accertato, infatti, che vi era stata effettivamente la gestione contrattata della riduzione di personale in tutti i profili, fino realizzare il risultato di un notevole ridimensionamento delle eccedenze inizialmente programmate, non ne ha tratto le conseguenze sul piano della sufficienza delle informazioni fornite nella fase di avvio della procedura.

10. Peraltro, anche la prospettiva di ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti mediante l’applicazione del criterio di scelta (necessitante di accordo sindacale) del possesso dei requisiti per la pensione, offriva elementi utili alla valutazione di sufficienza e coerenza dei contenuti della comunicazione preventiva. Il detto criterio, in linea con le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 268 del 1994, è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione, coerente soprattutto con le finalità del controllo sociale affidato ai sindacati e agli organi pubblici (vedi Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; 24 aprile 2007, n. 9866) ed è ora consacrato a livello legislativo dalla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 3.

Le condizioni favorevoli per un accordo sindacale sul detto criterio erano appunto costituite dalla riduzione di personale da operare sull’intero organico dell’azienda su base nazionale e in relazione a tutte le aeree di inquadramento del personale, senza distinzioni tra uffici e settori produttivi specifici.

Anche questo aspetto induce, quindi, a ritenere sufficienti i contenuti della comunicazione di avvio della procedura, procedura sfociata poi nell’auspicato accordo sindacale.

11. Il ricorso va accolto sulla base dei seguente principio di diritto: "In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale dalla L. n. 223 del 1991, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo giurisdizionale, cosicchè, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso alla stregua della classificazione per aree funzionali – ciascuna caratterizzata dall’idoneità professionale allo svolgimento di una pluralità di mansioni -, tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura, che, nell’ambito delle misure idonee ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione".

12. La cassazione della sentenza impugnata comporta il rinvio – senza possibilità di decidere nel merito- per il riesame alla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

13. Va, in proposito, precisato che, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nel testo novellato dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 66, la cassazione sostitutiva, con giudizio nel merito, è consentita nei soli casi in cui, dopo l’enunciazione del principio di diritto, la controversia debba essere decisa in base ai medesimi apprezzamenti di fatto che costituivano il presupposto del giudizio di diritto errato, in tal guisa postulandosi che il giudice del merito abbia avuto modo di esprimere siffatti apprezzamenti ai fini di una specifica decisione; essa non è pertanto consentita nei casi in cui l’intervento caducatorio della decisione di legittimità apra la via ad una pronuncia su questioni non esaminate nella pregressa fase di merito, atteso che la norma suddetta, nell’escludere la cassazione sostitutiva in presenza della necessità di accertamenti "ulteriori", limita la possibilità di tale provvedimento alla sola ipotesi in cui tutti gli accertamenti siano stati compiuti dal giudice competente e quindi impedisce che in sede di cassazione sostitutiva possano essere rese decisioni su questioni nel merito delle quali il giudice "a quo" non si sia pronunciato, decisioni che, pertanto, non essendo destinate a sostituire alcuna pronuncia precedente, si configurino a loro volta come ulteriori rispetto a quelle cassate (Cass. n. 17221/2002).

14. Deve, sotto questo profilo, dichiararsi inammissibile il riccio incidentale condizionato alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo cui è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa sollevi questioni che il giudice di appello non abbia deciso in senso ad essa sfavorevole avendole ritenute assorbite, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (Cass. S.U. n. 14382/2002).

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia anche, per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.